Alfredo Panzini
Legione decima
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VI «FASCISMO» ROMANO

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VI «FASCISMO» ROMANO

MA che ne sappiamo noi, o Ambrogino, dei romani, come comparvero? come scomparvero?

Noi ne sappiamo assai meno di quello che i dottori assicurano di sapere. Accontentiamoci di dire che da prima furono una oscura, povera stirpe italica, che poi salì ai supremi fastigi della potenza e della gloria: il primo re...

– Fu Romolo, quello che ha visto in cielo arrivare dodici avoltoi.

Aquile ti dico, aquile! O almeno più aquile che avoltoi. E perché vide le aquile?

– Per sapere quanti secoli sarebbe durato l’impero di Roma.

Bravo, Ambrogino! Questo mi piace: tutti i popoli e tutti i re vogliono sapere quello che pensano gli Dei, e perciò Romolo non fu soltanto guerriero, ma anche sacerdote. E adesso dimmi: come morì Romolo?

– Fu portato in cielo –, rispose Ambrogino.

– Anche questo va bene, – disse il professore –; ma osserva che i re di Roma che si occuparono specialmente di cose religiose, morirono nel proprio letto; quegli altri re invece che si occuparono specialmente di cose politiche, fecero una fine piuttosto leggendaria come Romolo. C’erano i patres, o patriarchi, che erano gelosi dei re, e volevano fare essi i re, e conclusero col mandare via i re e proclamarono la republica, che vuol dire lo stato ordinatissimo, e non «la republica», nel senso di «confusione», come dite voialtri a Milano. Quei patres o patriarchi erano terribilmente «virtuosi», cioè forti sino alla prepotenza; ma era necessario per arrivare sino alla fine dei dodici secoli! La libertà è la fiamma che li tenne in vita e in morte gloriosi. Considera quegli ultimi romani, come Boezio e Albino che dissero davanti al re degli ostrogoti: «se sperare nella libertà è un delitto, non noi soltanto, ma tutti i nobili romani sono in colpa ». – E adesso dimmi: quale era lo stemma dei romani?

– La lupa.

Va bene: e sappi che ogni popolo ha un animale per stemma: l’elefante, il drago, l’orso nero, l’orso bianco, l’aquila, un leopardo elegante, un gallo che dice bugie perché fa chichirichì anche se non è nato il sole. I romani vollero la lupa. Vèdila con la testa rivolta che guata. E feroce e trepidante insieme. Vedi anche i due pargoletti umani che stanno sicuri sotto le sue mammelle. Essa li difende e li nutre. Quale simbolo! E un altro simbolo ancora!

– Quale?

– Quello che porti tu.

– Il fascio?

– Sì, Ambrogino. Sai dov’è? E quel: «que» di senatus populusque romanus. Quei patres conclusero lealmente, dopo molti contrasti, una alleanza con la moltitudine, che vale plebe; e la plebe salì a popolo come due fiumi che dopo gran spumeggiare trovano il livello, e va maestoso. E così nacque il cittadino romano, romanus civis, che poi diventò italiano, e poi del mondo intero. Non fu vana etichetta senatus populusque romanus. E poi altri que, altre mirabili operazioni concordi: la splendente dea Vesta che congiunge il focolare della famiglia e il focolare dello stato. E poi l’umanità, la pietà, la pudicizia per cui la spada romana fu meno crudele delle altre spade.

Passano i secoli, mutano i costumi, e io vedo sempre i popoli con la loro fisionomia. Deve dipendere anche da quegli animali: ma non per questo io crederò come il barbaro scita Anacarsi alla civiltà primitiva: la civiltà è una meravigliosa conquista, pur con tutti i suoi mancamenti, fra i quali la curiosa pretesa che tutti si credono figli primogeniti della creazione: gli ebrei, per esempio, sono il popolo eletto per antica dichiarazione e dire che non siano fra i più intelligenti sarebbe come negare la luce del sole. Gli ateniesi, non ne parliamo. Senz’essi il mondo sarebbe come una casa senza acqua di chiara fontana. Figli della libertà, essi si vantano con Armodio ed Aristogitone, di avere ammazzato il tiranno. Popolo fine, profumato di viola, dolce nelle parole come il miele dell’Imetto; pieno di educazione. Anche oggi, per dire che un popolo è fine, educato, si dice «ateniese»: ateniese della Senna, ateniese della Sprea. Ateniese di Nuova Iorka non l’ho inteso dire, perché ai miei tempi non si ammetteva preminenza nel mondo se non di quella bella Europa che venne spaurita per mare in groppa al toro furibondo d’amore. E ci fu una volta che l’imperatore dei tedeschi fece una guerra in Asia, dove il detto imperatore vedeva un pericolo giallo; e con pochi reparti di truppa delle varie nazioni europee ebbe ragione degli asiatici che ancora marciavano in guerra coi draghi di carta. Lui poi, quell’imperatore, si credeva il sale della terra e trattava noi italiani con degnazione, e siccome nell’inverno, su la Sprea, l’acqua è gelata, veniva a fare villeggiatura sul Tevere, in una palazzina in alto in alto, dove aveva fatto costruire il trono di Arminio. Di lassù guardava, dai fieri sguardi e dai baffi ritti, Roma; e aveva bellissime scuderie sotto quel Campidoglio che vide i trionfi di Cesare; e faceva attaccare quei cavalli e così galoppava per Roma. Quando? domanderai tu. Quando le automobili erano ancora innocenti bambine: e se la gente non se ne ricorda più, è perché tanti avvenimenti sono accaduti in così breve tempo, e quella palazzina è stata abbattuta.

Ma si può essere ateniesi della Senna, della Sprea, del Tamigi; ed essere poco intelligenti.

Gli ateniesi di Atene fecero una cosa che non è prova di intelligenza. Socrate l’hai mai inteso nominare? Era un vecchio giusto e rispettabile che amava la vita, e non temeva la morte. Non se ne nascondeva la realtà come fanno oggi con false imagini di mondanità gli ateniesi di Nuova Iorka; e fu il primo a dare assicurazioni abbastanza fondate sull’immortalità dell’anima. Credeva in Dio.

Non sembra però che Socrate avesse troppa fede nei santi minori ai quali era delegata la protezione di Atene, e perciò fu condannato a morte. «Socrate –, diceva il libello di accusa –, è ingiusto e quindi colpevole, perché non crede a quegli Dei ai quali la città crede»; e qui «città» vuol dire quello che noi oggi chiamiamo «stato».

Questa faccenda del non credere agli Dei in cui la città crede, oppure di credere in altri Dei, era cosa molto pericolosa, quando tu consideri che gli antichi avevano un terrore folle degli Dei al punto da quasi odiarli per troppa venerazione.

Sai quanti Dei c’erano, oltre a quelli del cielo e della terra? Tutti gli Dei indígeti, o locali che tu vuoi chiamarli, ed erano i più delicati. Si poteva dire «per Giove! ne Dia! per la barba di Giove!», ma le statuette di Atene bisognava rispettarle.

Sembrerebbe da queste mie parole che io voglia esercitare ironia contro i miei amici ateniesi; mai più! Se tu leggi il libro del Fedone, dove è descritta la morte di Socrate, troverai una conversazione piacevole dove un cameriere, più che un carceriere, offre, s’il lui plait, al vecchietto una tazza non dolorosa di nepente chiamata cicuta. In confronto con le nostre esecuzioni dei nostri tempi, devi convenire che gli ateniesi formavano un popolo educato; ti volevo soltanto mettere in guardia sul culto della libertà. Va intesa con discrezione.

La libertà è un fatto privato fra te stesso, in quei rari casi in cui vi troviate in due, e galantuomini.

– Lei mi vola in alto come un reoplano, – disse Ambrogino.

– Siamo nel secolo della velocità: torno giù subito. Devi sapere che gli antichi avevano un’abitudine diversa dalla nostra: vedevano sempre l’età dell’oro nel passato mentre noi la vediamo nel futuro. Un po’ d’esagerazione ci sarà stata; ma è meraviglioso che tutti quelli che ci lasciarono memoria degli antichi romani, sono concordi nel dire quanto ora io ti elenco: «che i romani in pace e in guerra erano vigilanti; l’uno aiutava l’altro; erano coltivati i buoni costumi; la concordia era grandissima; l’ingordigia per il denaro era pochissima; i cittadini gareggiavano in valore ed onore fra loro; erano fedeli verso gli amici; erano splendidi nell’onorare gli Dei, ma in casa loro erano parsimoniosi: domi parci. Il diritto era fondato su questa buona natura più che su le leggi». Ma vuoi sentirla in latino? Se anche non capisci, non importa: pare il ritornello di una preghiera civile: at romani, domi militiaeque, intenti festinare, parare, alius alium hortari, hostibus obviam ire, libertatem, patriam, parentes armis tègere.

Dopo è venuta la corruzione, – disse Ambrogino.

– Questa, infatti, è una parola che si usa nelle scuole: molte volte quella che si chiama «corruzione» è una necessità. Mi sai tu dire come sarebbe oggi compatibile il vivere parsimonioso con tante industrie del conforto che pur devono vivere?

– Ma non è vero –, domandò Ambrogino –, che i romani stavano sdraiati a tavola per meglio gustare le buone vivande, e si mettevano in testa le corone di rose? Lucullo...

Guarda che disgrazia! – esclamò il professore –. Tu che non conosci di storia romana, e sai il nome di Lucullo! Avessi detto Trimalcione! Lucullo è un calunniato. Fu uomo di non comune intelligenza, nobile e valoroso guerriero. Sventuratamente Lucullo, per disdegno, diventò un esteta della cucina, e siccome fu il primo, così diede il nome agli altri che vennero dopo di lui. La raffinatezza della cucina è un segno di civiltà, come puoi vedere nei francesi. Ma anche per la cucina ci vuole misura: una eccessiva raffinatezza, e nelle vivande e più ancora nelle curialità della mensa, è la campanella che annuncia la debolezza di una civiltà.

Distingui, come usava una volta, quando si studiava grammatica: altro è una cucina rozza, sudicia, bestiale, con tovaglia lorda di sozzure, e altro è una cucina semplice, con mantile di bucato, anche senza ricami. Un pulmentarium di ceci, di fave, di lenticchie, ma fatto bene, come usavano i prischi romani, e la paterna saliera, e il boccale del vinello su la mensa, erano cose gradite alla dea Vesta che vi interveniva con i piccoli Penati e i grandi Lari.

«Se ci fermiamo a tavola e nelle cucine, pensava Ambrogino, – non arriveremo più alla decima legione».

E il vecchio continuava:

– Ma io ti prego di fissare la tua attenzione su quell’elenco che ti ho riferito di abitudini e di vita degli antichi romani: sembrano cose semplici, non sono eleganti; ma come sprofondano! Intanto tu trovi una naturale operazione concorde dei cittadini fra loro. E quel popolo che creò le leggi, ti dichiara che più vale la buona natura che non la legge! Noi oggi distinguiamo la pace e la guerra; e trovi pace e guerra come stato necessario di vita. Domi militiaeque, domi bellique, sempre quel que come senatus populusque romanus.

Pace e guerra, stato necessario e vigilante.

Non c’è bisogno di ricorrere al «vivere pericolosamente». Esempio continuo, allenamento, da cui poi derivò la parola «esèrcito». Rispetto ai morti! «Sia santa la volontà dei morti!» Non erano ingordi di oro! Avaritia minima, che puoi tradurre: «banche che emettevano ferro per comandare a quelli che hanno oro». E non credere che quei romani stessero a Roma. Non te li imaginare come un esercito di impiegati che a mezzogiorno escono dai ministeri e vi rientrano.

Questi patres, o aristocratici, coltivavano i campi, mangiavan loro semplici cibi in vasi di coccio, stavano al sole, e così vivendo, generavano con letizia: mettean gagliarda prole dai vegeti imenei, come dice quel poeta. A Roma andavano quando dovevano trattare di affari. Roma era come la city, la città degli inglesi, e li, nella curia, in toga bianca, parevano tanti re. Così Roma crebbe; ma convien dire che quei romani avevano il vantaggio sopra di noi che non avevano da imitare i romani. Quel senato apparve come un consesso di numi; e quando venne il filosofo greco Carneade ad insegnare che la giustizia, l’onore, la religione, la probità e altre cose son belle cose, ma sono costruzioni dello spirito, e perciò possono essere e anche non essere, lo mandarono via perché reputavano quel filosofo più pericoloso dei mai visti leofanti di Pirro.

«Troppo spirito, – dicevano –. Non desideriamo in casa questi spiriti».

Su queste basi, affondate per cinque secoli, ci puoi costruire per l’eternità. In quel cemento romano c’è Cincinnato il console che viene dall’aratro; c’è Decio Mure; c’è Appio Claudio il cieco, c’è una concordia spontanea tra l’habeas corpus del cive romano, e la salvezza della patria, legge suprema. La decima legione, o traspadani o no, era formata di cittadini e non di servi, coi quali non si elevano se non le inutili piramidi.

In questo punto Ambrogino disse:

– Mi pare di sentire odore di strinato.

Aspetta –, disse il professore –, che vado a vedere il fornello.

La sera il professore non andava a mangiare all’osteria dei tri-basei, ma per varie ragioni, fra cui quella di ubbidire al precetto della scuola salernitana: «se vuoi essere lieve nella notte, fa che la cena sia breve», faceva il pan grattato col latte in un fornelletto a gas.

– Il latte va su, il latte va su –, disse Ambrogino accorrendo, e vide il professore che stava incantato, davanti alla schiuma del latte che vomitava dal pentolino.

– Ma chiuda il gas, egregio professore.


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