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PARTE QUINTA I. Verso la Nuova Caledonia. – L'evasione di Rochefort. – La vita penale. – Il ritorno. |
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I.
Verso la Nuova Caledonia. – L'evasione di Rochefort. – La vita penale. – Il
ritorno.
Pour que soit
libre enfin 1a terre,
Les braves lui donnent leur sang;
Partout est rouge le suaire
Et la mort va le secouant.
È qui che bisogna restringere le righe per dire in poche parole tanti e tanti ricordi. Io rivedo Auberive con le sue strette viuzze serpeggianti sotto gli abeti, e i grandi dormitori dove soffiava il vento come sulle navi. Le file silenziose di prigioniere passavano con la cuffia bianca e il fazzoletto pieghettato sul collo e fermato con una spilla, come le contadine di cento anni fa.
Eravamo giunte in venti da Versailles, su un carrozzone cellulare.
Essendo state avvertite solamente la notte della partenza, non avevamo potuto avvisare le nostre famiglie; e siccome il giorno seguente era giorno di visita, proprio come alla mia partenza per la prigionie di Arras, molte altre, come mia madre, vennero a Versailles, dove fu loro risposto che si era andate alla centrale per attendere la deportazione.
Per questa notizia, più ancora che per il freddo, mia madre ritornò disfatta a Parigi, e solamente più tardi, quand'ella venne ad abitare con una sua sorella a Clemfort, per essere più vicina a me, seppi ch'era stata molto ammalata. Senza comunicazioni con l'esterno, altro che le visite, rarissime e brevissime, dei nostri parenti, noi eravamo soli coi nostri pensieri.
I nostri soli avvenimenti erano gli arrivi di nuove prigioniere, che ne sapevano forse meno di noi.
Di tanto in tanto il tamburo del villaggio gridava sulla piazza qualche decisione del governo, fermandosi tratto tratto per ricominciare la lettura. Quando le finestre erano aperte ed il vento ce lo portava, noi sentivamo bene ciò ch'era letto per ordine ufficiale.
I manifesti di Thiers, di Mac-Mahon, di Broglie ci facevano sapere ch'era sempre la stessa cosa, nella peggiore delle Repubbliche.
Delle opere scritte ad Auberive non mi restano che alcuni versi ed altri frammenti.
Della Donna attraverso le età, pubblicata nello Scomunicato di Enrico Place, alcun tempo dopo il ritorno, solamente alcuni foglietti.
La Coscienza e il Libro dei morti sono perduti: non so dove si trovi il manoscritto del Libro dell'ergastolo, di cui la prima parte fu scritta ad Auberive, e la seconda – tutto l'Oceano era fra l'una e l'altra – fu composta alla centrale di Clermont, alcuni anni dopo il ritorno.
Forse che le opere e la vita di chi lotta per la libertà non restano così, a brani, sul cammino?
Un'immensa distesa di neve, spessa e bianca, era tutto ciò che potevamo vedere dalle finestre d'Auberive: gli stanzoni sono grandi e sonori; hanno l'aspetto di una casa di sogno, frequentata da morti.
Attendevamo, lasciando che gli avvenimenti disponessero del nostro destino. Calmi, come quelli, che hanno visto la morte di una città, senza sentir mai venir mena l'idea vivente.
Nell'inverno, sui sentieri del giardino, sotto ai verdi abeti, risuonavano tristemente gli zoccoli ai piedi faticati delle prigioniere; battevano cadenzata la terra gelata, mentre la fila silenziosa passava lentamente.
L'inverno è rigido in questo paese tra neve abbondante, cosicchè sotto il suo peso le rame s'inchinavano al suolo.
Nella sala vasta, dove noi stavamo, insieme, le prigioniere della Comune venivano a poco a poco da tutte le prigioni nelle quali erano state trasferite, dopo il processo, e quelle che avevano valorosamente combattuto e quelle che ad altro avevano cooperato: Madama Lemel, Poirier, Excoffons, Maria Boire, la signora Goulé, Deletras ed altre non si lamentavano; avendo aiutato anch'esse la Comune.
La signora Richoux si lamentava, ma la sua condanna era iniqua. Ecco ciò che aveva fatto:
Una barricata in piazza S. Sulpicio era così bassa che riusciva piuttosto dannosa che utile ai combattenti. Essa con la calma di donna bene educata, presa da pietà, se ne andò a rialzare ed a fare rialzare la barricata con tutto ciò che poteva aver fra mano. Una bottega di statue sacre era, non so come, aperta; fece mettere come fondamento i santi abbastanza alti: per questo l'avevano arrestata, ancor ben vestita, inguantata, pronta ad uscire di casa sua; uscì infatti per non tornare che dopo l'amnistia.
– Siete voi che avete fatto portare sulla barricata le statue dei santi?
– Certamente, rispose, le statue erano di marmo, e coloro che morivano erano di carne...
Condannata per questo alla deportazione in una fortezza; ma non potè essere imbarcata stante la sua salute malandata.
Un'altra signora Louis, già vecchia, non aveva fatto nulla; ma i suoi figliuoli s'erano battuti contro Versailles; ed essa aveva lasciato che al processo le scatenassero addosso tutte le accuse, immaginandosi che la sua condanna li avrebbe salvati.
E credette così fino alla sua morte, avvenuta in Caledonia, e nessuno di noi osò dirle che con tutta probabilità anche i suoi figli erano morti.
Essa invece pensava che forse non potevano darle notizia alcuna....
Un'altra signora Bousteau-Bruteau – che noi chiamavamo la marchesa, in grazia del suo profilo regolare e giovane sotto i capelli bianchi, rialzati, come al tempo delle parrucche incipriate – era lì specialmente per la somiglianza nel nome con uno de' suoi parenti. Non era certamente ostile alla Comune, ma divenne molto più rivoluzionaria dopo il viaggio in Caledonia, di quanto non lo fosse prima.
La signora Adele Viard era nelle identiche condizioni; fu creduta parente del membro della Comune Viard, mentre non aveva fatto che curare feriti.
Elisabetta Rétif, Suétens, Marchaix, Papavoine, commutata la pena di morte ai lavori forzati, avevano curato i feriti e null'altro: dovettero andare tuttavia a Cayenna, donde la povera Rétif non tornò più.
Il martedì 24 agosto, alle sei del mattino ci chiamarono per il viaggio di deportazione.
Avevo visto mia madre il giorno prima: ed avevo osservato per la prima volta che i suoi capelli erano imbianchiti: povera mamma!
Aveva ancora due fratelli e due sorelle che l'amavano molto: una delle sorelle doveva prendersela con sè. Molte altre non potevano essere come me tranquille sul conto dei loro cari.
Ci chiamarono per ordine, secondo la lista inviata dal governo, eccezion fatta delle malate, che furono più disgraziate in prigione di noi in Caledonia, e delle vecchie. Eravamo venti.
La Chiffon ed Adelina Règissath non vennero che uno o due anni dopo. Si contavano, all'epoca della nostra partenza, 32.905 verdetti della giustizia di Versailles, fra cui 105 condanne a morte, di cui fortunatamente 33 per contumacia. Continuavano però sempre.
46 ragazzi al disotto dei sedici anni furono chiusi in riformatori, solo per essere figli di fucilati e per essere stati adottati dalla Comune.
Molti di quelli che erano stati imprigionati erano morti: il governo pubblicò 1179 di questi decessi.
Nel 1879 il Tribunale di Versailles fece il censimento generale ufficiale: erano passati fra le sue grinfe 5000 soldati e 36.309 cittadini.
Le condanne a morte ammontavano allora a 270 di cui 8 donne.
Questa statistica è riportata dal Lissagaray nella sua Storia della Comune.
In detta relazione non si fa menzione però nè delle condanne pronunciate dal consiglio di guerra fuori della giurisdizione di Versailles, nè di quello delle Corti d'Assisi.
Bisogna aggiungere 15 condanne a morte, 22 ai lavori forzati, 28 alla deportazione in territorio fortificato, 29 alla deportazione semplice, 74 alla detenzione, 13 alla reclusione, e parecchi altri al carcere. La cifra totale di quei condannati a Parigi e in provincia era di 13.700 di cui 700 donne e 60 ragazzi.
La prima tappa del nostro viaggio ebbe luogo in una vettura grande comune: quella cellulare non la trovammo che a Langres, che ci condusse fino a La Rochelle.
Quando la nostra vettura attraversò Langres, vicino alla Piazza des Boulet, alcuni operai ci salutarono levandosi il cappello.
Uno d'essi gettò un grido, che io credo d'aver interpretato come quello di Viva la Comune! malgrado il rumore della vettura, che correva veloce.
Il mercoledì eravamo al cellulare di La Rochelle.
La nave Comète ci trasportò da La Rochelle a Rochefort, dove salimmo a bordo della Virginia. Alcune barche amiche avevano accompagnato tutto il giorno la Comète: ci salutavano da lontano; e noi si rispondeva come si poteva, agitando i fazzoletti: io presi per dar loro l'addio il mio velo nero, perchè il vento mi aveva strappato il fazzoletto.
Per cinque o sei giorni costeggiammo la Francia, poi più nulla. Verso il quattordicesimo giorno disparvero anche gli ultimi grandi uccelli di mare: solo due ci accompagnarono ancora per qualche giorno.
Noi eravamo collocati nella batteria bassa della Virginia, vecchia fregata da guerra, bella sulle onde.
La cabina più grande di tribordo era occupata da noi e dai due bambini di Leblanc: il bambino di sei anni e la bambina di pochi mesi, nata nella prigione dei Cantieri.
Nella cabina in faccia alla nostra erano Enrico Rochefort, Enrico Place, Enrico Menager, Passedouet, Wolosky ed uno di quelli che pur non avendo fatto nulla, furono nullameno deportati: era un certo Chevrier.
Era assolutamente proibito parlarci da una cabina all'altra: ma ci si parlava ugualmente.
Rochefort e la signora Lemel si ammalarono e lo furono dal primo giorno fino all'ultimo; altri di noi si ammalarono, ma non continuamente: in quanto a me potevo schivare il mal di mare come già avevo schivato i proiettili e mi rimproveravo di trovar così bello il viaggio, mentre nelle loro cucce Rochefort e Lemel non potevano goderne.
C'erano dei giorni in cui il mare era grosso, il vento fischiava a tempesta, e la scia della nave fuggiva dietro noi come due file di diamanti, ricongiungendosi più lontano in una sola corrente scintillante al sole.
Il 19 settembre una nave straniera è in vista, ora forzando le vele ora allentando: nella sera, una manovra, due colpi di cannone a salve, poscia il bastimento disparve: è notte. Vedemmo ancora le bianche vele, laggiù nell'ombra; non ritornò più. Che volesse, o tentasse, quella nave, di liberarci?
Il 22 settembre alcune rondini di mare vengono a posarsi sull'alberatura.
Siamo alle Canarie, in vista di Palma. Spesse volte ho pensato ai continenti, inghiottiti in fondo ai mari, che senza dubbio ci copriranno, abbandonando i loro letti, lasciando una tomba per sceglierne un'altra, senza arrestare l'eterno progresso.
Alcune baie aperte al vento: più lontano il picco di Teneriffa. Più lontano ancora una cima azzurra perduta nel cielo: è il monte Caldera oppure sono nuvole fuggenti?
Le case di Palma sembrano uscire dalle onde, tutte bianche come tombe: al nord, sopra una collina, è la cittadella. Gli abitanti che vengono a portare delle frutta sul nostro bastimento, sono magnifici.
Sono forse costoro i Gouanches i cui avi abitavano l'Atlantide?
Poi Santa Caterina Brésil dove, essendosi la Virginia ancorata, possiamo mirare tutto un semicerchio di alte montagne, le cui cime si confondono con le nubi.
Dall'alto d'uno dei fianchi della nostra nave, a sabordo, si poteva ancor meglio godere lo spettacolo, nell'ora in cui ci era permesso di passeggiare sul ponte.
L'alto mare del Capo fu per me una meraviglia.
Io non avevo visto, prima della Comune, che Chaumont e Parigi, i dintorni di Parigi, con le compagnie di marcia; poi, intraviste dalle prigioni, alcune città di Francia; io che avevo sempre sognato i viaggi, mi trovavo in pieno oceano, fra cielo ed acqua, come fra due deserti, dove non si udiva che il canto dell'onde e dei venti.
Vedemmo così il mar polare antartico, mentre, quella notte, la neve cadeva sul ponte.
Quante lettere e quanti versi furono scambiati sulla Virginia! Quando si è tanto vicini, la proibizione di corrispondenza non vale.
C'erano racconti semplici e grandi di molti deportati; e dei versi, che sotto una forma improvvisa, nascondevano pensieri superbi.
Una dedica scritta da un compagno troppo zelante sul primo foglio d'una bibbia, aveva un profumo di mirra. Io ho conservato la dedica, ma ho buttato la bibbia ai pescicani.
Tutti questi frammenti, fuorchè dei versi di Rochefort, ritrovati fra le pagine di un libro, sono scomparsi nelle perquisizioni, dopo il ritorno dalla Caledonia….
Ho raccontato diverse volte come durante il viaggio di Caledonia io divenni anarchica.
In un momento di calma, in cui stava meglio di salute, facevo parte alla Lemel delle mie idee sull'impossibilità che gli uomini al potere, a qualunque partito appartengano, possano fare altro che delitti sopra delitti, se sono deboli ed egoisti; oppure essere schiacciati se sono devoti ed energici.
– Anch'io la penso così! – mi rispose.
Io avevo molta fiducia nella rettitudine del suo pensare, e la sua approvazione mi arrecò grande piacere.
La cosa più crudele ch'io abbia vista sulla Virginia, fu il lungo e spaventoso supplizio inflitto agli albatri, che intorno al capo di Buona Speranza venivano a stormi incontro alla nave. Dopo averli presi all'amo, li sospendevano per i piedi perché morissero senza macchiare il candore delle loro piume. Povere vittime del Capo. Come tristemente e lungamente sollevavano la testa, curvando più che potevano il loro collo di cigno per prolungare la straziante agonia che si leggeva loro nel terrore degli occhi cigliati do nero!
Io non avevo mai visto niente di così bello come il mare furioso del Capo e le correnti scatenate dei flotti e del vento. Il naviglio, poggiato negli abissi, montava sulla cresta delle onde che lo battevano in breccia. La vecchia fregata che per l'occasione si era rimandata alle onde, mezzo sfasciata, si lamentava, scricchiolava come se stesse per aprirsi: avanzando a cappa secca come uno scheletro di naviglio, o come un fantasma, con l'albero di trinchetto sprofondato nell'abisso. Finalmente la Nuova Caledonia fu in vista.
Attraverso la più stretta delle breccie della doppia cinta di corallo, la più accessibile, entriamo nella baia di Noumea. Qui, come a Roma, sette colline bluastre, sotto il cielo d'un azzurro carico: più lontano il Monte d'Oro, tutto costellato di rossa terra aurifera.
Ovunque montagne dalle cime aride, dalle gole squarciate, avanzi del recente cataclisma: una montagna è stata divisa in due.
Siccome cercavano sempre e scioccamente di fare alle donne un trattamento speciale a parte, volevano inviarci a Bourail, sotto pretesto che la vita era migliore là; per questo e con successo noi protestammo. Se i nostri stanno peggio alla penisola Ducos, noi vogliamo stare con loro.
Infine siamo condotte a Ducos sulla scialuppa della Virginia: ogni altro mezzo di trasporto non ci ispira fiducia; il comandante l'ha compreso, e dietro la sua parola d'onore, noi acconsentiamo a lasciare la Virginia. Avevamo fatto il progetto, io e la Lemel, di gettarci in mare, se si fossero ostinati a volerci condurre a Bourail, e altre, io credo, avrebbero fatto lo stesso.
Gli uomini sbarcati già da alcuni giorni ci attendevano sulla spiaggia con i primi deportati.
Ci trovammo il padre Malezieux, questo vecchio del giugno, la cui tunica il 22 gennaio era stata crivellata di palle.
Ritrovammo Cipriani, Rava, Bauer. Il padre Croiset dello stato maggiore di Dombwroski, il nostro vecchio amico Collot, Olivier Pain, Grausset, Caulet de Tailhac, Grenet, Burlot del comitato di vigilanza, Chartomeau, Fabre, Champy, una folla d'amici un po' dappertutto; dei gruppi Blanquisti, della corderie del Tempio, delle compagnie di marcia.
Rochefort, Place, tutti quelli della Virginia sono domiciliati presso i primi arrivati.
Noi avevamo ricevuto una prima corrispondenza a bordo; e ci pervenne intatta. Il comandante ci fece anche constatare che le lettere non erano state aperte: i marinai, diceva, non sono poliziotti.
Alla Penisola Ducos ricominciarono a perquisire le corrispondenze.
Io pensavo, sbarcando, ad uno dei miei più vecchi amici – Verdure. Dov'è dunque Verdure? domandai, stupita di non vederlo fra gli altri: era già morto!
Le corrispondenze, rimanendo naturalmente tre o quattro mesi in viaggio, avevano cominciato ed arrivare regolarmente parecchio tempo dopo. Verdure, non ricevendo lettere da nessuno, ne aveva avuto tale angoscia da morirne: un pacchetto di lettere indirizzate a lui arrivarono pochi giorni dopo la sua morte.
Una volta però regolata la posta, si poteva avere una risposta alle nostre lettere, dopo sei od otto mesi: c'era una posta mensile, ma quelle che ricevevamo ne avevano già tre o quattro di ritardo.
Tuttavia che gioia l'arrivo del corriere. Si montava in fretta e furia la piccola altura sopra la quale era la casa del guardiano del porto, vicino alla prigione, e si portavan via le lettere come un tesoro.
Quando subivano alla partenza un ritardo d'un giorno o d'un'ora, bisognava aspettare il mese dopo.
I deportati avevano fatto festa a Rochefort ed a noi: per otto giorni passeggiammo in lungo e in largo sulla penisola, come in passeggiata di piacere: poi vi fu, in casa di Rochefort, cioè in quella di Grousset e Pain, presso i quali era stata preparata con paglia e fango la sua camera, un pranzo al quale intervenne anche Daoumi con un cappello a tuba, che dava al suo profilo di selvaggio un fare burlesco. Cantò con quella voce sottile propria dei Canachi, una canzone del paese di Lison, con i quarti di tono strani che più tardi volle dettarmi.
C'era anche a questo pranzetto una ragazzetta di dodici anni, Eugenia, Piffaut coi suoi genitori.
Aveva due occhi di un turchino simile al cielo di Caledonia che sembravano rischiararle tutto il viso: ora dorme al cimitero dei deportati, fra una roccia di granito rosa e l'oceano.
Enrico Sueren fece per lei un monumento di terracotta, che forse è stato rispettato dai cicloni.
Quelli che morivano laggiù erano accompagnati al camposanto dalla lunga fila dei deportati, vestiti di tela bianca, con un fiore rosso di cotone selvaggio all'occhiello, simile a dei sempreverdi; e la sfilata, su quelle stradicciuole di montagna, era veramente magnifica.
Il cimitero era già pieno e fiorito: sul tumulo di Passedouet erano corone venute di Francia. Su quello che ricopre un fanciullo, Teofilo Place, cresce un eucalipto... C'erano, durante la deportazione, dei fiori su tutte le tombe.
Il primo che vi morì fu un certo Beuret, e il cimitero prese da lui il nome: così la baia dell'Ovest prese quello di Gentelet, dal primo che vi costruì la capanna.
La città di Nimbo, che faceva pensare a quella di Troia, cresceva a poco a poco; ogni arrivato vi aggiungeva la sua casetta fatta di fango seccato al sole.
L'ospizio dominava le case, situato sopra due baracche in legno poste di fronte: l'una era destinata alle donne, l'altra non aveva ancora destinazione.
Glie ne trovai una, riunendovi alcuni giovani, ai quali già Verdure aveva cominciato a impartire lezioni; alcuni avevano delle vere attitudini: Sénéchal, Mousseau, Meuriot, che improvvisamente fu preso dalla nostalgia e volle morire, erano dei poeti.
Ovunque piante strane dai fiori di mille fogge: ovunque insetti ed animali strani, dalle metamorfosi più strane e che l'assenza dell'alcool disgraziatamente mi ha impedito di conservare.
Tutti gli anni pei cicloni, il vento e il mare urlano, mugghiano i loro canti di tempesta: sembra allora che il pensiero s'arresti, e noi siamo portati dai venti e dall'onde nella notte del cielo e sulla notte dell'oceano. Talvolta un lampo immenso, rosso, rompe le tenebre in un coro magnifico e pieno di terrore.
La casa di Rochefort era sopra un'altura, quella di Greve, in un vano lasciato dalle rocce, circondata da un giardino che occupava metà della montagna. Quando la noia lo prendeva, cominciava a sterrare a gran colpi di piccone la terra salmastra, facendo concorrenza a Gentelet che dall'altra parte della collima ne crivellava il fianco.
Volgendo un po' sul cammino di Tendù si vedeva la casa di Heraux, dove egli suonava la chitarra; una chitarra fabbricata lì, nella stessa penisola, in legno di rosa, dal padre Croiset, la cui casa era sulla stessa strada. Sull'altro pendìo, non lontano dalla posta, su un poggetto, c'era la casupola di Place, dove nacquero il suo primogenito e le sue due bambine; più sotto quella di Balzen, che sotto pretesto ch'egli era dell'Alvernia, cambiava in utensili per noi le vecchie scatole di conserva: si occupava anche di chimica insieme al vecchio blanquista Chaussade.
Una capanna tutta coperta di liane, vicina alla baracca delle donne, era quella di Penny, che aveva con sè la moglie e i bambini.
Più lontano la fucina di padre Malezieux, dove con dei vecchi pezzi di ferro ci faceva delle roncole, degli utensili da giardino; un mondo di cose.
Poi la casetta di Lacourt vicinissima, e quella di Provins, uno dei tamburi dei federati, che aveva battuto gagliardamente la generale nei giorni in cui Parigi doveva essere forte e vincitrice.
Con due aperture, che hanno l'aria di chiamarsi finestre, una cesta di euforbie davanti l'ingresso e dentro qualche cosa che sembra una biblioteca: è la capanna di Bauer.
Quella di Champi, piccolina, è sita sul poggio di Numbo. Un giorno in cui ci trovavamo da lui in sette od otto, si pensò di sfondarla appoggiandoci ognuno dalla sua parte.
Più a nord c'è la casa dalle ogive aperte di Regère.
C'è ancora il capannone di Kervisik, dalla parte dell'ospizio dove abita Passedouet, aspettando sua moglie quella di Burlot, solitaria in alto, dalla stessa parte quella del padre Royer; quella del vecchio Mabile sulla spiaggia, a Tundù: mi par di vederle tutte, queste povere case fatte di terra cruda, coperte di paglia e fango, che viste dall'alto avevano l'aria di una grande città del mondo antico.
* * *
L'evasione di Rochefort e di cinque altri deportati – Jourde, Ollivier Pain, Pasquale Grousset, Bullière e Granthille, – spaventò l'amministrazione della Caledonia.
Fu riunito un consiglio di guerra. Il governatore Gautier de la Richerie era in viaggio d'esplorazione, sopra uno dei bastimenti destinati alla custodia dei deportati; l'altro era all'isola dei Pini; ed erano già quarant'ott'ore che gli evasi erano scomparsi e i guardiani avevano paura d'essere tutti destituiti; ed erano più furenti anche perchè la gaiezza pareva aumentata a Ducos.
I sorveglianti s'accorsero facendo l'appello che Rochefort, Olivier Pain e Granthille mancavano: la verità non fu subito compresa; chè i deportati, avendo indovinato quanto avveniva, rispondevano evasivamente.
Siccome chiamavano disperatamente Rochefort, alcuni rispondevano: – È andato ad accendere la sua lanterna; altri: – Ha promesso che ritorna; e altri infine: – Staremo a vedere se tornano!
Troppo inquieti per punire sul momento, le autorità si riservarono a più tardi i castighi. Lo spettacolo della gaiezza che regnava fra i deportati metteva le ciurme in una tal disperazione da stracciare le tendine, innocentissime d'ogni evento, quando andarono alle capanne degli evasi per vedere di trovar qualcosa che li mettesse sulla loro traccia.
Nessuno aveva visto i fuggiaschi da giovedì; eravamo al sabato: erano salvi!
Il cantiniere Duserre, la cui barca era stata usata da Granthille per venire incontro agli evasi della penisola, ebbe quindici giorni di cella; la disgraziata barca, benchè gettata in mare piena di grosse pietre, s'era ad un tratto voltata per effetto delle onde, rimettendosi a galleggiare: cosa ch'era parsa dimostrare la complicità dei Duserre.
Tutto è bene ciò che finisce bene: la barca non fu solamente pagata, ma il brav'uomo fu obbligato a partire per Sidney, dove si trovò un po' meglio che a Numea, che qui il commercio è ben poca cosa, se ne togli la tratta degli indigeni sotto pretesto di contratto di lavoro.
I signori Aleyron e Ribourt, mandati per spaventare i deportati, probabilmente per far ritornare Rochefort, ebbero l'idea ridicola di stabilire sui diversi poggi e per alcun tempo, intorno a Numbo, dei funzionari che avevano l'aria di rappresentare la Torre di Nesle.
Di tratto in tratto, ad intervalli regolari, sulle alture si sentiva gridare: Sentinella all'erta! e nelle notti chiare i profili scuri dei funzionari si disegnavano sulle cime nel chiarore della luna.
Alcuni d'essi avevano belle voci. Si usciva sulla porta di casa per udirli e vederli. Poi le voci si arrochirono: i soli profili ci erano indifferenti; la cosa era meno attraente, ma sempre graziosa.
Dopo le ridicolaggini vennero le cose odiose: i deportati furono privati del pane. Un disgraziato, mezzo stupidito dallo spavento delle cose viste, fu segnato come si fa coi conigli perchè si ritirava un poco dopo l'ora stabilita.
Non cessammo però, neppure sotto Aleyron e Ribourt, di passare di straforo delle lettere, le quali pubblicate nelle riviste di Sidney e di Londra, facevano luce sulla loro condotta.
La lettera che segue avrebbe dovuto essere la prima per ordine di data, ma, giunse in ritardo alla rivista australiana nella quale fu stampata. La riporto; è del 18 aprile 1878 ed è scritta da Numbo:
Dopo le varie evasioni, che hanno avuto luogo da poco tempo in qua, voi dovete conoscere a un di presso le nuove condizioni dei deportati; cioè le vessazioni, gli abusi d'autorità ecc., di cui Ribourt, Aleyron e compagni si sono resi colpevoli.
Voi sapete che sotto l'ammiraglio Ribourt il secreto epistolare fu violato, come se i superstiti del '71 fossero dei volgari assassini al di là dell'oceano.
Voi dovete sapere che sotto il colonnello Aleyron, l'eroe della caserma Lobeau, un guardiano sparò sopra un deportato, il quale aveva inconsapevolmente oltrepassati i limiti imposti per andare a cercarsi della legna.
Qualche tempo prima un altro guardiano aveva tirato sul cane del deportato Croiset, ch'egli aveva ferito fra le gambe dell'uomo. Aveva preso di mira l'uno o l'altro?
Vi ho già scritto che si privano del pane coloro che, semplicemente conforme alla legge della deportazione, si presentano all'appello senza allinearsi militarmente su due linee. La protesta a questo proposito fu energica, mostrando che per delle persone completamente straniere alla causa, e che erano state messe lì a bella posta, i deportati non avevano dimenticato la solidarietà.
Si sono di poi privati dei viveri all'infuori del pane, del sale e dei legumi secchi, quarantacinque deportati, perchè si erano rifiutati ad un lavoro ch'esisteva solo nell'immaginazione dei governatori.
Quattro donne sono state parimenti private come quelle che lasciavano desiderare per riguardo alla condotta ed alla moralità, cosa del tutto falsa. Il deportato Langlais, marito d'una di queste signore, avendo risposto energicamente in nome della moglie sua che non gli aveva mai dato motivo a lagnanze, fu condannato a 18 mesi di prigione e 3000 lire di ammenda.
Place, detto Verlet, avendo parimenti risposto per la sua compagna, la cui condotta medita il rispetto di tutta la colonia penale, fu condannato a 6 mesi di prigione e 500 franchi d'ammenda, e, cosa che nulla al mondo potrebbe rendergli, il suo bambino nato durante la prigionia è morto per i tormenti provati dalla madre durante l'allattamento.
Non gli fu nemmeno permesso di vedere il bimbo suo vivo.
Altri deportati sono stati condannati; Cipriani, di cui sono noti il coraggio la dignità, a 18 mesi di carcere e 3000 lire d'ammenda; Fourny alla medesima pena per delle lettere insolenti, ben meritate dall'autorità.
Ultimamente il cittadino Maiezieux, decano della deportazione, trovandosi assiso davanti a casa sua in compagnia dei deportati che lavoravano con lui, fu accusato da un guardiano ubbriaco di baccano notturno, picchiato e messo in prigione.
Presso i nostri cortesi vincitori, il piacevole si confonde col severo; quelli che dopo il loro arrivo hanno maggiormente lavorato, si trovano sulla lista dei recidivi: spesso anzi lo stesso deportato è notato contemporaneamente sulle due liste. Il giornale ufficiale di Noumea lo prova. Su una lista era notato uno come punito per rifiuto al lavoro, sull'altra era ricompensato per il lavoro compiuto.
Passo sotto silenzio una provocazione subìta all'appello, alcune sere precedenti l'arrivo del signor de Pritzbuer. Un guardiano conosciuto per la sua brutalità, minacciava i deportati con il revolver alla mano. Il più profondo disprezzo fece giustizia di questa provocazione e di molte altre. Più tardi, Aleyron e Ribourt tentarono di giustificarsi.
È probabile che altre liste di recidivi abbiano fatto seguito alla prima, e siccome il lavoro non esiste, essendo state tagliate tutte le comunicazioni già da gran tempo perchè nulla si tentasse, di più il mestiere di parecchi dei deportati esigendo delle prime spese impossibili a farsi, potete immaginarvi la nostra situazione.
In ogni caso queste cose avrebbero servito a svelare completamente, più che si può, l'odio dei vincitori: e non è male conoscerlo, non per imitarli, chè non siamo noi carnefici nè carcerieri; ma per conoscere e pubblicare i misfatti del partito dell'ordine, perchè la sua prima disfatta sia completa.
Arrivederci, e presto forse, se le circostanze esigeranno che coloro che nulla contano la vita, debbano rischiarla per correre a raccontare i delitti dei nostri signori e padroni.
Si capirà facilmente, dopo questi fatti, perchè alla domanda di deposizione che mi fu fatta al ritorno, io risposi colla seguente lettera al Presidente della commissione d'inchiesta sul regime disciplinario della Nuova Caledonia:
Vi ringrazio dell'onore che mi fate, chiamandomi a testimoniare sugli stabilimenti di pena della Nuova Caledonia.
Pure approvando la luce che i nostri amici fanno su quei tormentatori lontani, io non vorrei certo testimoniare contro i banditi Aleyron e Ribourt, mentre Gallifet, che io ho visto far fucilare dei prigionieri, è il capo dello Stato.
Se essi privavano del pane i deportati, e li provocavano all'appello per mezzo di sorveglianti con il revolver alla mano, se tiravano la sera ad un deportato mentre rientra nella sua casetta, certo quelle persone non erano mandate laggiù per tenerci su un letto di rose; quando Barthelemy de Saint-Hilaire è ministro e Massimo du Camp all'Accademia; quando succedono cose come l'espulsione di Cipriani, quella del giovane Morphy, ed altre tante infamie; quando il signor de Gallifet può ancora stendere le sua spada sopra Parigi, e quando la stessa voce che reclamava tutto il rigore contro i banditi della Villette si eleverà anche per assolvere e glorificare Aleyron e Ribourt, io aspetto l'ora della grande giustizia.
Ricevete, signor presidente, l'assicurazione del mio rispetto.
Allorquando, verso il 77 l'estrema sinistra chiese al ministro Baiaut, se non erro, perchè tanti uomini meritevoli erano esclusi dall'amnistia, rispose che alcuni esclusi avevano rifiutato la grazia e rivendicato le loro responsabilità.
– Perchè, replicò Clemenceau, perchè volete voi che coloro che sono stati colpiti dimentichino gli orrori della repressione? Voi dite: noi non dimentichiamo! Se voi non dimenticate nulla, i vostri avversari ricorderanno essi pure! – Ed aveva ragione Clemenceau; noi respingiamo la grazia, perchè era nostro dovere non abbassare la rivoluzione, per la quale Parigi fu inondata di sangue.
* * *
Dirò qui di un progetto che volevamo mettere in esecuzione io e la signora Rastoul, per mezzo di una scatola che doveva andare piena di filo o d'altri oggetti, dalla penisola Ducos a Sidney, dove essa stava.
Le lettere erano fra due pezzi di carta incollati in fondo alla scatola.
Il progetto era questo; che una notte, dopo l'appello, io dovevo attraverso la cima dei monti arrivare al sentiero della foresta Nord, vicino ai posti dei guardiani, e attraverso la foresta, per il ponte dei Francesi, dove non c'è spesso che un po' di fango marino, arrivare con precauzione a Noumea per il cimitero.
Di là, un tale, che la Rastoul avrebbe preavvisato, m'avrebbe aiutato a raggiungere il corriere. Una volta poi a Sidney, avrei tentato di commuovere gli Inglesi con il racconto dei misfatti d'Aleyron e di Ribourt; speravano che un brick montato da arditi marinai ritornerebbe con me a prendere le altre.
Fallendo il colpo sarei ritornata anch'io, perchè eravamo venti deportate e o tutte o nessuna doveva essere libera.
Fu la nostra scatola che non ritornò più. Passando da Sidney seppi più tardi che nel momento stesso in cui dovevo ricevere il segnale convenuto per effettuare il nostro progetto, lettera e scatola erano stati intercettati.
Sessantanove donne, mogli di deportati, erano venute sulla nave trasporto Fenelon a condividere coraggiosamente la triste sorte dei loro mariti.
Alcuni matrimoni furono celebrati alla Penisola. Enrico Place vi sposò Maria Cailleux, giovane di grande dolcezza, che s'era battuta coraggiosamente alle barricate nei giorni di maggio.
Langlais aveva sposata Elisabetta de Ghy.
Le famiglie dei deportati erano abbastanza numerose. Le signore Dubos, Arnold, Pain, Dumoulin, Delaville, Leroux, Piffaut e molte altre avevano ricomposto la loro famiglia e tanti bambini crescevano più felici di quelli, la cui unica casa era stato il riformatorio, perchè figli di condannati.
I deportati semplici dell'isola del Pino, erano privi più di noi di corrispondenza, perchè lontani venti leghe dalla costa, non avevano altre comunicazioni possibili che le lettere da parte dell'amministrazione.
Gli uni diventavano pazzi, come Alberto Grandier, redattore del Rappel, il cui unico delitto era d'aver scritto alcuni articoli; gli altri perdevano la pazienza, si adiravano. Quattro furono condannati a morte e giustiziati per aver percosso un delegato: uno di essi non era che amico degli altri e non aveva preso parte alcuna al fatto.
Si fecero passare davanti alle loro bare: passarono sorridenti, già fuori della vita.
Il plotone d'esecuzione tremava: i condannati, dovettero rassicurare i soldati.
Salutarono i deportati ed attesero senza impallidire.
I deportati dell'isola dei Pini, condannati alla prigione, venivano a scontarla a Ducos: così noi potevamo avere notizie della loro triste vita.
L'11 marzo 1875 venti deportati dell'Isola dei Pini, sopra una zattera costruita da essi stessi, tentarono di fuggire e raggiungere l'Australia: il 18 marzo dello stesso anno furono gettati sulla costa gli avanzi della imbarcazione: non un abito, non un pezzo di coperta, non un cadavere.
Sono stati essi divorati dai pescicani, oppure gli abitanti di qualcuno degli isolotti di questo arcipelago li hanno condotti seco lontano fra quelle isole, così da rendere loro impossibile ogni altra fuga?
In quello stesso giorno in cui furono trovati gli avanzi della loro barca, all'ospedale dell'isola Nou moriva Maroteau.
L'Isola di Nou! il più cupo girone d'inferno.
Là stavano Allemane, Amouroux, Alfonso Humbert, ecc. Essendo i più disgraziati erano anche a noi i più cari; messi alla doppia catena, trascinavano la palla accanto ai peggiori criminali, scellerati, dei quali dovettero da principio subire gli insulti; solo più tardi riuscirono a farsi rispettare.
Dalla baia dell'Ovest si vedevano le fortificazioni dell'Isola Nou, la fattoria e una batteria di cannoni dalla stessa parte.
Quante volte si restava sulla riva a contemplare quella terra desolata!
Verso la fine della deportazione quelli dell'Isola Nou vennero ad abitare a Ducos: fu una festa gioconda, la sola dopo il 1871, ma fece fra noi bell'epoca.
L'amministrazione si serve contro le evasioni dei canachi più bruti, ammaestrati a legare gli evasi ad un bastone, ch'essi portano, due per due, per le braccia e per le gambe, come fanno per i maiali: è la cosidetta polizia indigena. È strano che ancora non ne abbiano fatti arrivare a Parigi alcune compagnie, disciplinate per aiutare la polizia cittadina.
Tutti i canachi però non sono corrotti in questo modo. Non potevano anzi sopportare i maltrattamenti che si facevano loro subire e cominciarono una rivolta che comprendeva parecchie tribù.
Fra i deportati, alcuni parteggiavano per i Canachi, altri li avversavano.
Per mio conto ero tutta per essi.
Ne risultavano tali discussioni che un giorno tutte le sentinelle della baia dell'Ovest, scesero a vedere che cosa succedeva; non eravamo che due a gridar come fossimo in trenta.
I viveri ci erano portati nella baia dai sorveglianti Canachi: erano, gentilissimi, si abbigliavano come meglio potevano nei loro cenci e per la loro semplicità e scaltrezza, si sarebbero potuti facilmente confondere con dei contadini europei.
Durante l'insurrezione canaca, una notte di tempesta, intesi battere alla porta della mia stanzuccia.
– Chi è là? – chiesi. – Taïau, mi si rispose.
Riconobbi la voce dei Canachi che ci portavano da mangiare. (Taïau significa amico).
Erano infatti essi: venivano a dirmi addio, prima di andarsene, durante la tempesta, a nuoto a raggiungere i loro per battere cattivi bianchi, come dicevano essi.
Divisi allora in due la sciarpa rossa della Comune, che io avevo conservata con mille difficoltà, e la diedi loro in ricordo.
L'insurrezione canaca fu soffocata nel sangue, le tribù ribelli decimate. Ora sono in via d'estinguersi, senza che la colonia ne prosperi.
Una mattina, nei primi tempi della deportazione, vedemmo arrivare, nei loro grandi bournous bianchi, degli arabi deportati perchè anch'essi s'erano sollevati contro l'oppressore.
Questi orientali, deportati lontano dalle loro tende e dai loro greggi, erano semplici e buoni e d'una grande giustizia.
Non riuscivano quindi a capire perchè si fosse agito in quel modo contro di essi.
Bauer, pur non condividendo con me la mia simpatia per i Canachi, parteggiava per gli Arabi, ed io credo che tutti noi li rivedremmo con grande piacere. Essi da parte loro avevano conservato una simpatia entusiastica per Rochefort.
Ahimè, ce ne sono oggi ancora in Caledonia, e forse non ne usciranno mai più.
Uno dei pochi che sono ritornati, El Mokrani, essendo venuto ai funerali di Victor Hugo, venne a San Lazzaro, dove ero detenuta, e credeva di poter parlarmi non essendo munito d'un permesso, gli fu impossibile.
Durante gli ultimi anni della deportazione, quelli le cui famiglie erano rimaste in Francia, ed ai quali sembrava lunga la separazione, specialmente quelli che avevano dei bambini, ricevevano lettere nelle quali si parlava di una prossima amnistia. Passava il tempo e la amnistia non veniva: i disgraziati che vi avevano creduto sulla fede di amici imprudenti, morivano dal dispiacere: spesso e in tanti si andava in lunghe file attraverso i sentieri della montagna verso il cimitero, che si empiva a poco a poco.
* * *
Quelli che erano stati cinque anni alla penisola Ducos, potevano, qualora avessero dimostrato di potersi mantenere, recarsi a Noumea; ma l'amministrazione non passava loro nè cibi nè abiti.
Vi rilasciavano un permesso di soggiorno libero, col vostro stato civile, i vostri connotati.
Avendo i miei diplomi d'istitutrice, ebbi da principio come allievi i figliuoli dei deportati di Noumea, con alcuni altri della città; poi M. Simon, sindaco di Noumea, mi incaricò dell'insegnamento del canto e del disegno nelle scuole femminili di Noumea; inoltre io avevo, da mezzogiorno alle due e nella sera, moltissime lezioni in città. La domenica poi dal mattino alla sera, la mia casa era piena di Canachi che venivano ad imparare di buona voglia, purchè il metodo fosse movimentato e semplice. Scolpivano veramente bene in rilievo su delle piccole tavolette i fiori del loro paese. Le figure avevano le braccia rigide, ma accentuando un po' l'espressione del modello, riuscivano a tratteggiarle bene.
La voce da principio un po' chioccia, dopo un po' d'esercizi di solfeggio prendeva un po' più d'intonazione e d'espressione. Mai come allora ebbi scolari docili ed affettuosi: venivano da tutte le tribù. Là vidi anche il fratello di Daoumi, un vero selvaggio costui, ma che veniva ad imparare quanto era stato interrotto per la morte di Daoumi.
Il povero Daoumi aveva amato la figlia di un bianco: quando il padre suo l'ebbe maritata altrimenti, morì di crepacuore. Gli era per essa e per i suoi ch'egli aveva incominciato quest'opera da gigante: imparare ciò che sa un bianco. Voleva vivere all'europea.
I taiau mi raccontavano perchè nella loro rivolta, – malgrado i dieci soldi ch'essi prelevano eternamente sui Canachi, e moltiplicheranno finchè i Canachi faranno i domestici alla Missione – essi abbiano risparmiato i padri maristi: perchè i padri insegnano a leggere.
Insegnano a leggere... è per essi un beneficio che paga ogni debito.
A Noumea trovai il vecchio Etienne, uno dei condannati a morte di Marsiglia, e condannati poi alla deportazione.
Allorquando lasciavi Ducos per recarmi a Noumea, Burlot volle portarmi sulle spalle fino al battello la cassetta delle mie cianfrusaglie: incontrammo alla spiaggia Gentelet che ci aspettava.
– E voi, mi chiese, volete entrare a Noumea con gli zoccoli?
– Ma certamente.
– Ebbene no, – e così dicendo mi consegnò un pacchetto contenente un paio di scarpette europee.
Gentelet, ogni volta che aveva del lavoro, faceva dei regali ai deportati, e comperava, una dopo l'altra, per il 18 marzo, delle bottiglie di vino, che interrava nell'attesa.
L'ultimo quattordici luglio ch'io passai laggiù, fra i due colpi di cannone della sera (là è il cannone che annuncia il giorno e la notte) su richiesta di Simon, madama Penaud, direttrice del pensionato di Noumea, un artigliere ed io, andammo sulla Place des Cocotiers a cantare la Marsigliese.
In Caledonia non c'è crepuscolo: l'oscurità si fa in un momento. Noi sentivamo intorno muoversi la folla, senza vederla; ad ogni ritornello, il coro delle voci stridule dei bambini rispondeva alternandosi con le trombe. Nel fruscio leggero delle foglie del cocco, sentivamo i Canachi piangere.
Il sindaco Simon mandò a cercarci, e fra due ali di soldati ci condussero al municipio. Ma là i Canachi vennero ad invitarmi per andare ad assistere alla loro festa, ed io scusandomi con i bianchi, andai con i negri.
Ogni tribù che vi prendeva parte aveva acceso il loro fuoco in un gran campo che li riuniva tutti.
La tribù d'Atai aveva pure il suo fuoco, ma quando le danze incominciarono, i superstiti, cinque o sei, si gettarono sul fuoco e lo spensero coi loro piedi in segno di lutto.
Poco dopo gli ultimi battelli arrivati portarono la notizia che l'amnistia era venuta; ma nello stesso tempo seppi che mia madre aveva avuto un attacco di paralisi. Con i denari delle mie lezioni e con ciò che io ricevevo dalla scuola, mi era stato possibile racimolare alcune centinaia di franchi: ciò mi servì a prendere il corriere fino a Sidney, per arrivare più presto e vederla ancora.
Prima della mia partenza da Noumea, salita sul corriere, vidi sulla spiaggia il formicolio nero dei Canachi. Siccome io non credevo l'amnistia così prossima, così avevo accettato l'incarico di fondare una tribù: essi mi chiamavano con angoscia, gridandomi: – Non ritornerei più!
Io, senza la minima intenzione di ingannarli, rispondevo: – Sì, sì, ritornerò!....
Finchè potei guardai dalla tolda quel formicolio nero sulla spiaggia e piansi.
Ecco come io vidi Sidney col suo porto magnifico di grandezza come altro di simile forse non ho visto. Delle rocce di granito rosa, come torri giganti, formano tra di loro una porta, quasi dovessero passarvi dei titani, come a Noumea e a Roma sette colli d'un bleu pallido s'alzano verso il cielo.
Non si possono levar via gli occhi, tanto lo spettacolo è bello.
Là però i miei certificati non erano sufficienti (potevo, dicevano, averli anche trovati!), potevo anche non essere io! E bisognò che Duser, stabilito a Sidney, testimoniasse ch'ero realmente io. Sotto pretesto ch'egli aveva già avuto delle noie per la fuga di Rochefort, acconsentì anche a questa nuova avventura, della quale fortunatamente non ebbe noie, giacchè Sidney è colonia inglese.
Protestando anche ch'io ero venuta a Sidney di mia spontanea volontà, il console non voleva rimpatriarmi con le altre diciannove, le quali essendo venute in città per lavorare potevano anche andarsene. Ma col sangue freddo ch'io ebbi in quell'occasione, gli risposi che ero soddisfatta di conoscere la sua decisione, perchè anch'io potevo guadagnarmi i danari pel viaggio tenendo qualche conferenza.
– Su qual soggetto? – mi chiese.
– Sull'amministrazione francese a Noumea; può ispirare, credo, qualche curiosità....
– E che cosa racconterete?
– Ciò che Rochefort non ha potuto dire perchè non ha visto; tutte le infamie commesse da Aleyron e Ribourt, le cause della rivolta Canaca, la tratta dei neri fatta a scopo di arruolamento.
Non so che cosa altro dicessi; ma il vecchio funzionario mi guardò con gli occhi che voleva far credere terribili, e rompendo la sua penna sul foglio di carta che mi passava, mi gridò: «Partirete con le altre!» In fondo in fondo credo ch'egli non fosse del tutto ostile.
Ed ecco come noi facemmo il viaggio da Sidney in Europa tutte venti, imbarcate sul John Helder in partenza per Londra.
Passammo anche, nel nostro lungo pellegrinaggio, per il canale di Suez. In faccia alla Mecca morì un povero arabo, amnistiato e che aveva promesso in voto quel pellegrinaggio ad Allah, se fosse tornato in patria. Ma Allah si mostrò poco generoso verso il suo credente mentre a noi, nemici d'ogni dio, era concesso fino alla fine di vedere il Mar Rosso, il Nilo, dove fremono al vento i papiri, mentre sulle rive i cammelli delle carovane, coricati, allungano il collo sulla sabbia.
E che vista grandiosa quella delle rocce a forma di sfinge, e a perdita di vista la distesa immensa del deserto!
Ci toccava però la sorpresa di dovere errare per otto giorni nella Manica, proprio alla fine del viaggio.
Causa la nebbia intensa non si potevano vedere che i lumi del John Helder, come stelle vaganti, erranti al suono della campanella d'allarme, e il gemito continuo della sirena. Si sarebbe creduto a un sogno. L'opinione generale era che noi eravamo perduti e quando finalmente potemmo infilare il canale del Tamigi, gli amici venutici incontro sopra delle barche piangevano di gioia....
Ci ricevettero a braccia aperte: ritrovammo là Richard, Armando Moreau, Combault, Varlet, Prenet, il vecchio padre Maréchal, ed un altro più vecchio ancora, un fornaio che nei primi tempi dell'esilio aveva offerto l'aiuto del suo forno e pane per i primi sfuggiti al macello, Charenton.
A pranzo dalla signora Oudinot io vedo ancora come oggi Dacosta che ci attendeva dall'alto della scala cogli occhi gonfi di pianto.
Molti erano di già partiti: ma a quelli che restavano, potevamo dire quanto fossimo felici di ricevere attraverso mille peripezie, al tempo di Aleyron, i manifesti dei comunardi di Londra. E si cantò come dieci anni prima la canzone di Bonhomme!
Quanti ricordi, quante cose da raccontare! e come si pensava a quelli che per l'idea nostra erano caduti e fucilati. Ci condussero al Club di Rose Street; i compagni inglesi, tedeschi, russi ci augurarono il ben venuto, e ci accompagnarono fino alla stazione di New Haven: anzi gli amici di Londra vollero pagarci il viaggio chè il console non aveva preso a carico del suo governo che il viaggio fino a Londra, dove ormeggiava il John Helder.
A Dieppe incontrammo Maria Ferré, con la signora Bias, vecchia amica di Blanqui, poi a Parigi la folla, la grande folla agitata che ricorda!... Rividi mia madre, il mio vecchio zio, la vecchia zia! – Quelli che non conoscono i rivoluzionari si immaginano che essi non amino i loro parenti, che tutto sacrifichino all'idea; li amano invece molto di più nella grandezza del sacrificio.
Una vita rivoluzionaria fa rinascere; e l'idea grandeggia per tutti i dolori sofferti.
Oggi che ventisei anni son passati sull'ecatombe, attraverso la miseria e l'abbassamento sempre più terribile dei lavoratori, noi vediamo sempre più vicino il nuovo mondo.
Come dalla nave il gabbiere è abituato a distinguere da lungi le nubi foriere di tempesta, così noi già riconosciamo ciò che da lungi abbiamo visto.
È impossibile dire qui gli avvenimenti che furono dopo il nostro ritorno.
Minuto per minuto il vecchio mondo si sfascia: lo sbocciare dell'era nuova è imminente e fatale; nulla può impedirla, nulla fuor che la morte.
Solo un cataclisma universale potrebbe fermare 1'eocenico che matura. I gruppi umani sono ormai umanità cosciente e libera: è la vittoria.
I giudici venduti possono ricominciare i processi di malfattori per gli uomini onesti, far comparire degli innocenti al pretorio, lasciando i veri colpevoli coperti, come si dice, di onori: i caporioni possono chiamare, in loro soccorso tutti gli schiavi incoscienti; nulla potranno fare. Bisogna che sorga quel giorno, e sorgerà!
Ciò che non si osava nel 1874 lo si osa oggi, e come ai più bei giorni di Versailles, un articolo di giornale può essere causa di deportazione o di morte. – La condanna di Etievent ne fu una prova, e se l'onore delle nazioni vicine non ne proibiva l'estradizione per quella ragione, sarebbe andato a sostituire Cyvoct al bagno penale dove morì anche Marotaeau.
Ma la scienza cui nulla arresta va così veloce che presto tutte le menzogne spariranno davanti ad essa.
La razza ventura, i cui bambini saranno più dotti dei più dotti fra noi, avrà orrore delle menzogne e rispetto della vita umana; non andrà a seminare delle sue ossa il Madagascar, nè a fucilare gli indigeni a suo piacere, senza avere la scusa, come Gallifet, o Vacher, della rabbia del sangue.
Non la si destinerà, quella nuova gioventù, ad assistere neghittosa ai bagordi di Abdul Hamid, durante l'insana opera sua; non la si invierà, come i soldati spagnuoli, ad assassinare a Cuba quelli che si ribellano per la libertà, od a prestare l'opera sua di carnefice a Montjuich.
Oggi noi siamo più schiavi del giorno in cui l'assemblea di Versailles trovava troppo liberale lo gnomo Foutriquet, ma l'idea si fa più libera di giorno in giorno, diventa più grande, più alta.
Ricordiamoci il grido degli studenti dell'anno scorso: In alto i cuori! Per la santa indipendenza, o compagni, insorgiamo!
Oggi, 2 gennaio 1898, in cui termino questo libro, la fotografia apre la via; i raggi X permettono di vedere attraverso la carne, detronizzando la vivisezione, nel momento in cui la barbarie va scomparendo dalla terra: ebbene, potremmo noi credere che la volontà, l'intelligenza umana non sarà anch'essa più libera? – Ricordo: sei anni or sono, nella sala dei Cappuccini, una sera in cui avevo dato libero volo ai miei pensieri, cercando di spiare nel futuro, avevo osato esporre quest'idea, che il pensiero essendo elettricità, sarebbe possibile fotografarlo, e siccome non ha la favella, resterebbe tracciato con segni simili a dei solchi di luce, tutti uguali per tutti i dialetti; una specie di stenografia.
Ora noi possiamo vedere attraverso i corpi: nulla può impedirci di arrivare fino alla fine.
I mondi, grazie alla scienza, sveleranno i loro secreti: sarà la fine degli dei. L'eternità sarà prima e dopo di noi nell'infinito delle sfere: e queste compiranno, come gli esseri, le loro trasformazioni eterne. Coraggio, ecco il germinale dei secoli.
Sembri o no possibile tutto ciò a coloro che non amane vedere spuntare fra le nostre tormente le prime fronde verdi strappate alla nuova spiaggia, la disgregazione della vecchia società si affretta.
Prima ancora che nel libro di pietra sopra la tomba di Pottier si incidano questi suoi versi terribili:
Io sono la vecchia antropofaga
camuffata in società,
son le mie mani rosse della strage
umana, e l'occhio di lussuria iniettato.
Dentro il mio covo io posso
d'umane ossa mucchi di carogne
mostrarti. Vieni a vedere; tuo padre
ho divorato ed ora
i tuoi figli a divorar m'appresto.
Sì, prima ancora che la maledizione sia compita, la vecchia società sarà morta; è venuta l'ora dell'umanità libera e giusta; troppo grande ormai è diventata perchè possa ritornare nella sua culla sanguinosa.