Virgilia D'Andrea
Torce nella notte
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RIEVOCANDO MICHELE SCHIRRU

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RIEVOCANDO MICHELE SCHIRRU

 

 

 

 

La tristezza, quella malattia intima e dolce, lenta e sottile, che è sempre nel fondo di tutti i miei pensieri, aveva quella sera, più del solito, tinto di buio l'animo mio, e sopra l'amarezza segreta, le labbra serrate non pronunciavano parola.

Gli amici, divisi in piccoli gruppi, discutevano animatamente, riempiendo la stanza di fumo, di rievocazioni, di speranze e di fantasmi.

Ed a me, nascosta dietro le ampie cortine della finestra, giungevano a tratti, frasi concitate e roventi.

– Il fascismo? proprio così... un colosso coi piedi d'argilla: dovrà crollare per lo stesso suo peso.

Dovrà... dovrà... ma sino ad oggi chi cade sono i nostri, ed i Lucetti finiscono in galera... quando non sono condannati a morte.

– Chi muore per la verità e per la giustizia non è il vinto; ma il vincitore.

Bene, bene... plaudirono molti, ed una fresca gola giovanile motivò pian, piano:

 

E noi cadremo in un fulgor di gloria

Schiudendo all'avvenir novella via.

 

Parole, sempre parole... e intanto questo linguaggio biblico da sermone della montagna, non cambia in nessun modo la dura e cruda realtà. I morti dormono invendicati: le isole e le galere sono piene di compagni, e noi, noi stessi, carichi di miseria e di strazi, umiliati e avviliti dalla incapacità che ci rode, siamo ancora in giro pel mondo... ed ecco... invecchiamo qui... nell'esilio. La voce s'era spezzata nella stretta dell'emozione.

– Ed il resto, perchè non lo dici il resto?

La folla, la miracolosa folla, la fattrice, voi dite, degli eroici eventi, cane accovacciato, invece, che lecca la mano di chi lo percuote, si prostra, sempre più servile, ad osannare un pazzo tiranno, impennacchiato come pellirosse a danza, imbiaccato come goffo pagliaccio a richiamo dei gonzi sui baracconi da fiera.

 

Adesso un silenzio più eloquente delle parole; più caldo ed efficace di esse, incombeva su di noi come minaccia e come promessa: orizzonte denso di nubi: fondo occulto d'oceano che respira, brontola e si sommuove negli abissi impenetrabili.

Silenzio... passavano a frotte i ricordi sotto il cielo dell'animo: ali di gabbiani sorvolanti il mare, stormi di rondini fuggenti il diaccio respiro di Novembre.

Esilio! Quella parola mi aveva fatto sentire dentro più acerbo il male che s'allargava in cupa malinconia.

Verso l'alto e il sublime, in giganteschi grappoli d'oro, la città dell'enorme e del fantastico si lanciava con una arditezza prodigiosa di reti, di torri, di guglie, di tentacoli, di frecce. Stanca delle angustie, dei travagli, delle inquietudini della terra; avvilita di sentire le radici irretate in un losco abisso di crimini, di barbarie, di vendette, la sirena a specchio dell'immensa baia luminosa, assetata di purezza, avventava le sue chiome fulgenti al bacio ed all'amplesso delle stelle.

 

 

Esilio! Solitudine d'angoscia nella moltitudine rumorosa; la solitudine del deserto e dell'ignoto tra una folla sconfinata e mutevole, che sciama, che vocia, che ti urta, ti sospinge, ti ignora, ti travolge.

 

Esilio! La povertà più discoperta e più flagrante tra un ridondare di colori, di eleganze, di raffinatezze, di lusso; tra un alternarsi di piazze e di strade rifulgenti d'ogni più vistosa e abbacinante ricchezza; la povertà più inasprita e provocata tra un susseguirsi di edifici enormi e poderosi, dentro i quali turbinano, tra sogni, avvenire e miraggi, fantastiche e favolose fortune; sotto i quali, sepolte nella sicurezza del granito, si ammassano montagne d'oro puro, tra un labirinto blindato di corridoi, di segrete, di trabocchetti, di caverne.

 

Esilio! L'inerzia forzata, lima sorda e penetrante, che ti rode e ti strugge, mentre attorno l'ala del pensiero e del lavoro pulsa, freme, s'accende, divampa, si trasforma, s'immortala.

 

Esilio! L'impossibilità di poter comprendere il mondo nuovo che ti circonda, così estraneo, così vario, così mutevole. Mondo tanto vicino, eppur tanto lontano dall'essere tuo: per la sua potenzialità di vedere e di sentire che non è uguale, simile alla tua. Per le sue manifestazioni di pensiero, di dolore, di gioia, di amore, che non assomigliano in nessun modo alle tue. Per le sue stesse creazioni artistiche, che non trovano riscontro ed eco alcuna col ritmo del tuo canto, con le visioni e le chimere del tuo sguardo, con l'accento e la sensibilità della tua poesia.

 

Esilio! Ed invano tu cerchi di afferrarti a questo scoglio; di ingranare la tua esistenza nell'addentellato di questa formidabile macchina: essa ti respinge, ti rigetta lungo il cammino, e tu resti solitario a riva, miserabile rigurgito di onde in burrasca, frusto rottame da gettarsi tra i rifiuti, mentre pur senti, nell'intimità dell'essere, che vali ancora qualcosa; che sei ancora qualcuno.

 

Esilio! Il vuoto, l'insanabile vuoto, sguardo senza pupille, tra un avvicendarsi di ponti, di strade, di piazze, di monumenti, di edifici, di cui nessuna pietra, nessun angolo e nessun canto rimoto hanno per te un sospiro, una voce, un affetto, un ricordo.

 

 

...Quel sentiero montano, odorante di timo e di ginestra dove tu, bambina, seduta sopra un masso bianco e brullo, solevi cantare alla piccola lumaca, raccolta lungo la via, quel ritornello popolare che l'invita a mettere fuori dal guscio, la testolina timida e nera.

Quelli verdi, ondeggianti catene di colli e di poggi, che nei quieti, rosei tramonti di Maggio, si decoravano di greggi venenti da lontano, e di pastori lenti ed assorti tra quella solennità di sole e di silenzio.

Quei viottoli segreti e tortuosi tra la fragranza delle rupi e delle siepi, dove di notte inseguivi le lucciole d'oro, e ne ghermivi alcune, con piccoli trilli di gioia, per serbarle sul tavolino, accanto al tuo lettuccio, sotto un bicchiere arrovesciato. E che piangere, che singhiozzare il giorno dopo, allorchè più non trovavi le magiche stelline filanti; ma piccoli, informi insetti, immobili e neri.

Così... così... tutta la tua vita! Un andare, un tenace andare verso le luci ed il sogno, ed un trovar sempre l'ombra ed il gelo, ed un trovar sempre il sogghigno crudele dell'agguato e dell'inganno.

E quei boschi canori... quei castagneti poderosi... i torrenti spumeggianti fra le rocce e i dirupi, e su tutta quella magnificenza d'acque e di colori, la filanda garrula e operosa, ed il secolare convento dei domenicani, riattato a istituto normale, dove quel tuo visetto chiuso ed austero, curvo sui libri e sul lavoro, non carezzato da mano materna, si prepara da solo, da tutto solo, al dramma della vita.

 

*

*   *

 

Qualcuno mi aveva poggiato una mano sulla spalla.

Alto e sottile, un leggero casco di capelli biondi e ondulati sulla fronte serena, una sanità d'agile sorriso nell'arco puro e netto delle labbra giovanili, l'improvviso sopraggiunto mi guardava attentamente.

Perchè così sola, Virgilia?

Non risposi: avevo ancora l'animo immerso nella nebbia del passato.

– Certo, egli soggiunse, tu devi sentirti a disagio in una terra nuova. E poi... chi l'ha veduto il fascismo; chi ha sofferto per esso; chi ha perduto degli amici laggiù, deve sentirsi bruciare il cuore, ed ogni parola deve sembrargli vana.

Mi faceva bene, fra tante delusioni e amarezze, quella voce fraterna, spontanea, piena di conforto e di sollecitudine.

Nella sala s'era intanto levato un canto lento e triste: nostalgia ed effusione d'un romantico cuore pietoso ed ignoto.

 

Ai sedici d'Agosto, sul far de la mattina,

Il boia avea disposto l'orrenda ghigliottina

 

L'ombra del giovanetto Caserio ritornava, piena di fascino e di suggestione fra di noi, ed io trascinata da quell'onda di memorie eroiche credetti di vederla rivivere nei grandi occhi azzurri che mi guardavano con dolcezza, e nella testa bionda e bella, che si era curvata, sollecita e gentile, sul mio affanno e sulla mia solitudine.

Senti? Egli riprese, mentre qualcosa – sdegno, protesta, rivoltaera passata, rapido lampo, ad oscurargli lo sguardo. Eppure non è più l'ora della spensieratezza e dei canti: è quella dell'azione.

Lo guardai negli occhi, e mi parve fossero pieni di lacrime e di vampe.

Necessita l'eroismo, oggi; il sacrificio di qualche generoso; di qualcuno che sappia affrontare la morte.

Io ero rimasta un poco interdetta, e tacqui davanti all'esuberanza di quel giovane di cui non conoscevo neppure il nome.

– Sì, bisogna avere lo sprezzo, per la vita, ripeteva egli a bassa voce, quasi avesse voluto ben compenetrare e inchiodare nell'animo, tutte le sillabe di quelle gravi parole.

– Come ti chiami? allora gli chiesi.

Michele Schirru.

Sardo, forse?

Mi rispose un tagliente come lama acuta e sottile.

Una fugace visione di cime aspre e brulle, superbe di contro l'infinito: uno scrosciare d'acque violenti e rabbiose: una montagna di spuma sfioccantesi in pioggia di fiori bianchi ed azzurri contro la roccia di Nettuno: lo strido dell'aquila sulla vetta possente: il mugolio dei lupi nella valle profonda.

Nella sala il coro aveva afferrato il crescendo del ritornello:

 

Disse Caserio: Che cosa c'è?

È giunta l'ora, alzatevi in piè.

 

Fuori... fiamme, lampi, intrecci di fasci rilucenti nella città dell'oro, del frastuono e della magnificenza: dentro... in quel ritrovo modesto, un ribollire d'odio e di sdegni, un arroventare di memorie, di promesse e di speranze, da cui ben presto, inaspettato, avrebbe divampato il più alto, il più ardente, il più fiammante dei roghi.

 

*

*   *

 

Una scossa: un tuffo al cuore: un folle oscillare di tutti i pensieri, poi una sola parola: Schirru!

Raccolsi il giornale che m'era caduto all'improvvisa, inattesa notizia, e stetti immobile a trangugiare le vili, inutili lacrime, che a fiotti mi si aggrovigliavano alla gola.

Alcuni amici entrarono concitati.

– Hai visto i giornali?

Risposi con un cenno; ma mi chiusi nel silenzio per non vedere e non sentire che Lui.

Angoscia, sgomento, ammirazione, rivolta: tutto dentro di noi.

– Così giovane, così forte e sano... singhiozza uno dei suoi amici più cari.

Io seguo l'intimo pensiero che si desta e si svolge ad ogni sguardo, ad ogni espressione degli altri.

 

Il credente cieco e sincero in un Dio immortale che punisce e che premia, può nell'ora del sacrificio supremo trovare fermezza ed esaltazione al pensiero dell'al di , che lo attende in un risveglio di gloria.

Il cencioso, il mendico, che deve cercare una crosta di pane alla svolta delle vie; il deforme che sente, giorno per giorno, gravare più forte quella enorme sciagura, che privandolo per sempre dell'amore, gli , per compenso, un qualche sguardo di fredda, mortificante pietà; il malato che si consuma e si spegne pian piano, e non può mai godere le gioie, le estasi, gli smarrimenti felici; questo essere minorato; questo tragico sommerso tra i flutti della vita, che lancia ad un'occulta volontà crudele, lo strazio di quel martoriante "perchè" rapisardiano, può anticipare, senza rimpianto forse, l'incontro e l'abbraccio con la morte.

 

Or che un cieco poter sì m'ha distrutto,

Perchè salda alla terra ho la radice?

Perchè se più non devo esser felice,

Pietoso Iddio, non mi distruggi tutto?

 

La lunga, acerba sofferenza, lo stillicidio acre d'ogni giorno, d'ogni ora, valgono a spiegare, in questo naufrago eterno, il grandioso gesto di Bruto; valgono ad illuminare il mistero che lo incoraggia e lo sostiene davanti al supremo olocausto di tutto stesso.

Ma Lui... questo uomo amante ed amato; questo padre sano e vigoroso; questo giovane bello e sorridente, che avrebbe potuto inebriarsi tra gli abbaglianti vortici del piacere e dell'oblio; che avrebbe potuto godere il tepore del suo nido solido e tranquillo, e guardare noncurante la miseria delle folle, e irriderle nella supina rassegnazione di pavidi schiavi, da dove attinge tanta sovrumana energia, e tanto fulgore di luce, che gli sostengono intatta la saldezza del cuore?

Un altro... un altro, proprio in quei giorni aveva stupito il mondo intero col suo contegno forte e fiero: un altro, fissi i grandi occhi verdemare alle stelle che si spegnevano in cielo, aveva inceduto, sdegnoso e solenne, petto scoperto e fronte illuminata, verso la tragica morte.

Sono le fiamme queste di un'Idea che ha radici nella terra; ma fronde che respirano nell'immensità dell'azzurro.

Sono le occulte, indocili forze degli oppressi, dei respinti, degli abbandonati, dei delusi, che di improvviso, quando più l'aria è grigia, ed imminente sembra la notte, saettano, il soffocato dolore, in una freccia omicida.

Sono le primavere radiose che di tratto in tratto sbocciano da quel manipolo di anticipatori e di temerarii, accusati dagli idealisti della frode, del mercato, dell'usura, del truogolo nel battistero, di materialismo funesto alla elevazione dello spirito umano.

 

 

Adesso comprendo... scomparve, e non mi disse neppure una parola di addio, mormorò qualcuno.

 

S'allontana lentamente davanti al suo sguardo l'enorme mole dei grattacieli a picco sulla baia sconfinata: i ricordi del passato si distaccano dalla riva e gli assediano lo spirito, mentre la statua della Libertà, menzogna vestita di luci, attenua sempre più il suo splendore fra le nebbie che s'avvallano sulle acque cupe.

Batte, contro i fianchi della nave, il desiderio oscuro e insidioso del mare.

Egli è solo tra quel fragore di acque e pulsazioni di eliche e immobilità di cielo.

Egli è solo, lontano da tutti: bruciato, consunto da un ostinato pensiero: chiuso come un sepolcro sopra il suo segreto.

Di sera, quando il mare sembra s'acquieti: di notte, quando ogni cosa si tinge del pallor della luna, egli risente fra le braccia la testa della donna sua: egli risente fra le sue, le manine dei figliuoli, alucce che fremono d'ogni stretta, d'ogni bacio, di ogni carezza; ma non vacilla, si turba la ferrea volontà che lo trasporta lontano.

Danzano, avvinte di palpiti e di desiderio, nel ventre della nave, le coppie flessuose ed eleganti tra uno sfarzo di nastri, di luci e di fiori, e un selvaggio frastuono di jazz; ma Egli, il bel giovane biondo che trascina con la profondità degli abissi, l'immensità dei deserti e il destino d'un popolo, non ha fremito, non ha sguardo per quel fugace rapimento di nervi e di sensi.

Così... così... nella stessa maniera – come in un giorno lontano il pallido tessitore di Pratopasserà Egli, muto ed assorto, tra il fascino, le bellezze, le lusinghe di Parigi, che voluttuosa ammaliatrice ridente, sfolgorerà, davanti a lui, i turbini dei suoi piaceri, i gorghi dei suoi folli ed obliosi miraggi.

Ad altri... ad altri quella vita fatua di avventure, di mollezze, di vizio; ad altri quella vita di bagordi, di sensualità, di frivole ed effimere ebrezze: per Lui... altra cosa è la vita per Lui.

È questo dramma appassionato, violento, che gli inietta nel sangue il martirio, la tortura, lo spasimo dei sepolti nel fondo delle galere; che gli configge nell'animo, chiodi roventi, i nomi, i volti, lo sguardo dei caduti, e lo arma, e lo avventa, da solo, contro il tiranno.

È questa procella incessante, infinita che lo scuote, lo afferra, lo trafigge, lo trasfigura, lo esalta, e lo strappa alfine dal rassegnato gregge umano, per scolpirlo nell'eternità del tempo e dell'amore.

Non è più un uomo Lui: è una figura di sole che avanza fra le tenebre.

Non è un morituro Lui: è il creatore dell'atteso domani.

Non è solo e abbandonato Lui: è l'annunciatore d'una tempesta che brontola, s'accalca, si addensa, s'allarga, e scroscerà in turbini di venti, in fracasso di onde, in clamori di tuoni, in barriti d'abissi.

Domani, allorquando tra centinaia di armati, volti di satrapi e cuori di iene, Egli avanzerà saldo e maestoso verso il supplizio, tutto questo oscuro, contrastante martirio d'un popolo, che s'era avvinto al suo cuore e l'aveva scarnato, così come lava bollente allorchè discende lungo i fianchi del monte; tutta questa violenta, oppressa passione di anime, su cui belve umane, impastate di bava, di sangue e di fango, vògano e rèmano da anni, credendosi al sicuro come sopra acqua inerte, convellerà in fulgida fiamma nell'ardore delle sue pupille azzurre, eromperà nel grido della sua grande Idea: Viva l'Anarchia!

Lividi, tremanti allora, il volto e le labbra dei vivi: sereno, nell'estasi del sogno, il viso del morto, mentre lentamente, fra la tristezza del giorno che sorge, il bel corpo trafitto si trasforma e si dissolve in vapori sanguigni.

 

Vivere un'ora, un attimo solo, un palpito ardito,

Poi tuffarsi nell'onda dell'azzurro infinito.

Ecco la vera, intensa voluttà della mente,

Ecco il desio gagliardo di chi medita e sente.

 

*

*   *

 

L'un dopo l'altro erano arrivati tutti gli amici, ed avevano negli occhi le tracce del pianto.

– E adesso... ferito, incatenato; tra una ciurma di bordellieri briachi, come e quanto Egli dovrà soffrire! È l'assillante pensiero di tutti.

 

Non una parola di viltà, di debolezza, di rinuncia; ma un sordo, cupo tormento, mentre la carne gli duole; mentre la testa si spezza tra le bende insanguinate; mentre lo spirito si arrovella tra le catene: un solo pensiero, un solo rimpianto: Non averlo potuto uccidere!

È l'eroe, Lui; l'eroe supremo della mente più tragica dell'arte greca.

Incatenato sulle alte montagne; sospeso fra cielo e terra; tra l'urlo dei venti ed il fracasso delle folgori, non apre bocca per un accento di umiliazione e di affanno. Impassibile resta, questo vinto sovrumano, fra l'angoscia, l'insulto e le torture, ad aspettare l'ora della morte, che sarà quella della liberazione.

Passa, folgora e rivive, negli occhi dilatati dalla febbre e dal delirio, la mirabile e possente visione.

"Ed ora giù tutte le forze nemiche: cadete su di me, fulmini dai solchi tortuosi e dalle punte omicide: scatenate sopra di me la vostra rabbia, tuoni e venti furiosi; sradicate la terra e confondetela con gli spaventosi turbini del mare, e col fuoco degli astri; precipita, o Giove, il mio corpo trascinato da una violenza irresistibile e spietata, nel fondo del baratro nero; Io sono, io sono oggi, Immortale".

FINE


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