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AMBROGINO da Milano è avanguardista della decima Legione, legio X, come sta scritto su la sua caserma. Questo Ambrogino fa il mestiere di cappellaio nella bottega di suo padre, il quale è una degna persona che ha fatto il suo dovere nel 1915 come soldato nell’arma dei bersaglieri: ci tiene che suo figliuolo sia avanguardista, ma osserva che, o sia per causa del saluto romano, che la gente non consuma il cappello; oppure sia la usanza tedesca di andare in giro a testa vuota; oppure sia il cupolino basco che lo portano anche le persone serie: la conseguenza è che c’è meno commercio. In questi ultimi tempi poi i cappelli a cilindro sono stati colpiti col nome di tubi di stufa, e si vergognano dei loro splendori. Insomma, c’è un po’ di rivoluzione anche nei copri-capo.
La madre di Ambrogino è una di quelle brave donne di casa, di nobiltà popolana, milanese puro sangue, che è rispettata e si fa rispettare, come la marchesa Paola Travasa nel rango dell’aristocrazia.
Ma quando Ambrogino, – camicia nera, fazzoletto arancione al collo, – va a passo di marcia con la sua legione, gli viene in dosso un’altra anima: forse per quella nappa nera che gli batte su la fronte, per quel fulard di seta vera che glie l’ha comprato sua mamma, e ha i colori di Roma; e forse per la mitragliatrice con cui fa le manovre.
È un ragazzo che può anche dire: te do una sberla; ma siccome è forte e di buon sangue, prepotenze non ne fa e non ne ha fatte mai: è anche un viso gentile per un cappellaio; ha un sorriso, due occhietti allegri celesti dentro lo scrigno delle palpebre per cui le tose lo chiamano «simpatico»; mentre c’è qualche suo compagno che non ha proprio una faccia rassicurante. Sta il fatto che quando va con la sua legio X, e il gagliardetto puntato davanti, non sarebbe prudente contrastargli il passo.
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In questi ultimi tempi gli è capitato di leggere un libro che parla della decima legione di Giulio Cesare, che conquistò la Gallia e poi tutto il mondo; e questa decima legione era formata di «transpadani, gente sana, forte e non degenerata, mentre i signori romani erano diventati gran signori che non facevano più niente, erano pieni di boria, e questa corruzione fu la cagione di tanti guai», ecc., ecc. Così dice quel libro: lo legge una volta, lo legge due, e gli avviene come quando per combinazione entra una spiga fra la carne e la manica, che non la si può levare, e più ci si muove e più la spiga va su.
Viene a capire che la Gallia è la Francia, contro cui tutti quei ragazzi della nappa nera ce l’avevano senza sapere bene il perché: così suo nonno ce l’aveva con l’Austria, e gli raccontava la storia di quel capitano dei croati, che comandò ai milanesi: «indietro ti e muro»; «e invece noi siamo andati avanti, – diceva suo nonno, – e abbiamo fatto le Cinque Giornate con Antonio Sciesa, che ha detto: tiremm innanz! e loro hin andaa indree».
Ma quello che più di tutto lo aveva colpito, era quel «transpadani», una parola che non si dice più, ma che Ambrogino non durò fatica a scoprire che vuol dire «di là del Po». Potevano essere di Parma, di Modena, e anche di Ferrara che è lì sul Po, gente in gamba e di buon’aria. No! erano di Milano come lui.
Insomma, gli cominciò a venire un po’ di caldo alla testa. Quella X legio su la caserma gli fa l’incantesimo, e gli par d’essere lui un legionario di Cesare, e vuol sapere se è proprio vero che quei soldati fossero transpadani.
«Ogni legione, – diceva quel libro, – aveva il suo numero d’ordine, e quando una legione veniva distrutta, se ne arrolava un’altra col medesimo numero».
Quel «veniva distrutta», poteva fare venire i brividi; invece ad Ambrogino niente: la decima legione c’era sempre, e stava scritto lì: legio X.
I legionari di Cesare costruivano ponti, piantavano palizzate, spianavano strade, facevano i meccanici, proprio come lui che aggiustava le motociclette.
Giulio Cesare li conosceva tutti per nome, e quasi quasi gli pareva che lo chiamasse: «Ambrogino, fuoco!».
– Se vai avanti così, caro il mio figliolo, – gli disse un giorno sua mamma, – ti fai una malattia.
– Già che gli affari van da maledetto, se ti metti a leggere libri, possiamo chiudere bottega.
Un giorno Ambrogino andò con quel libro dal suo tenente che era quasi romano, e gli fa vedere dove era detto che tutti quelli della decima legione erano transpadani, «che vuol dire milanesi».
– Quanto sei fesso, – gli rispose il tenente. – Non ti accorgi che quello che leggi è un romanzo?
Allora va dal figlio del proprietario dello stabile dove abita, ed è un bel ragazzo che fa il liceo e le deve sapere queste cose. Questo bel ragazzo era molto bravo al tennis e rispose:
– Sarà benissimo che fossero transpadani, ma queste cose le ho studiate nei Commentari quando facevo il ginnasio.
Così Ambrogino era venuto a sapere che quell’uomo straordinario di Giulio Cesare aveva scritto un libro di memorie, e questo libro si chiamava I commentari.
– Proprio scritto da lui?
– Almeno così dicono, – rispose il signorino. – Lo deve aver dettato alla sua dattilografa; cioè a macchina no, perché allora non c’erano, ma a qualche segretario.
– Me lo fa vedere questo libro?
– Chi sa dove l’ho messo? – rispose quel signorino. – Deve essere andato a finire in solaio.