Louise Michel
La comune
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PARTE QUARTA L'ECATOMBE

III. Dai Bastioni a Satory e a Versailles.

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III.
Dai Bastioni a Satory e a Versailles.

Io non avevo visto mia madre da tanto tempo, e siccome a Montmartre continuavano i massacri, ero inquieto sulla sua sorte: sapendo ove avrei potuto trovare i miei compagni, risolsi d'andarla a trovare, di raccontarle tante bugie perchè essa acconsentisse a non uscire. – Mi crederebbe? Avrei trovata lei sola? Quelli che non hanno vissuto quei giorni ignorano queste ansie.

Mi feci imprestare una giacca grigia, essendo la mia bucata di palle; mi misi una cappellina, e me ne andai con l'aria più borghese di questo mondo, dove io aveva, al n. 24, la mia classe e il domicilio per me e mia madre.

Montmartre era piena di soldati, ma come nel mio viaggio a Versailles, io non ispirai sospetti.

La nostra vecchia amica, madama Blin, che avevo incontrata, si unì a me: nulla aveva inteso dire di mia madre, della classe in cui io ero, se non che i ragazzi vi erano ancora negli ultimi giorni, come al solito. Più mi avvicinavo e più la mia inquietudine cresceva. – Che sepolcro Montmartre in quei giorni di maggio!

Della gente dall'aspetto sinistro, col bracciale tricolore, guardando dall'alto al basso, passavano parlando ai soldati.

La corte della scuola è deserta, la porta chiusa, non a chiave però: la piccola cagna Finette urla sentendomi. È chiusa in cucina insieme al gatto: le povere bestie gemono. Ma non vedo mia madre: ne chiedo alla portinaia che esita: finalmente mi confessa che i Versagliesi sono venuti a cercarmi e non avendo potuto trovarmi hanno condotto via mia madre per fucilarla.

C'è un posto di guardia dell'armata detta regolare al caffè in faccia: vi corro e domando che cosa è avvenuto di mia madre fatta prigioniera in vece mia.

Dev'essere fucilata subito, mi risponde freddamente un d'essi, il capo.

– Vuol dire che ricomincerete per me, grido loro. – Dov'è? Dove sono i vostri prigionieri?

Mi dicono che sono al bastione 37, dove ora mi condurranno.

Ma io so dov'è il bastione, non ho bisogno di guida, e mi lancio avanti, seguita dai soldati.

Ho furia di vedere mia madre, che io credo morta, e di gettare la mia vita in faccia a questi mostri.

Al bastione 37, in un grande cortile affollato di prigionieri, io la vedo in mezzo agli altri, quasi tutti amici: mai al mondo ho provatagrande gioia.

I soldati che mi avevano condotta, nello stesso tempo che io chiedevo al comandante la libertà di mia madre, giacchè io stessa venivo a prendere il mio posto – gli raccontarono che cos'era accaduto; comprese e mi accordò di accompagnare mia madre fino a mezza strada per essere sicura che sarebbe tornata a casa.

La povera donna non voleva lasciarmi, ma davanti al dolore ch'io ne provava, e un po' rassicurata dagli altri prigionieri che mi avevano capita, e per il permesso che io aveva di accompagnarla, finì per lasciarsi persuadere.

I soldati che erano venuti con me dovevano accompagnarla fino in via Oudot; io li lasciai a metà cammino, come avevo promesso e tornai sola al bastione. Avevo messo il mio tempo a profitto per dirle tante cose rassicuranti: che le donne non si fucilavano più, ch'era questione di pochi mesi di prigione; ma non mi credeva più: troppe volte l'ingannavo.

– Non avete dunque fiducia in noi? – mi dice il comandante vedendomi tornare.

– No – gli rispondo.

Ripresi il mio posto in mezzo ai prigionieri; ce n'erano di Montmartre, del Comitato di vigilanza, del Club della rivoluzione, e sopratutto del 61° battaglione.

Una volta di fumo si stendeva sopra Parigi; e il vento, come voli di farfalle nere, ci portava nugoli di carta bruciata.

Il cannone rombava.

In faccia a noi, sopra un poggetto, si elevava un palo pronto per le esecuzioni.

Il comandante tornò presso di noi, e mostrando lingue di fuoco che saettavano fra mezzo il fumo, mi dice:

– Ecco l'opera vostra!

– Certo, – rispondo. – Noi non capitoliamo.

Fu condotto un giovanotto con la testa spaccata, alto, rassomigliante a Mègy: lo si prendeva infatti per Mègy.

Gridammo in coro: «Non è Mègy».

Egli scosse la testa come per dire: Tanto, che importa? – Fu fucilato sul poggetto e morì da bravo. Nessuno di noi lo conosceva.

Davanti a noi una o due file di soldati attendevano gli ordini.

La sera intanto era calata; v'erano spazi folti d'ombre, altri appena rischiarati da lanterne.

C'erano fra i prigionieri due commercianti di Montmartre, usciti di casa per curiosità, per vedere, e trascinati via dai soldati. Noi non siamo in pena per noi – dicevano –; noi eravamo piuttosto contrari alla Comune e non abbiamo presa parte alcuna ai moti rivoluzionari. Ora ci spiegheremo ed usciremo di qui. –

Noi però li sapevamo in pericolo almeno quanto noi.

Ad un tratto arriva un drappello dello stato maggiore a cavallo: chi lo comandava era un uomo piuttosto grosso, dal viso regolare, ma con gli occhi pieni di fuoco, che pareva volessero schizzar fuori. Il viso era tutto rosso, come se il sangue si fosse fermato per marcarne il furore; il suo cavallo si tiene immobile, si direbbe di bronzo.

Allora, alto sul suo cavallo, i pugni stretti ai fianchi, con un'aria di sfida, davanti ai prigionieri, comincia:

– Sono io Gallifet! Voi mi credete crudele, voialtri di Montmartre, ed io lo sono più ancora di quel che pensate.

E continua su questo tono per alcuni momenti senza che sia possibile capire altre parole che minacce incoerenti.

Siamo parecchie centinaia, e non sappiamo se ci fucileranno sullo spalto o in mezzo al cortile. Tuttavia ci leviamo la polvere da dosso. Tutti noi del '71 avevamo, per l'abbigliamento di morte, della civetteria; nello stesso tempo quella frase: «Sono io Gallifetera così sciocca da ricordarci una vecchia canzone dei tempi delle opere arcadiche:

Son io che son Lindoro,
Pastor di questo gregge!

Che strano pastore, e qual più strano gregge, Questo primo verso che mi venne alla mente non so come, ci fece ridere.

Tirate sul mucchio! – grida Gallifet furioso. I soldati, nauseati di sangue, stanchi d'ammazzare, lo guardano come in sogno, senza muoversi.

Allora, terrorizzati, i due commercianti si mettono a fuggire qua e , urtando i prigionieri e soldati per farsi strada.

Volgendo la sua collera su quei due, Gallifet li fa prendere ed ordina di fucilarli. Quelli gridano, dibattendosi, non volendo morire: ci raccomandano i loro bambini, come se dovessimo sopravvivere, e sono così spaventati che non possono nemmeno darci l'indirizzo.

Abbiamo un bel gridare: – Sono dei vostri! Non li conosciamo! Sono nemici della Comune! – Uno fu ucciso, non al palo ma fuggente sullo spalto; tirano su di lui come su una bestia, alla caccia; l'altro girava intorno al palo non volendo morire. Uno di essi grida: Ahimè! così dicono gli altri prigionieri; io credetti di aver sentito dire: Anna!, forse il nome di sua figlia. Al ritorno dalla Caledonia, dopo la pubblicazione delle mie memorie, la sua figliuola venne infatti a trovarmi. Non si era mai potuto sapere che cosa fosse successo dei due fratelli.

Gallifet era scomparso; ci fecero mettere in fila: alcuni soldati di cavalleria si misero ai nostri fianchi e ci condussero non so dove. Si camminava cullati dal passo cadenzato dei cavalli, nella notte rischiarata di tanto in tanto da bagliori rossi: e a volta a volta boati di cannone, crepitìo di mitraglia: era l'ignoto: come una nebbia di sogno, nel quale però nessun dettaglio poteva sfuggirci.

Improvvisamente ci fanno scendere in un torrente: riconosciamo i dintorni della Muette. È qui, pensiamo, dove andiamo a morire. Nulla di più terribilmente bello di questa scena.

La notte, senz'essere cupa, non era però così chiara da lasciarci vedere le cose quali sono; le loro forme vaghe però si adattavano bene alle circostanze. Raggi di luna guizzavano fra i piedi dei cavalli, nello stretto viottolo per cui scendiamo.

L'ombra dei cavalieri si disegna come una frangia nera alla luce delle torce: pareva di veder sanguinare le fasce rosse sulle uniformi dei federati mezzo strappate: i soldati parevano grondanti.

La lunga fila dei prigionieri serpeggiava lontana, impicciolendosi alla coda, come si vede nelle incisioni: non credevo fosse così somigliante al vero.

Sentiamo caricare i fucili: poi nulla più che il silenzio e l'ombra.

– Che pensate voi? – mi domandò uno di quelli che ci scortavano.

Guardo! – risposi.

Ad un tratto ci fecero rimontare, e riprendemmo la nostra marcia: ci fecero quindi riposare un pezzo. Andavamo a Versailles.

Arriviamo difatti a Versailles: nugoli di piccoli mascalzoni ci vengono incontro urlando come torme di lupi: alcuni tirano sopra di noi: un mio compagno ne ha la mascella rotta.

Devo rendere giustizia ai soldati, chè respinsero lontano quelli imbecilli e le sgualdrinelle che li accompagnavano. Passiamo oltre Versailles, marciamo ancora; poi ecco un muro merlato: Satory.

La pioggia era così forte, che pareva di camminare nell'acqua. Davanti alla piccola altura ci gridano: Montate come all'assalto degli spalti! e noi marciamo come al passo di carica, accompagnati da lontano dai colpi di cannone. Ci puntano addosso le mitragliatrici: avanziamo ugualmente.

Una povera vecchia arrestata ci racconta che le avevano fucilato il marito, e che bisognava trascinarsi avanti per non restare indietro dove sarebbe stata sgozzata o fucilata secondo l'ordine dato; e s'affannava e voleva gridare, quando mi venne l'idea di dirle:

– Non fate bestialità; è usanza di puntare le mitragliatrici quando si entra in un forte.

Potevamo essere tranquilli: non ci sarebbe stato altro grido che quello di Viva la Comune!

Furono ritirate le mitragliatrici. I miei compagni di prigionia furono messi insieme agli altri federati, sdraiati sotto la pioggia: e nel fango del cortile; la vecchia fu mandata in infermeria (mi parve strano ci fosse una infermeria in quel luogo, che rassomigliava perfettamente ad un macello!) Io fui messa in un piccolo stambugio, presso il fienile, dove stavano già alcune donne arrestate: Millière, perchè le avevano ucciso il marito; le signore Dereure e Barois, perchè credevano fosse stato ucciso pure il loro; Malvina Poulain, Mariani, Beatrice Excoffons e sua madre, perchè avevano servito la Comune, ed una vecchia Suora, perchè aveva dato da bere a dei federati moribondi. Alcune altre non sapevano il perchè dell'arresto; anzi ignoravano se fosse per parte di Versailles o della Comune.

Dall'altra parte della camera era un altro gruppo di donne, messe per poter dire che erano delle nostre: da parte mia posso assicurare che erano semplicementemogli degli ufficiali di Versailles.

Queste disgraziate si servivano, per le loro abluzioni, di due vasi d'acqua giallastra attinta alla cisterna del cortile, e ch'era messa per bere. In questa cisterna i vincitori lavavano le loro mani lorde di sangue e soddisfacevano i loro bisogni.

Ed era presso questa cisterna ch'io pensavo a quegli uomini che una volta ci chiamavano loro cari figli, e che la frenesia del potere faceva strangolatori della Rivoluzione. Pelletan, anche lui, si era ritirato davanti alla strage.

Durante la notte, Excoffons e sua madre avevano tirato fuori dalle loro tasche delle calze asciutte invece delle mie madide; m'avevano fatto lasciare la mia giacca che grondava d'acqua per darmene una asciutta. Io rimproverava a me stessa di essere così ben trattata mentre i miei compagni erano sotto la pioggia. Eravamo coricati a terra, sul pavimento e riducendo in pezzetti minutissimi le carte che io e l'Excoffons avevamo in tasca, fui contenta di poter dare notizia alle signore Dereure e Barois dei loro mariti ch'esse credevano morti e che io avevo visti poco prima: per la povera Millière, non avevo nulla da dire.

Alla mattina ci distribuirono un pezzo di pane nero per ciascuno, ed a me dissero che sarei stata fucilata solamente il giorno dopo.

– Quando vi piacerà! – risposi.

I giorni passarono. La Comune era già morta da tanto tempo. Noi avevamo inteso l'ultimo colpo di cannone della sua agonia la domenica del 28. Avevamo visto arrivare un convoglio di donne e di fanciulli, che furono mandati a Versailles, essendo già Satory zeppa, all'infuori di alcune donne, le più colpevoli, che furono lasciate con noi. Erano le cantiniere della Comune.

Non si potrebbe pensare nulla di più orribile, delle notti di Satory. Si potevano intravvedere – attraverso una finestra dalla quale era proibito guardare sotto pena di morte (non era però il caso di darsene pensiero) – si poteva intravvedere delle cose quali non vidi mai....

Sotto la pioggia intensa, di tempo in tempo, al bagliore di una lanterna che si sollevava da terra, i corpi sdraiati nel fango apparivano in forma di solchi o di donde fluttuanti se si produceva un movimento qualsiasi nella larga distesa sulla quale scorreva a ruscelli la pioggia. Si udiva il piccolo rumore secco dei fucili, si vedeva il bagliore sinistro dei proiettili che penetravano nel mucchio, uccidendo a caso.

Altre volte si chiamavano dei nomi: degli uomini si alzavano e seguivano la lanterna che precedeva: i prigionieri portavano sulla spalla il piccone e la zappa per scavarsi le loro fosse; poi seguivano i soldati, il plotone incaricato delle esecuzioni.

Il corteo passava: alcune detonazioni e per quella notte era finita.

Una mattina mi chiamano: ci stringiamo la mano, credendo di non rivederci più: non andai molto lontano, solo fino al gabinetto.

C'era un uomo seduto, davanti ad una piccola tavola. Cominciò a interrogarmi:

Dove eravate il 14 agosto?

Fra me stessa pensai che cosa era accaduto il 14 agosto, poi risposi:

– Ah, l'affare della Villette! Ero davanti alla caserma dei Pompieri. – Rispondevo con dolcezza, divertendomi come una scolara.

– E al funerale di Vittore Noir, c'eravate voi?

– Sì.

L'uomo cominciò ad aggrottare la fronte.

– E il 31 ottobre, e il 22 gennaio, davanti al Municipio, c'eravate? Che avete fatto durante la Comune?

– Ero nelle compagnie di marcia.

Era diventato rosso di collera: rompendo la penna sulla carta gridò:

– Questa donna a Versailles!

Furono interrogate tutte; e le une perchè avevano servito la Comune, le altre perchè erano mogli di uomini già condannati, fummo inviate a Versailles.

La nostra fila comprendeva ancora una o due di quel le figuranti, che noi avevamo incontrato a Satory e che ancora erano insieme; trattate meglio, però.

Si aveva bisogno, mi aveva detto il giudice interrogante, di mostrare alla luce del sole i delitti della Comune.

Gli è per questo che noi dovevamo ritrovare, nelle prigioni dei Cantieri parecchie di queste disgraziate.

Sulla strada da Satory a Versailles una donna, accesa di rabbia, con la bocca aperta per vomitarci addosso una pioggia d'insulti, tentava di prenderci per la gola; gli avevano detto che noi avevamo ucciso sua sorella; ad un tratto getta un urlò, una prigioniera arrestata a caso ne getta un altro: era sua sorella che da parecchi giorni cercava inutilmente!

Perdono, perdono! – ci gridava allontanandosi sotto i rabbuffi dei soldati.

Arrivammo alla prigione dei Cantieri: si entra per una porta che ha la volta a vetri, passiamo attraverso una prima sala dove stanno prigionieri centinaia di ragazzi: per mezzo di una scala e di un buco montiamo nel camerone superiore: è la nostra prigione, quella delle donne. Una seconda scala proprio di faccia alla prima, in legno, conduce al gabinetto d'istruzione del capitano Briot: troviamo anche in questa prigione le stesse donne prigioniere da burla.

Quella dei Cantieri, specialmente in quei tempi, non era una prigione troppo comoda. Di giorno se si voleva sedersi, bisognava sedersi a terra: le panche non ci furono concesse che molto tempo dopo. Quelle del cortile furono messe , credo, per le nostre fotografie: fotografie vendute all'estero ed illustranti un volume storico, e stampate con questa leggenda: Petroliere e artiste di canto!

Dopo quindici o venti giorni ci passarono un materasso di paglia per ogni due: fin allora noi ci eravamo coricate sul pavimento come a Satory: si aggiunse al nostro pasto, fatto solo di pane di segale, una scatola di conserva per ogni quattro.

– Che a Versailles comincino ad aver paura? – pensavamo noi, meravigliate di quella profusione.

Ma ogni giorno arrivavano gruppi di prigionieri e ci dicevano che il terrore era più spaventoso di prima. Vi erano tanti morti nelle prigioni che si temeva ancora la pestilenza dei cadaveri. Nella notte, al di sopra dei nostri corpi – lo stanzone pareva proprio la Morguesvolazzavano, al vento che fischiava d'ogni parte, gli scialli ed altri stracci sospesi con delle cordicelle sulle nostre teste e che al chiarore fumoso delle lampade poste alle due estremità, vicine ai guardiani, parevano voli d'uccellacci.

Questi cenci, che lasciavamo durante il sonno per paura di rovinarli di più, erano i soli abbigliamenti che si potevano avere. Impossibile metterne altri, anche se ne avessimo avuto con noi; sarebbe stato infine impossibile cambiarci davanti ai soldati che ogni momento andavano e venivano per chiamare quelle disgraziate che, non ostante le nostre recriminazioni, erano lasciate con noi.

Non si dormiva molto, grazie anche ai parassiti; ma la nostra morgue prendeva all'alba strani effetti di campi in raccolta. Le spiche schiacciate e vuote delle magre stuoie di paglia s'indoravano brillando come un campo di stelle.

Qualche volta si ciarlava, si rideva: potevamo avere dalle ultime arrivate notizie dei nostri. Per quelle pochissime invece che uscivano per inesistenza di reato, potevamo far fare delle commissioni: potei così far dire a mia madre che io stavo benone; ma non mi credeva oramai più, e si rassegnò alla mia prigionia.

Arresti fatti a caso non mancavano: una sordomuta restò qualche settimana per aver gridato: Viva la Comune!...

Una donna d'ottant'anni paralizzata nelle due gambe era stata arrestata per aver fatto delle barricate; un'altra vecchia, tipo età della pietra, un misto di rozzezza e di infingardaggine, girò per tre giorni intorno al buco della scala, con un paniere al braccio e un parapioggia in mano.

C'erano nel paniere alcuni esemplari di una canzone composta da suo marito: un letterato, diceva. Vendeva per guadagnarsi il pane questa canzone, che si credeva in onore della Comune. Era invece in gloria di Versailles! La buona donna era stata imprigionata e suo marito l'aspettava.

Dapprima si pretese che noi dicessimo ciò per cattiveria: portai allora una di quelle canzoni all'istruzione. Cominciava così: Buoni signori di Versailles entrate in Parigi!

Non c'era da negare: era stampato; avevano speso fin l'ultimo soldo, quei poveretti, con la speranza di raddoppiarli.

Il giudice si arrese all'evidenza e la vecchia, felice, scese la scala col suo paniere e l'ombrello. Si fermò da noi e credendo di minchionarci ci disse:

– Se avesse vinto la Comune avremmo messo: Buoni signori di Parigi, entrate in Versailles!

Doveva collaborare con suo marito...

Un altro passatempo ai Cantieri, era di vedere la domenica, in mezzo alle sgualdrine che venivano insieme agli ufficiali, alcune borghesi curiose e sciocche, che sollevavano la coda dei loro vestiti sopra il sudiciume. Una d'esse, dal superbo profilo greco, ma troppo altero, mi chiese gentilmente se sapevo leggere bene.

– Un po' – risposi.

– Allora vi lascerò un libro perchè possiate meditare con Dio.

Lasciatemi piuttosto il giornale che avete in tasca – le risposi. – Il buon Dio è troppo versagliese.

Mi volse le spalle, ma nella sua mano vidi il giornale, che dietro le spalle mi tendeva. Non era così bestia e stupida come si poteva credere.

Un giornale! il Figaro! Avremmo potuto sapere i delitti nostri, e specialmente sapere se alcuno dei nostri amici era arrestato. Lo facciamo scivolare di mano in mano, ché non si può leggerlo ora: è la visita, ma sappiamo di avere un giornale. Nell'attesa; avendo trovato un pezzo di carbone, segnavo sui muri le caricature dei visitatori, così somiglianti da farli andar sulle furie.

I miei delitti, così s'ammucchiavano, tanto più che avevo scritto sui muri stessi, che noi reclamavamo d'essere divise dalle donne versagliesi messe insieme a noi per insultare la Comune.

Io avevo, in terzo luogo, buttato nella testa d'un gendarme una bottiglia di caffè portatami e fattami passare all'inferriata da mia madre. Egli voleva togliermela, mentre io avrei voluto consegnargliela quando mia madre si fosse allontanata.

Chiamata dal capitano Briot, avevo messo il colmo a questi attentati all'ordine, dichiarando che mi rincresceva di aver agito così verso un pover'uomo: – Ma, soggiunsi, non v'era nessun ufficiale.

Siccome però non ero la sola a rendermi colpevole di simili delitti, fecero la lista delle più cattive, sovvertitrici, come dicevano.

Dopo il mio arresto mi chiedevano se io avevo dei parenti a Parigi; e perchè non fossero arrestati rispondevo infallantemente: – Non ne ho.

Un giorno, dopo la stessa domanda e la stessa risposta, il capitano Briot mi chiese a bruciapelo: – Non avete uno zio?

– No – risposi ancora. Ma avendo egli tolto dalla busta una lettera, vi potevo leggere, essendo ritta davanti alla scrivania. Mio zio era stato arrestato, ma non voleva che in nessun modo io mutassi la mia maniera d'agire, come se egli fosse ancor libero.

I miei due cuginiDacheux e Laurent – erano stati pure incarcerati: il primo aveva quattro piccoli bambini.

Vedete benedissi a Briot – che io avevo ragione di negare la mia famiglia, giacchè voi arrestate tutti i nostri.

Un giorno cominciarono a chiamare le più cattive, per inviarle al correzionale di Versailles:

Michel Luisa, Gorget Vittorina, Ch. Felicia, Papavoine Eulalia!

A questo nome «quegli incaricato di chiamare» fece la voce grossa: la povera ragazza non era neppur parente del celebre Papavoine; ma l'equivoco non stava male nell'insieme del quadro.

Eravamo quaranta. Il luogotenente Marceron, per inaugurare il suo ingresso alla direzione della Prigione dei Cantieri, cominciava con questo ordine.

Pioveva a torrenti, e noi aspettavamo in linea nel cortile: Marceron venne a scusarsi, indirizzandosi a me ch'ero la più cattiva: gli risposi che da parte di Versailles lo preferivamo così.

Al Correzionale il regime delle quaranta più cattive si trovò singolarmente addolcito. Ci diedero bagni e biancheria, e ci permisero di vedere i parenti.

Marceron non ci guadagnò che di veder cambiar le facce: le prigioniere che venivano dopo di noi si rivoltavano come noi: anzi dovettero farlo con maggior violenza chè Marceron si mise a battere con delle corde i bambini, cosa che i predecessori non avevano mai fatto.

Il piccolo Ranvier, tra gli altri, di appena 12 anni, fu picchiato perchè non voleva svelare il nascondiglio di suo padre:

– Io non lo sodiceva – ma se anche lo sapessi non lo direi!

Le povere donne che erano diventate o divenivano folli non furono più trascurate: le nuove prigioniere ne avevano cura, data l'abitudine nostra, e la nessuna paura che noi avevamo dei loro gridi di spavento. Credevano di vedere dappertutto e continuamente le scene d'orrore, la cui visione aveva loro fatta perdere la ragione: bisognava farle mangiare come dei bambini.

Un giorno le disgraziate furono condotte, ci dissero, in un manicomio.

Le signore Hardouin e Cadolle hanno scritto la storia atroce della prigione ai Cantieri, sotto il luogotenente Marceron.

In questo covo nacque la piccola Leblanc che doveva fare qualche mese più tardi, con noi, fra le braccia di sua madre, il viaggio in Caledonia sopra un naviglio dello Stato – la fregata Virginia.

La prigione dei Cantieri fu, alla fine dell'anno, adibita agli uomini. Tutte le case di pena rigurgitavano, e le donne che ancora rimanevano venivano mandate al Correzionale di Versailles.

* * *

Al Correzionale di Versailles si poteva con qualche astuzia aver notizia degli uomini detenuti nelle altre prigioni. – Quelli almeno vivevano ancora.

Noi sapevamo che c'erano già da parecchio tempo Ferré, Rossel, Grousset, Courbet, Gaston Dacosta, chiusi nella medesima cella di Rochefort che li aveva preceduti.

Sapevamo chi erano quelli che avevano potuto sfuggire al macello, quelli di cui nessuno poteva aver notizie, giacchè ogni giorno arrivavano nuovi arrestati; quando polizia e delatori erano insufficienti, cosa che avveniva di frequente – i poliziotti e i delatori ebbero per tutto il tempo il monopolio di questa infamia – si impiegavano altri mezzi.

Molti membri della Comune e del Comitato Centrale essendo stati arrestati, si pensava generalmente che ci sarebbe stato il loro processo; non ci fu invece, almeno nei primi tempi: il governo voleva preparare l'opinione pubblica alle condanne, facendo comparire in giudizio per prime, non le donne che avessero rivendicato altamente la loro condotta, ma le povere donne, il cui unico delitto era di essere state devote infermiere, raccogliendo e curando Parigini e Versagliesi con gli stessi sentimenti.

Queste devote ebbero delle parole giuste ma non osarono, poverette, di gettare in faccia ai giudici la loro onestà, assicurando di avere preso cura dei feriti senza guardare se essi appartenevano all'armata di Versailles o della Comune.

Furono di conseguenza condannate a morte.

Questa deliberazione stupì persino i soldati che erano stati curati da esse, come si erano già stupiti che da parte della Comune si conducevano i feriti all'ambulanza invece di ucciderli.

Fino ai processi dei membri della Comune si guardarono bene dal fare comparire gente che avesse potuto sfatare subito le accuse grottesche e sciocche e le dicerie infami raccolte con ogni cura da scrittori in capo ai quali erano Massimo Ducamp ed altri.

I Federati aspettavano i processi un po' dappertutto: nelle prigioni, nei forti, sui pontoni.

Si sperava di scoraggiarli.

I topi, la sporcizia e la morte non riducevano al silenzio che i disgraziati arrestati a caso tra la folla, come altri erano stati fucilati nella massa. Le statistiche ufficiali ricordano fra i detenuti, millecentosettantanove morti e duemila ammalati. Ma contavano queste statistiche i fucilati a Satory nei primi giorni, gli sconosciuti massacrati perchè non potevano seguire la marcia dei prigionieri regolata dal passo dei cavalli? e il numero di coloro a cui il terrore delle cose vedute aveva tolto la ragione? Quando per l'istruttoria fui ricondotta per alcune ore alla prigione dei Cantieri, appresi che i pazzi erano stati internati in un manicomio; così almeno dicevano: ma nessuno potè verificare, nessuno potè sapere il loro nome!

Finalmente giunse un ordine del governo che metteva sotto processo i membri della Comune e del Comitato Centrale caduti nelle mani del nemico.

Il processo cominciato il 17 agosto ebbe diciassette udienze.

Trecento sedie erano state preparate per l'assemblea di Versailles.

Due mila posti furono riservati ad un pubblico scelto: gli sgozzatori dell'armata regolare, al completo, offrivano la punta delle loro dita, inguantate a delle donne riccamente vestite e con gravi inchini le riconducevano al loro posto salutando.

Si negava ai membri della Comune il titolo di accusati politici, che si riconobbe tacitamente però con la condanna di alcuni alla deportazione semplice, pena essenzialmente politica. I rapporti dei poliziotti erano stati fatti sotto l'alta direzione di Thiers, ed erano raccolti in un incartamento spaventevole e grottesco, preparato apposta secondo l'intelligenza di chi ne era stato incaricato. Era costui il comandante Gaveau, uscito da poco da una casa di pazzi, il quale compì l'opera mettendoci del suo un pizzico di pazzia. La stampa reazionaria lanciò tante strida intorno alle accuse, che tutti gli spiriti liberi, all'estero, si ribellarono.

Lo Standard di Londra, ostile per l'avanti alla Comune, non trovava nulla di più rivoltante che l'attitudine della stampa francese intorno a questo processo.

Non volendo Ferré alcun difensore, il presidente nominò d'ufficio Marchand, che ebbe l'onesto pensiero di attenersi a ciò che Ferré lesse nelle sue conclusioni. Tuttavia causa le interruzioni odiose del tribunale, e i rumori della sala, così bene scelta, non potè leggerle completamente.

Così terminò Ferré:

«Dopo la conclusione del trattato di pace, conseguenza della vergognosa capitolazione di Parigi, la Repubblica era in pericolo. Gli individui che avevano sostituito l'impero, crollato nel fango e nel sangue, si aggrappavano al potere, e per quanto coperti del pubblico disprezzo, preparavano un colpo di stato, negando pervicacemente a Parigi l'elezione del suo consiglio comunale.

«I giornali onesti e s'inceri erano soppressi, i migliori patriotti condannati a morte... i realisti si preparavano a spartirsi gli avanzi della Francia: infine il 18 marzo si credettero pronti e tentarono il disarmo della guardia nazionale e l'arresto in massa dei repubblicani.

«Il loro tentativo fallì davanti all'opposizione intera di Parigi e l'abbandono dei propri loro soldati: fuggirono e si rifugiarono a Versailles.

«A Parigi, abbandonata a stessa, cittadini onesti e coraggiosi tentavano di ricondurvi l'ordine e la sicurezza.

«Dopo alcuni giorni la popolazione fu chiamata alle urne e la Comune fu così costituita.

«Il dovere del governo di Versailles era di riconoscere la validità di questo voto e di abboccarsi con la Comune per ricondurre la concordia: al contrario, come se la guerra con lo straniero non avesse fatto abbastanza miserie e rovine vi aggiunse la guerra civile: spinto dall'odio e dalla vendetta, attaccò Parigi e vi pose un secondo assedio.

«Parigi resistette due mesi, e fu conquistata. Per dieci giorni il governo autorizzò il massacro dei cittadini e le fucilazioni senza processo.

«Questi giorni funesti ci trasportano a quelli di San Bartolomeo. Si è trovato modo di offuscare giugno e dicembre. – Fino a quando il popolo continuerà ad essere mitragliato?

«Membro della Comune di Parigi, io sono fra le mani dei vincitori; vogliono la mia testa, eccola. Mai tenterò di salvare la mia vita con un atto di viltà: libero ho vissuto, libero io voglio morire.

«Non aggiungo che una parola. La fortuna è capricciosa: io confido all'avvenire la mia memoria e la mia vendetta».

Dopo questa arringa, interrotta ad ogni parola da insulti, e della quale pur coloro che si appellavano alla legalità erano costretti a riconoscere la verità dei fatti, e che a Londra fece una profonda impressione, il presidente Merlin aggiunse questo supremo insulto: «il memoriale di un assassino!», e il pazzo Gaveau aggiunse: «al bagno penale bisogna mandare una simile dichiarazione!....»

– Tutto ciò, continuò Merlin, non risponde alle accuse che vi sono mosse.

– Il che vuol dire, rispose Ferré, che io accetto la sorte che mi è fatta.

La Comune era glorificata, ma Ferré era perduto.

Jourde senza la sua prodigiosa memoria, sarebbe passato, in causa della sua  mirabile onestà, a proposito della Banca, per un ladro. Gli erano stati tolti i suoi conti; egli li ricostruì a memoria, con una chiarezza che avrebbe dovuto coprir d'onta il tribunale.

Champy, Trinquet rivendicarono l'onore di avere adempiuto fino alla fine all'incarico avuto. Urbain seppe mantenere puro il suo onore, nell'affare del complotto ordito contro lui con l'aiuto di de Montand, uno degli agenti messi al suo fianco da Versailles per tradirlo.

Gli infami retroscena del governo furono messi in luce dalla stampa europea, ed apparvero nella loro onestà rivoluzionaria gli uomini della Comune.

Questo fu il verdetto: a morte T. Ferré e Lullier; ai lavori forzati a vita Urbain e Trinquet; deportati in una cinta fortificata: Assi, Billioray, Champy, Regère, Ferret, Verdure, Grousset. Deportazione semplice: Jourde, Rastoul. Sei mesi di prigione e 500 franchi di multa a Courbet.

Assolti: Deschamp, Parent e Clèment perchè avevano dato le loro dimissioni da membri della Comune.

La commissione dei quindici carnefici, senza dubbio per ironia, era detta commissione di grazia, ed era presieduta da Thiers.

La commissione mandava al palo di morte con tutte le forme legali volute, il che faceva parte della messa in scena, come in Spagna la Cappella dei condannati.

Nell'attesa noi corrispondevamo fra una prigione e l'altra, avendo cura, se la cosa era scoperta, di non compromettere nessuno.

Lo fu difatti, e, cosa che parve più terribile, lo fu con una lettera in cui quei mostri, i nostri vincitori, erano trattati da imbecilli, e vi era inoltre raccontato che quegli idioti di poliziotti erano intenti a cercare dappertutto una persona morta, di cui avevano trovato la fotografia in una perquisizione: cosa del resto che accadeva loro di frequente.

Ma non era questo solo il nostro delitto: io avevo inviato dei versi ai nostri signori e padroni, non certo in loro onore.

A poco a poco, per mezzo dei prigionieri che sopraggiungono possiamo sapere particolari di crudeltà ancora sconosciute, come, per esempio, l'esecuzione di Tony Moillin, il quale non aveva fatto altro che parlare in comizi pubblici: aveva chiesto, perchè la donna sua non avesse noie, di regolare il suo matrimonio prima dell'esecuzione. Questa domanda gli fu accordata: ed essi attesero insieme l'ora presso il luogo ov'egli doveva essere giustiziato, senza che alcun particolare dell'esecuzione sfuggisse alla disgraziata donna.

Così potemmo sapere della morte di alcuni partigiani di Versailles, caduti con altri nel massacro del Châtelet. pure furono fucilati degli individui rimasti a casa, perchè le loro donne erano ritenute favorevoli alla Comune. Così fu assassinato il sig. Tynoire.

Una delle donne che più avevano tentato un accordo fra Parigi e Versailles fu la signora Manière: fu l'ultimo arresto ch'io vidi prima del mio trasferimento alla prigione di Arras.

Una mattina sono chiamata in cancelleria; già da tempo avevo reclamato il mio processo pensando che l'esecuzione di una donna poteva perdere Versailles. M'immaginavo quindi di esservi chiamata per qualche deliberazione in proposito. Era invece per la mia partenza da Arras; mi avrebbero giudicato quando avessero avuto tempo, ora intanto mi punivano.

Partendo, scrissi una protesta e raccomandai che, essendo il giorno dopo giorno di visita, volessero avvisare mia madre.

Dimenticarono di avvisarla, e per molti anni risentì poi del freddo che ella aveva subito durante il viaggio da Parigi a Versailles per non trovare alcuno!....

Seguì il processo di Rossel, condannato a morte per essere passato dall'armata regolare all'armata federale.

Bourgeois, sott'ufficiale, fu condannato a morte per la stessa ragione.

Il processo di Rochefort fu ancora ritardato: egli fu mandato ad attenderlo alla fortezza di Bayard.

A Versailles delle belle giovanette passavano spesso sotto gli oscuri corridoi della prigione di stato del 71: Maria Ferrè, dai grandi occhi neri e dai lunghi capelli bruni: la figlia di Rochefort, allora giovanissima; le due sorelle di Rossel, Bella e Sarah.

A Parigi vivevano due donne, di cui l'una pensava fieramente al fratello ucciso; l'altra continuamente nel l'ansietà del dubbio; la sorella di Delescluze e quella di Blanqui.

La notte dal 27 al 28 novembre, alla prigione di Arras, fui chiamata ed avvisata di tenermi pronta, dovendo partire per Versailles.

Non so a che ora si partì; era ancor notte, e con molta neve; due gendarmi mi accompagnavano: si prese il treno dopo aver atteso lungamente alla stazione, dove gli imbecilli venivano a vedermi come un'animale strano, ed a tentare di entrare in conversazione con me. Ma per il modo come rispondevo loro, il medesimo individuo non veniva da me due volte, ma restava ad una certa distanza guardandomi con gli occhi spalancati.

– Io credo che domani avremo parecchie esecuzioni a Satory – mi disse uno dei presenti.

Megliorisposi – ciò affretterà anche la esecuzione di Versailles.

I gendarmi mi fecero passare in una sala.

A Versailles incontrai alla stazione Maria Ferrè, pallida, senza lacrime: veniva a reclamare il corpo di suo fratello.

I gendarmi che mi accompagnarono furono destituiti per aver permesso che io e Maria camminassimo insieme.

Il giornale La Liberté del 28 novembre racconta così l'esecuzione di Satory:

«I condannati, sono calmissimi, e fieri. Ferrè, addossato al palo, butta il cappello in terra: un sergente si avanza per bendargli gli occhi: egli prende la benda e la getta sul suo cappello. I tre condannati restano soli: i tre pelottoni d'esecuzione, fattisi avanti, fanno fuoco.

«Rossel e Bourgeois sono caduti sul colpo: Ferrè rimasto un istante in piedi ritto, è caduto sul fianco dritto.

«Il chirurgo capo del campo, Déjardin, si precipita sui cadaveri: fa segno che Rossel è morto, e chiama i soldati che devono dare il colpo di grazia a Ferré e Bourgeois».

Il giudice Merlin era contemporaneamente del consiglio di guerra e delle esecuzioni. La Provincia, come Parigi, fu coperta dal sangue delle esecuzioni freddamente fatte.

Il 30 novembre, due giorni dopo gli assassini di Satory, Gastone Crémieux di Marsiglia fu condotto sulla distesa che costeggia il mare e che è detta del faro. Vi era già stato fucilato un soldato, certo, Paquis, passato nelle file popolari.

Crémieux comandò personalmente il fuoco, e volle gridare: Viva la Repubblica, ma solamente la metà della parola gli uscì dalle labbra. I soldati dopo ogni esecuzione sfilavano davanti al cadavere, al suono, della fanfara: così fecero al Faro, così a Satory.

Alla casa di Gastone Crémieux alcuni registri vennero coperti di firme. Questa manifestazione fece un'impressione di paura al governo. Vedendosi misconosciuto dalle coscienze libere, volle imporsi col terrore.

Quasi un anno dopo la Comune, il 22 febbraio alle 7 del mattino, i pali di Satory furono nuovamente insanguinati. Lagrange, Herpin Lacroix, Verdaguer, tre bravi e forti difensori della Comune, pagarono con la loro vita come tanti altri la morte dei generali Clemente Thomas, e Lecomte che Herpin Lacroix aveva voluto salvare, e che invece s'erano tirata addosso da stessi la propria rovina.

Il 29 marzo Préau de Vedel; il 30 aprile Genton, trascinandosi sulle stampelle per le ferite ancor aperte, si erge fieramente davanti al palo e cade da forte.

Il 25 maggio Serizier, Bouin e Boudin, per avere durante i giorni di maggio ucciso un individuo che si opponeva alla difesa.

Il 6 luglio Baudouin e Rouillac per l'incendio di Saint-Eloi e la lotta sostenuta davanti alle barricate.

Arrivati al palo ruppero le corde, lottarono contro i soldati e furono massacrati come buoi al macello.

– Gli è con questo che pensavano! – disse l'ufficiale comandante, schiacciando con la punta degli stivali i cervelli sparsi qua e per terra.

Quando i cadaveri s'erano ammucchiati si tornava ad accumulare sentenze: dopo il delirio del sangue, quello dei processi. Versailles credette di poter imporre il silenzio eterno sulla storia con il terrore.

Alcuni scrittori furono condannati per i loro articoli sui giornali: così Maroteau, condannato a morte per i suoi articoli sulla Montagne.

La professione di fede di questo giornale non era che l'esatto rendiconto dei fatti.

Maroteau aveva scritto nel primo numero della Montagne: «Io ho fatto il giuramento di Rousseau e di Marat: morire, se bisogna, ma dire sempre la verità. La verità è questa, ch'era impossibile nelle circostanze orribili create da Versailles, di scrivere come d'agire altrimenti.»

È strano che nel momento in cui citavo le parole di Rousseau, delle quali Marateau s'era fatta una legge, si scoprissero le tombe di Rousseau e di Voltaire per assicurarsi che le loro spoglie oggi venerate vi giacessero ancora.

Sì, ci sono: la testa di Voltaire ci ride in faccia, col suo sorriso incisivo, per aver fatto così poca strada. Lo scheletro di Rousseau, più calmo, incrocia le braccia.

Maroteau fu condannato sopratutto per aver detto la verità, ma per lui, come per Cyvoct, vent'anni dopo, non si osò eseguire la sentenza: fu inviato all'ergastolo dell'isola di Nou.

Maroteau, malato già di polmonite prima di partire, morì il 18 marzo.

Alfonso Humbert fu parimenti condannato ai lavori forzati a vita per alcuni articoli.

Rochefort fu condannato alla deportazione in una fortezza, per i suoi articoli e per la parte immensa presa alla caduta dell'Impero.

Gli articoli apparsi dopo le prime cannonate sul Mot d'Ordre avevano esasperato Versailles.

Si trattò dapprima di sottoporre Rochefort ad una corte marziale; poi di arrestare i suoi figliuoli, che, nascosti prima dal libraio della stazione d'Arcachon a Parigi, furono condotti via da Edmondo Adam.

La rabbia di Foutriquet fu momentaneamente calmata dalle condanne a morte, al bagno, alla deportazione dei membri della Comune, e dalla ricostruzione più bella della sua casa: aveva infatti riflettuto che se non fosse stata demolita lo Stato non gliel'avrebbe ricostruita, e siccome egli attribuiva agli articoli di Rochefort una grande parte in questa demolizione, desiderò che si limitasse la sua condanna alla deportazione, il che metterebbe in risalto la sua mansuetudine. Il 20 settembre 1871 quindi Rochefort, Enrico Maret e Mourot, comparvero sotto formidabili accuse.

Il presidente Merlin pronunciò la requisitoria. Le sue allucinazioni non riuscirono che alla deportazione perpetua, entro cinta fortificata, per Rochefort. Mourot, segretario di Redazione, alla deportazione semplice a vita. Enrico Maret a 5 anni di prigione.

Lockroy, avendo spinto troppo lontano una passeggiata fuori di Parigi, fu trattenuto prigioniero a Versailles fino all'entrata delle truppe. Fautriquet gli aveva proposto la scelta: o la prigione o il suo seggio di deputato inviolabile all'assemblea: preferì la prigione.

Madama Meurice, venuta a trovarmi in carcere, mi disse che anche suo marito era incarcerato.

Versailles avrebbe voluto incarcerare tutto il mondo.

Alcuni giorni dopo il processo di Rochefort, Gaveau, che aveva finito con l'ingarbugliare tutto, divenne improvvisamente pazzo.

Si processarono dei ragazzetti pupilli della Comune: avevano otto, undici, dodici anni: i più vecchi quindici.

E quanti morirono aspettando i vent'anni in una casa di correzione!

Come l'Inghilterra anche la Svizzera rifiutò di consegnare i fuggiaschi della Comune; salvaguardò così Razona, reclamato da Versailles: l'Ungheria rifiutò di rendere Fraukel. Roques de Filhol, sindaco di Purteaux, uomo integro, fu condannato al bagno penale, forse per derisione!

Fontaine, direttore del demanio sotto la Comune, di un'onestà a tutta prova, ebbe vent'anni di lavori forzati.

L'ultima esecuzione a Satory ebbe luogo il 22 gennaio 1873: Fhilippe, membro della Comune, Benot e Decamps, per aver partecipato alla difesa di Parigi ed all'incendio delle Tuileries. Caddero gridando: Viva la rivoluzione sociale! Viva la Comune!

In settembre erano stati fucilati per simili ragioni Lolive, Demvelle e Dechamps: Abbasso i vigliacchi! gridarono cadendo: Viva la repubblica universale!

Per due anni Satory bevve sangue e sangue fino a saturarne la terra. La Comune era morta, ma la rivoluzione viveva. Questa instancabile rifioritura di tutti i progressi, con i quali in ogni epoca ha camminato l'umanità, assume d'età in età nuove forme.

Il quattro dicembre Lisbonne, reggendosi appena sulle grucce che poi tenne per dieci anni all'ergastolo, comparve davanti al consiglio di guerra, che lo condannò a morte: la pena gli fu mutata in una morte lenta, i lavori forzati a vita, dai quali però riuscì a scampare.

Quindi fu la volta di Heurtebise, secretario del comitato di salute pubblica. Poi furono ricercati tutti quelli che avevano scritto contro Versailles. Lepelletier, Peyrouton ebbero alcuni anni di prigione.

Se avessimo voluto i nostri processi avrebbero potuto essere annullati, usando il consiglio di guerra, senza alcuna variante, dei moduli stampati sotto l'Impero, dell'epoca in cui noi ci trovavamo incolpati secondo il rapporto e le conclusioni del Commissario Imperiale.

Ma i consigli di guerra erano la sola tribuna dalla quale si poteva acclamare la Comune in faccia ai suoi assassini e detrattori, e non facevamo smorfie.

Finalmente l'11 dicembre ricevetti la mia citazione per il 16 corrente alle 11 e mezza, anch'essa con la formula già citata: il signor Commissario Imperiale... e firmata dal generale comandante la Ia divisione militare, Oppert.

Riporto dai giornali Il Diritto e Le Voleur la descrizione del mio processo.

«Abbiamo annunciato brevemente la condanna della signorina Luisa Michel, una delle eroine della Comune, che osa far fronte all'accusa, e non si difende con negazioni di sorta, e non si appoggia su circostanze attenuanti.

«Questo processo merita più di un semplice cenno, e noi siamo certi che i nostri lettori saranno lieti di fare una più ampia conoscenza con Luisa Michel.

«V'è fra lei e Theroigne de Méricourt, la baccante furiosa del Terrore, alcuni punti di rassomiglianza che non sfuggiranno a quelli che leggeranno le sedute del consiglio di guerra.

«Luisa Michel è il tipo rivoluzionario per eccellenza; ed ha sostenuto nella Comune una parte importantissima: si può dire anzi che ne fu l'ispiratrice, il soffio rivoluzionario.

«Come istitutrice Luisa Michel ha ricevuto un'istruzione superiore.

«Era stabilita in via Oudot 24: negli ultimi tempi il numero dei suoi allievi era di 60. Le famiglie erano soddisfatte dalle cure e dell'istruzione ch'essa impartiva ai bambini che le venivano affidati.

«Questa donna era, nell'esercizio delle sue funzioni d'istitutrice, amata e stimata nel quartiere.

«Il 18 marzo, senza abbandonare la sua scuola, si abbandona con ardore alla politica; frequenta i clubs, dove si distingue per una sua certa eloquenza, che richiama alla mente gli esaltati del '93: le sue idee e le sue teorie sull'emancipazione del popolo fissano su di lei l'attenzione degli uomini che erano alla testa del movimento insurrezionale: è ammessa in seno ai loro consigli, e prende parte alle loro deliberazioni

Era proprio dal 18 marzo che io avevo visto meno sovente i compagni, coi quali poi ho combattuto così lungamente per le idee alle quali avevo consacrato la mia vita, dopo aver visto e ponderato i delitti della Società.

Dopo il 3 aprile, fino all'entrata delle truppe di Versailles, io non avevo lasciato le mie compagnie di marcia che due volte e brevemente per venire a Parigi.

Quando il 61° battaglione al quale appartenevo, rientrava, tornavo al campo con altri, coi ragazzi perduti, con gli esploratori, con gli artiglieri di Montmartre, ora alla stazione di Clamart, ora a Montrouge, al forte d'Issy, nelle Alte brughiere, a Neauilly.

Se i giudici non si ingannavano, non era necessario che facessero una così lunga istruttoria: riconoscevano infatti che io avevo con tutte le mie forze e con tutta passione servito la Comune, ed era vero.

Ho visto poi altro di peggio che i giudici del consiglio di guerra. Ma continuiamo a sfogliare i giornali:

«Questa è in breve la parte che l'accusata ha avuto, e che essa ha messo in evidenza, assumendo un fare energico e virile.

«Luisa Michel è condotta da alcune guardie: è una donna di 36 anni, d'una statura al disotto della media.

«Porta vesti nere; un velo nasconde la sua fisionomia alla curiosità del pubblico numerosissimo: il suo passo è modesto ma sicuro, la sua figura non rivela alcuna esaltazione.

«La sua fronte è sviluppata e fuggente, il suo naso, largo alla base, le un'aria poco intelligente: i capelli bruni, abbondanti.

«Ciò ch'essa ha di particolare sono i due grandi occhi, d'una fissità quasi fascinatrice. Guarda i suoi giudici con calma e sicurezza; in ogni modo con una impassibilità che disorienta ogni spirito d'osservazione che cercasse di scrutare i sentimenti di quel cuore umano.

«Su questa fronte impassibile non si legge nulla, all'infuori della decisione di sfidare freddamente la giustizia militare, davanti alla quale è chiamata a render conto della sua condotta: il suo contegno è semplice e modesto, calmo e senza ostentazione.

«Durante la lettura della relazione, l'accusata, che ascolta attentamente, leva il suo velo nero, ch'essa lascia cadere sulle spalle. Per quanto tenga gli occhi fissi sul cancelliere, la si vede sorridere come se i fatti articolati contro di lei risvegliassero un sentimento di protesta, o non fossero conformi a verità»

Qui lascio il resoconto del giornale, per riassumere quello di Lissagaray:

«Io non voglio difendermi, non voglio essere difesa, grida Luisa Michel; io appartengo tutta alla rivoluzione sociale ed io dichiaro di accettare intera la responsabilità dei miei atti. Voi mi rimproverate di aver preso parte all'esecuzione dei generali; vi rispondo: essi hanno voluto far tirare sul popolo inerme; non avrei mai esitato a tirare su coloro che davano simili ordini.

«Quanto all'incendio di Parigi, sì, vi ho preso parte: volevo opporre una barriera di fuoco agli invasori di Versailles; non ho complici; quanto ho fatto, ho fatto di mia spontanea volontà.

«Il relatore Dailly chiede la pena di morte. Luisa Michel, dice: – Ciò che io reclamo da voi che vi dite consiglio di guerra, che vi dichiarate miei giudici, ma che non vi nascondete come la commissione di grazia, è il campo di Satory, dove sono già caduti i miei fratelli; dovete bandirmi dalla società, vi hanno detto di farlo. Ebbene, il Commissario della repubblica ha ragione. Giacchè pare che ogni cuore che batte per la libertà non ha diritto che ad un po' di piombo, io chiedo la mia parte. Se voi mi lasciate vivere, io non cesserò di gridare vendetta, e consegnerò alla vendetta de' miei fratelli gli assassini della commissione di grazia.

«Il presidente la interrompe dicendogli che non può lasciarla continuare. Luisa Michel risponde: – Ho finito. Se non siete dei vigliacchi, uccidetemi!

«Non ebbero il coraggio di ammazzarla d'un sol colpo: fu condannata alla deportazione in una cinta fortificata.

«Luisa Michel non fu unica nel suo genere: altre ve ne furono, fra le quali bisogna ricordare la signora Lemel, Agostina Chiffon ed altre che mostrarono ai Versagliesi quali terribili, donne sono le parigine, anche incatenate

Agostina Chiffonarrivata alla Centrale di Auberive, vecchio castello divenuto casa di pena e di correzione, dove noi attendevamo la nave che doveva condurci alla Nuova Caledoniamettendosi al braccio il numero dell'ergastolo, gridò: Viva la Comune! Mi ricordo che il mio numero era il 2181. Che schiera terribile, quei 2181 passati per quei ferri prima di me!

La signora Lemel non fu giudicata che molto tempo dopo: non volendo sopravvivere alla Comune, si era chiusa nella sua camera con un recipiente di carbone. Quando giunsero per arrestarla, la salvarono per sottoporla al consiglio di guerra.

L'avevano messa in un ospizio in attesa del processo, dove parecchie volte rifiutò l'occasione di fuggire che le si offriva.

Quando la Lemel arrivò a Auberive, vi fu ricevuta da tutti noi al grido di Viva la Comune! Così avevamo fatto per l'Excoffons, per la Poirier, per Chiffon e per una vecchia che aveva già combattuto a Lione, al tempo in cui i vecchi scrivevano sulla loro bandiera: Vivere lavorando, o morire combattendo! Essa aveva con tutte le sue forze combattuto per la Comune; si chiamava Deletras.

Qualche giorno di cella e tutto era finito. Da questa cella, attraverso una fessura si vedeva una gran parte del paese.

Il regolamento era che nei giorni di processione si poteva scegliere d'andare alla processione o in cella: per Pasqua preferimmo d'andare in cella, cosa che lasciò con tanto disinganno i curiosi accorsi da tutti gli angoli del dipartimento dell'Aube per vederci.


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