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O milite della decima legione, – disse il professore, – vuoi tu vedere Cesare?
Ambrogino rispose che assai volentieri lo avrebbe veduto.
Sul ballatoio di quel quarto piano erano vasetti di erbe odorose, come maggiorana e erba cedrina; e una gabbia di canarini.
Quella specie di studiolo dove prima si entrava, aveva libri sino al soffitto: tutti ordinati, in legature antiche, punteggiate di barbagli d’oro sì che la stanzetta pareva un tabernacolo. La libreria in una parete faceva un arco tondo, e sotto l’arco c’era un seggiolone con i bracciali di noce ben sagomata e un tavolinetto a cassettini sino in fondo, e sopra una zampa di lepre per levare la polvere.
– Questi libri, – disse il professore, hanno una virtù che non puoi credere: d’inverno tengono caldo e d’estate tengono fresco.
Ambrogino osservò con meraviglia una spinetta.
– Sì, quando mi piace.
– Che musica?
Ambrogino lo vide sedersi alla spinetta; la zazzera ondulò; il dito cercò i tasti, e una vocina stridula come la spinetta, ma non ingrata, cantò:
Ma poi si incantò, levò la testa, e rivolto ad Ambrogino disse:
– Oh, milite della decima legione, quale è il nominativo della tua legione?
– Oberdan! – rispose Ambrogino.
La testa del vecchio cadde giù. La rialzò lentamente e disse:
– Io avevo a un di presso la tua età quando arrivò la notizia della morte di Oberdan; e a noi giovani sembrò che una grande ferita con molto sangue fosse aperta nel cuore della patria. Forse c’è ancora. Però non devi credere che quel re della Beozia si rallegrasse nel firmare la sentenza di morte di Oberdan. L’impero di quel re non fu un’operetta viennese! Ma non stiamo qui dentro fra questi libri –, disse poi alzandosi: – gli antichi autori sono gravi, sono rispettabili, ma non sono divertenti. Andiamo all’aperto. Sotto l’ombra dei libri i giovani fanno presto le rughe.
Dal ballatoio, sopra l’orizzonte dei tetti, si vedeva la guglia ricamata con la Madonnina d’oro del duomo.
– È mai passato per Milano Giulio Cesare? –, domandò allora, chi sa perché, Ambrogino.
– Altroché! – rispose il professore. – Andava a far colazione all’osteria dei tri basei, dove vado io.
– Mi pare che lei mi prenda sempre in giro, – disse Ambrogino.
– Ti pare? È una brutta abitudine che non mi sono mai potuta levare. Non me ne accorgo nemmeno più; ma ti consiglio di non imitarmi. Questa volta non ti prendo in giro. Se non mi credi, ti farò leggere Plutarco, dove parla di una colazione offerta a Cesare in Milano. Gli furono serviti asparagi in casa di un amico, ma conditi con «unguenti odorati», dice quell’autore, e probabilmente doveva essere burro o butirro come dite voi; e non li gradì, perché Giulio Cesare è uomo mediterraneo, e gli uomini mediterranei condiscono con la verde oliva, mentre gli uomini del nord non la apprezzano.
– Ed ecco Giulio Cesare, – esclamò trionfante, aprendo davanti ad Ambrogino un elegante libro inglese di rare incisioni: Divus Julius Caesar. – Vedi un’aquila tagliente nella fronte? Anche al suo nascimento apparve una stella cometa. Sua madre era una donna di grande nobiltà di carattere, e il suo maestro di grammatica era una degna persona, a cui Cesare fu debitore di quella elegante purità che è stimata anche dai nemici della grammatica.
– Era democratico o aristocratico? – domandò Ambrogino. – Il mio libro dice che era democratico.
– Caro mio –, disse il professore –, tu adoperi come monete in corso parole di tal conio che sono state valutate, svalutate, tosate, falsate, fuse, rifuse. Bada a quel divus; divus Julius Caesar! Lui si diceva discendente nientemeno che da Venere, che come saprai era una dea.
– Questa è una ipocrisia, – disse Ambrogino.
– Sì, una ipocrisia. Ma che cosa è l’ipocrisia? Un abito di cerimonia indispensabile, e tutto sta nel saperlo portare bene. Ah, sì! tutti, ragazzo mio, discendiamo da Venere, anche questi canarini.
– Guarda, guarda, guarda, – si interruppe il professore rivolgendosi alla gabbia, – questi canarini non vivono in pace: il canarino e la canarina! Sono gelosi. Lui le butta giù le ova dal nido e le dà beccate proprio sul cranio sì che le ha spelato tutto il bel ciuffetto che aveva. Animaletti così gentili, essere poi così feroci! E impressionante. Democratico? aristocratico? Secondo alcuni Cesare avrebbe soggiaciuto a certe debolezze, che è bene che tu non sappia; secondo altri sarebbe stato un tiranno, perciò democratico, perché la politica dei tiranni ha avuto poche variazioni dal tempo di Pisistrato e di Dionigi. Il tiranno è l’uomo che appare quando i ricchi son diventati imbecilli. Ma di queste cose puoi interrogare Freud, che si occupò della nostra carne; e Aristotele che si occupò della nostra politica. Quello che mi interessa è questa testa.
Dio ne ha fatte poche di teste così. Lì per lì non fa impressione, e se ti faccio vedere la testa del re Alessandro, tu dici: questa è più bella. Infatti Alessandro assomiglia ad un giovane Iddio con una chioma così ondulata che le signore la invidierebbero.
Cesare invece quando andò in Francia aveva quarantadue anni, e come chiome era una miseria. Non ti imaginare Cesare un gigante! Delicato e bianco di carnagione, magro, soggetto al mal caduco e al dolore di testa. Sai che medicina prese? Prese la guerra per medicina, e i continui viaggi, e il vivere parco, e il dormire sereno. Tu dormi bene, eh? Sai che cosa è la testa di Cesare? È la grande macchina. Dove era questa macchina? Dicono qui, dentro questa calotta di osso. Guarda che armonia! La cupola del cranio posa sopra i pilastri degli zigomi; dopo, le guancie rientrano scarne; le mandibole si riuniscono come in una catapulta. Guàrdalo qui questo ritratto con le sacre bende sul capo: è Cesare pontefice massimo. Pare un centenario tragico. Guàrdalo invece qui, a testa nuda, con la corazza e quegli occhi: è Cesare imperàtor: diverso sempre, e sempre il medesimo !
Ma sopratutto guarda la bocca: se stai attento, vedrai che si muove; e mi sai dire tu se quelle labbra sono amare in giù di una tristezza senza nome, oppure sono sorridenti in su di una ironia come hanno i beati che guardano dall’Olimpo i mortali?
– Ah, perché, – esclamò Ambrogino, – non c’eravamo noi in quel giorno che i senatori con Bruto pugnalarono Cesare!
– I senatori, non so, figliuolo, – disse il professore, – se fossero in buona fede, ma Bruto si; tanto è vero che più tardi si pugnalò da se stesso.
Pensa ad una cosa, Ambrogino, che le ultime parole di Cesare sono di compatimento quando dice: «anche tu, Bruto, figlio mio?». Guarda adesso, laggiù: vedi Roma?
– Dove?
– Segui la Madonnina del duomo come una freccia: là è Roma. Dopo Roma comincia l’oriente. Vedi il sole d’oriente? Illumina tutta una civiltà luminosa. Vedi Babilonia? Tebe dalle cento porte? gli Dei di marmo in Atene, li vedi? Gerosolima la senti cantare ai salmi di David? Nel nordico occidente gravava allora la caligine della barbarie. Poi la marea si rovesciò. Nell’occidente si accendono i fari. Laggiù si fa deserto. Dove è Babilonia? dove Tebe? dove Persepoli? Splende Parigi, Londra, Berlino, Vienna.
– E Milano! – aggiunse Ambrogino.
– Ma Roma, Roma è il bilanciere del mondo. Se togli a Roma Cesare, che cosa è Roma?
*
Il professore, dette che ebbe queste parole, guardò la giovinezza di Ambrogino, e domandò:
– Ne capisci tu niente di quello che ho detto?
– Mica tanto, – rispose Ambrogino.
– Io nemmeno; ma sono parole che noi ripetiamo. Gli astronomi assicurano che vi sono stelle da cui noi riceviamo ancora la luce; e sono morte! Così anche noi portiamo la ricordanza e gli affetti di cose scomparse, onde molta confusione si genera nel nostro parlare. Ma domani vieni, che ti parlerò della X legio, che è molto più facile.