Alfredo Panzini
Legione decima
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III ALL’INSEGNA DELLA MATTIA

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III ALL’INSEGNA DELLA MATTIA

SE non lo sa lui, con quel libro vecchio, di chi era composta la decima legione, non lo sa nessuno».

Così pensò Ambrogino, e il seguente lo andò a trovare; e come seppe che stava meglio, gli disse:

Egregio professore, vorrei un piacere da lei. La decima legione era formata di transpadani?

– Quale decima legione? – domandò il vecchietto.

– Quella decima legione di quel libro che lei non mi ha voluto vendere.

Il vecchietto stralunò gli occhi.

– È uno che va a scuola, lei?

No, sono uno che vado a bottega e faccio il cappellaio. – E così raccontò tutta la storia: di quella frenesia che gli era venuta di sapere della decima legione, «e mia madre mi dice che se vado avanti così, finisco col diventare matto».

Il vecchietto si concentrò, fissò la punta dei suoi occhietti nelle pupille azzurre del giovane, e disse: – I consigli materni sono inspirati per chiaro-veggenza alle madri.

Poi aggiunse:

– Che la decima legione di Giulio Cesare fosse formata di transpadani, può darsi: che fossero milanesi, non te lo so dire, ma puoi star sicuro che era tutta una legione di matti. Per questo non ti spaventare: tutte le persone rispettabili hanno un po’ del matto. Senza la divina Mattia la Saggezza cammina male. Forse era matto anche Giulio Cesare. Leggi però meno libri che puoi, ragazzo! A leggere troppi libri si rimane incerti, e quando uno comincia con l’essere incerto, finisce col diventare debole, e quando uno è debole, ecco che non vola più, non spara più mitragliatrici.

 

*

 

Come ognuno può vedere da questi discorsi, si avverava il proverbio: Dio li fa, poi li accompagna; e la Mattia, quella sincera signora elogiata da Erasmo, mette insieme senza scrupoli gioventù e vecchiezza sotto il suo scettro.

Disse il vecchio:

– Vieni, vieni pure, se credi, a casa mia tutte le volte che vuoi, e ti racconterò la storia della decima legione di Cesare, e di Ciro, e di Alessandro; dei grandi, insomma, consacrati dalla memoria, che sono i soli di cui merita occuparsi: io te li vendo per quello che li ho comprati sui banchetti popolari della verità e non nelle vetrine della vanagloria.

 

*

 

Questo professore, di cui per dovuti riguardi, taceremo il nome, era stato dimesso dalle scuole pubbliche per «scarso rendimento», ed ora viveva, come Dio voleva, con qualche lezione privata, se ne trovava; e di una grammatichetta che gli aveva reso sin allora qualche soldarello. Ora non più. Su la porta dell’appartamento, accanto alla nappa del campanello, stava scritto: «Antonio... grammaticus». Un cartello mobile pendeva da un chiodo, dove era scritto: «Non suona, non sono in casa».

Una sua specialità, quando faceva scuola, era osservare come era fatta la testa degli scolari per indovinare quello che c’era dentro; e li guardava dentro negli occhi e ascoltava il suono della loro voce.

Se vi trovava qualche virtù, li teneva sotto osservazione. Ma aveva dovuto concludere che per gli uomini avveniva quello che avviene nei vitellini e nei puledri, che da piccini sono graziosi e dànno bene a sperare, e poi vengono fuori i difetti. Non per questo i vitellini devono essere tolti alle mamme materne; né si deve credere che una super-alimentazione artificiale giovi all’allevamento. Credeva anche che i vitellini non devono stare sempre legati alla greppia; ma un poco all’aperto.

Quando si vede un vitellino, un puledrino, anche un branco di maialetti, uscire dalla stalla, fanno veramente impressione: sembrano ubriachi, pazzi: corse furibonde. Oh, innocenza! Si snodano le gambe. Dopo un po’ prendono un trotto mansueto e ti vengono vicino quasi per dire: «cosa vuoi?». Ti annusano anche, e poi fanno un salto indietro come presi dalla divinazione del loro futuro.

Questo professore pretendeva molta pulizia nella scrittura degli scolari, e diceva che scrivere per grammatica è pulizia.

Queste opinioni espresse per mordacità, gli avevano alienato l’animo dei superiori.

Più grave colpa era far scuola, come faceva, in letizia. Era capace, a guisa di istrione, di parlare come Ettore ad Enea; come Priamo quando vede Achille gli domanda: «Hai tu di ferro il cuore?»; e faceva ridere quando imitava il sacerdote Calcante che non vuol dire ad Achille il segreto della pestilenza se prima non è garantito, perché ha paura del re Agamennone.

Per queste ragioni era stato dimesso.

Negli anni suoi giovani, aveva sofferto di qualche velleità di scrittore e aveva stampato un romanzo, dove diceva una cosa che non si deve dire: diceva che è difficile trovare una donna bella, e portava la testimonianza di Raffaello dove confessa che per dipingere la sua Galatea «gli convenne vedere più belle donne per farne una sola bella, perché c’è carestia di donne belle».

Ma Raffaello non stampò queste cose; le disse in una lettera privata.

Quel romanzo fu un disastro, e così lui imparò a non scrivere più.

Egli era molto ordinato nella zazzera e nelle mani. «O ci sia o non ci sia san Pietro, – diceva, – voglio presentarmi alle porte del paradiso con le mani nette».

 

 


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