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AMBROGINO abitava in una di quelle case che si facevano una volta, ed era nella vecchia Milano presso Porta Ticinese; anzi non si capisce come quelle case siano rimaste in piedi fino ad oggi: c’è una gran corte quadrata con una vite che va su su a cercare un po’ di sole; fa molti pampini, ma non riesce a maturare mai uva. Dal quarto piano si vede, sopra la distesa dei tetti, quella bella cupola seicentesca di san Lorenzo, e ai lati quelle fiamme di marmo che pare vogliano andare in cielo. Lungo ogni piano corrono ballatoi con ringhiere, e le porte si aprono sui ballatoi.
V’è un certo silenzio, un certo decoro: vi abitano inquilini civili, e da molti anni.
L’intonaco della corte, le ringhiere di ferro dei ballatoi, la vernice delle finestre attraverso il tempo si sono armonizzati in una fraterna malinconia.
Verso le cinque di sera, l’odore del minestrone che si prepara, richiama imagini di una cara intimità familiare.
Nella portineria c’è la pusterla di lucido legno, sagomato all’antica, e, dentro uno sgabuzzino di vetro, si vede la portinaia che monda il riso, sgrana fagioli borlotti: conosce tutti i suoi inquilini: i tosann che vanno al lavoro, i tosanett, i bagai che vanno a scuola, i donnett che vanno a far le provviste.
Una mattina, verso le undici, Ambrogino doveva andare agli esercizi con la mitragliatrice, un’arma che a manovrarla con sangue freddo, è tremenda. E siccome era in ritardo ed era pieno di gioia pensando alla mitragliatrice, così veniva giù dalle scale di corsa, e, snello com’era, pareva volare.
– Ehi, dico, lei, militare fascista! – si sentì una vocina che veniva dal giro sottostante della scala.
Era un vecchietto con palandrana nera, una mano bianca sul paramano della scala, l’altra mano impedita da un pacco di libri. Saliva le scale piano piano: forse contava i gradini, o era distratto perché vedendo Ambrogino calar giù con quella furia, si impaurì.
Siccome Ambrogio aveva la mantellina e questa svolazzava, e svolazzava la nappa, e svolazzava il fazzoletto, e le brache erano gonfie, così roteava come un pipistrello; e la scala era stretta, e al vecchietto parve non ci fosse posto; e invece di restringersi alla balaustra, fece come avviene spesso agli sventurati pedoni che, quando passa un’automobile sono presi dal panico e vogliono attraversare la via. Credono fare in tempo, e vanno sotto.
Così fece il vecchietto che abbandonò la balaustra per avere la protezione del muro; ma male gli incolse ché in quel trapasso avvenne lo scontro col bolide Ambrogino.
Il vecchietto ruzzolò, Ambrogino saltò sopra.
– Mi dispiace, scusi tanto, – disse, ma ho mica tempo. – E voltandosi appena, gli parve che il vecchietto si sollevasse da sé, mentre uno stormo di fogli faceva volo plané giù per le scale. Ambrogino corse via.
*
Quando fu di ritorno dalle manovre, Ambrogino domandò alla portinaia se quel veggett si era fatto male.
– Mica bene di sicuro, – disse la portinaia.
Ambrogino domandò chi era, e la portinaia disse che era il professore che sta all’ultimo piano, e Ambrogino salì su. La porta sul ballatoio era appena socchiusa, e Ambrogino con un «compermesso», entrò.
Si trovò in una specie di tabernacolo librario, dove una voce che veniva dal di là lo guidò con un: – Avanti.
Ambrogino venne avanti e vide quel vecchietto in poltrona, di fianco al lettuccio, presso la finestra; e teneva una gamba posata sopra una sedia.
– Belle cose che fa lei, – disse il vecchietto. – Lussazione al ginocchio, escoriazione lacero contusa alla mano destra. Ah, belle cose!
Ambrogino apparve molto mortificato: rinnovò le scuse, ma trovò che la colpa era di lui che doveva star fermo e non attraversare la strada.
– La colpa, già si sa, – disse il vecchietto, – è sempre di quello che le prende.
Sollevò il volto verso il giovane che non trovò risposta; e Ambrogino sentì gli occhi del vecchio, come una luce non usata, percorrergli sopra. La voce del vecchio mutò intonazione, un’intonazione seria, ma che non pareva sul serio, e diceva:
– Non siamo più al tempo di Sparta dove, quando appariva un geronte, i giovani lacedemoni si fermavano in posizione di attenti, e per questo vinsero la battaglia delle Termopili.
Il linguaggio era meno comprensibile della intonazione della voce.
Ambrogino, allora, volle vedere la ferita lacero contusa alla mano, e da quel buon figliuolo che era, ancora si dolse e corse giù dal farmacista a prendere l’acqua di arnica, la garza, e volle far lui gli impacchi.
Il vecchietto lasciava fare, poi disse sorridendo: – Puoi fare impacchi fin che vuoi, ma non puoi impedire al tetano di venire, se vuol venire.
Ambrogino a queste parole si mutò in volto come fanno i giovani quando ascoltano cosa su cui non cade il pensiero. Poi ricordò le sue istruzioni militari, e súbito si offerse per andare a chiamare il medico e fare una iniezione contro il tetano.
Il vecchietto gli rispose blandamente agitando l’altra mano bianca, e con parole di una lingua a lui sconosciuta: – Quid sit futurum cras fuge quaerere – disse –; piuttosto sai quello che mi dispiace: che tu con la tua furia hai rotto il violino del povero cieco.
– E se il violino è rotto –, continuò il vecchietto con vocina di patos, – con che cosa guadagnerà il povero cieco il suo pezzo di pane? Guarda in che stato l’hai ridotto!
E Ambrogino vide quella mano trasparente che con l’indice segnava i quinterni di un libro, sparsi lì sul lettuccio.
– Chi rompe paga, dice il giureconsulto Papiniano.
– Ma potrai tu pagare? Sei ricco di terre, di oro e di argento? dives agris, dives auro et argento, dives positis in foenere nummis?
Parve ad Ambrogino di esser preso in giro.
Di oro non ne aveva che non ce n’è più in circolazione, ma di argento per pagare un libro, si.
– Come ti chiami allora? che fai? hai il padre e la madre?
Il giovane rispose che si chiamava Ambrogio, che suo padre stava benone e sua madre anche.
Mentre parlava, sentiva ancora l’occhio del vecchio, chiaro sotto le ispide sopraciglia, penetrare dentro di lui, e udì queste parole stravaganti: – Fortibus et bonis nascuntur fortes et boni. Ciò non si verifica sempre, ma come regola generale, può andare.
Ambrogino aveva levato dalle tasche di quelle brache a vela una moneta da dieci lire.
– E ti pare che basti? – domandò il vecchio.
– A me mi pare tanto – disse Ambrogino. E sbirciando quei quinterni aggiunse:
– Non vede che è un libro vecchio? tutto mitragliato.
– Sono stati i tarli. Ma guarda che bel zigrino nero impresso nell’oro! E cosa crede lei –, aggiunse con registro mutato di voce –, che un libro perché è vecchio sia pari a un vestito vecchio? Un libro nuovo di fabbrica te lo posso cedere con lo sconto del novanta per cento e anche di più, ma un libro antico è come un violino antico. Questo è quasi un incunàbolo! Cioè: era!
Tale parola suonò nuova agli orecchi di Ambrogino e gli fece raggrinzare il nasetto di falco; ma il vecchio prese uno di quei fogli e glielo applicò davanti, così che Ambrogio spalancò gli occhietti cilestri e le labbra tremarono in un sorriso di sorpresa.
La pagina filogranata che il vecchietto gli aveva messa davanti diceva così: libro primo: incominciano li Commentarii di Caio Julio Cesare tradotti in volgare, stampato in Vinegia all’insegna dell’Anzolo Raphael. Nell’anno MDXXXI. Del mese di Ottobre.
E sotto si vedeva un quadratino con una figurina grande ammantata e un’altra piccina, con una sottanina.
– Chi è ? – domandò Ambrogino. È Giulio Cesare?
– Tu sei inesperto in bibliografia nonché in agiografia – disse il vecchio –. Questa è l’insegna dello stampatore e vedi la scritta: Arcangelus Raphael. Non conosci che è un angiolo? Ha le ali. E il puttino è Tobiolo. Lo vedi stampato lì? Ammira come sta docile e reverente! L’angiolo lo sorveglia e nel muover del passo vedi come è elegante, e tiene il puttino per mano come usava in quei tempi tenere i bambini.
– Cosa tiene in mano questo puttino? un bastone? – domandò Ambrogino.
– Dovrebbe essere un pesce, uno storione, quello che doveva servire a guarire i vecchi occhi del padre di Tobia, e oggi ne fanno caviale. A quei tempi dell’arcangelo Raphael, i figli erano molto affezionati al loro papà.
– C’è anche il cagnolino, – disse Ambrogino scoprendo una terza figura.
– Sì, con la coda riccia, segno di buon umore: canis fidelis, che ti fa bau bau, quando odora un nemico.
– Senta –, disse Ambrogino –: se chi rompe paga, io pago, e i cocci sono miei.
Il vecchio guardò quel ragazzo con meraviglia perché pareva fare sul serio di volere quel libro.
*
Quando Ambrogino fu giù in portineria, domandò alla portinaia:
– Solo, e non parla con nessuno.