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MA sai tu perché Cesare andò nella Gallia, come in antico si chiamava la Francia? E si chiamava Gallia perché alzava sempre la cresta ed era piena di galloria.
– Per conquistare la Gallia –, rispose Ambrogino.
– Mettiamo prima le cose in ordine, dopo le metteremo in disordine, cioè, viceversa: prima in disordine, poi in ordine. Cesare nell’anno 59 avanti Cristo ebbe dal senato di Roma il governo della Gallia. Dunque quanti anni fa?
– Cinquantanove avanti Cristo – rispose Ambrogino –, più l’anno in cui siamo adesso 1934, fanno 1993 anni fa.
– Errore! – esclamò il professore –. Tu sarai cappellaio, ma non sei matematico.
– Come, errore –? – disse Ambrogino.
– Ma sì, caro! L’anno in cui nasce Cristo non è l’anno medesimo in cui comincia la nuova numerazione? E tu conti per due anni. È un anno solo! Perciò non 1993, ma 1992 anni fa. Quattro più quattro non fanno otto se c’entra Cristo nel mezzo, ma fanno sette. Ci vuole l’anno zero.
– Si prende gioco ancora di me? – disse Ambrogino. – Lei è anche matematico?
– Io sono grammatico –, rispose il professore; – e quanto ora ti dico me lo insegnò un matematico. Del resto puro matematico o puro grammatico fa lo stesso: purus asinus, come si dice. La Gallia, dunque, della quale Cesare fu chiamato governatore era quella d’Italia, di qua dalle nostre Alpi e perciò era detta Cisalpina, e un piccolo fiumicello, chiamato Rubicone, la divideva da Roma; e poi ebbe anche il governo della Francia meridionale che già era dominio o provincia romana e perciò si chiamò poi Provenza: terra gentile con maestose riviere, bel sole e belle viti; e noi siamo figli della terra, del sole e delle acque, e se coltiverai bene la terra da libero uomo, v’è la speranza che non crescerai creatura malvagia.
Oltre a questo gran territorio qua e là dalle Alpi, Cesare ebbe il governo dell’Illyricum. Basta, lasciàmola là dove è adesso l’Illyricum! Ci si entrava per Aquileia, che era una città grande e magnifica, finché arrivò Attila, flagellum dei, muso di cane, che i tedeschi vogliono dei loro e lo chiamano Etzel. Attila ridusse Aquileia a un buso.
Questo governo glielo diede a Cesare il senato di Roma per la durata di cinque anni. Secondo la legge romana, Cesare, come governatore, era onnipotente nella sua provincia, e quando sedeva pro tribunali, poteva giudicare, amministrare, fare leve di soldati, mettere tasse e anche levarle.
Il senato di Roma a quei tempi non era più tutto formato di patres, di patriarchi. Roma era diventata una grande amministrazione, con vasti affari, con molti interessi, tanto che già Scipione Emiliano aveva esclamato: «Roma è grande abbastanza. Preghiamo gli Dei di conservarla in pace e concordia».
Queste genti d’affari sedevano in senato e si chiamavano cavalieri o publicani, appaltatori di gabelle, che sono quelli che Cristo prende sempre come esempio di tristizia.
lo mi posso permettere di dire al denaro, se per combinazione dovesse venire a bussare alla mia porta: «non sono in casa». Questo non vuol dire che io non rispetti il denaro, e chi lo possiede. Il denaro è una scienza seria e per lo più innata; e quelli idioti che piangono perché non han denaro, e si lamentano della fortuna, sono come quelli che stanno mezzo addormentati sul muricciolo del fiume, con la lenza in mano e aspettano che arrivi lo storione. Onora, Ambrogino, il denaro ed esso ti onorerà, cioè ti verrà a trovare, e amerà stare in tua compagnia; ma non te ne fare un dio! Non diventar publicano! Non diventar cavaliere! Perderesti l’anima tua, e io ne avrei dispiacere: e graveresti su la patria, non la faresti riposare la notte, la renderesti stramba di giorno. E lei non sa perché sta male: perché ha troppi cavalieri e publicani. E questo mi fa anche più dispiacere. Se ami la patria, ama il denaro per quello che merita di essere amato; non più.
Ora il cuore di Cesare era rivolto a tutto il popolo, e perciò puoi pensare che fra lui e il senato un gran buon accordo non c’era; e se in quei cinque anni di lontananza in Gallia fosse arrivata a Roma la notizia che a Giulio Cesare, là fra quei barbari, sempre in tumulti e spostamenti di genti, era accaduto qualche infortunio, come di morire, non sarebbe stato gran dispiacere. Cesare le sapeva queste cose, ma siccome era gentiluomo, parlava sempre in nome della maestà del senato e del popolo di Roma.
Chi era questo Cesare? Era stato console l’anno precedente, e poi era stato nominato proconsole o governatore. Era la consueta carriera politica. Che cosa aveva fatto questo Cesare? Aveva viaggiato in oriente, aveva studiato grammatica, avea letto un grande storico greco chiamato Tucidide; in Roma era stato oratore politicante un po’ demagogo: perorava le cause popolari, popularia perorabat, che in greco si dice demagoghein. Demagogo assai fine. Era stato anche avvolto in molte galanterie femminili. Così era arrivato sui quarant’anni. Ma chi poteva sospettare in lui più che Marcello? più che Scipione? più che Mario? Quale stupore colse il senato nove anni dopo quando Cicerone esclamò: «Si dice che Cesare voli!»
Per conquistare la Gallia, tu dici? Non dico di no. E Alessandro perché andò in Asia? Per conquistare l’impero persiano? Non dico di no; ma nel segreto del loro cuore c’è anche una indomabile passione: l’ignoto, figliuolo, le grandi avventure.
Devi sapere che una volta, dopo la conquista della Gallia, Cesare si trovava in conversazione nella reggia di Cleopatra, regina d’Egitto. Costei era allora molto giovane e di una bellezza tale che anche la storia, a lei nemica, fu obbligata a inchinarsi e le baciò la bocca morta. Su le chiome della regina scendevano le bende sacerdotali della dea Iside, e il volto di perla si vedeva appena nei grandi occhi: ma il corpo appariva lucido perché velato soltanto da una trasparente seta di lino. Ciò non faceva mica Cleopatra per civetteria, ma perché la lana era impura per le sacerdotesse di Iside, e Cleopatra come regina, era anche sacerdotessa, e aveva il lino più fine e più lieve.
Questa moda egiziana dei veli di lino passò poi fra le signore romane, e divenne una frenesia; e così esse abbandonarono la lana per cui si erano acquistata tanto bella rinomanza con la prammatica: «le signore romane rimangono in casa e filano la lana ».
Cleopatra poi faceva andare con la mano gemmata un istrumento musicale di assai dolce tintinno, fatto com’era di lamine e campanelluzzi d’oro, chiamato sistro; ed era obbligatorio nella religione di Iside. Il fatto è che Cesare avrebbe detto a Cleopatra che se avesse avuto speranza di scoprire le sorgenti del Nilo, avrebbe abbandonato anche Roma.
È una enormità in bocca di Cesare, benché una donna come Cleopatra, a sentirsela vicino, può far dire enormità anche a Cesare. Ma se tu non fossi ignorante, sapresti che per gli antichi il mistero del Nilo era immenso, senza contare che i fiumi erano sacri. come divinità, e il fiume Nilo era il più sacro di tutti. Dove nascondeva il Nilo il suo capo venerando? Dopo i viaggi di Burton e Speke nel 1853 è una cosa che la sanno tutti; ma non per questo è morta nell’uomo la febbre di avventura e di conoscere; e si muore in volo, e si muore in ricerche di gabinetto.
La dea Iside, coperta di veli, dopo un mistero, ne ha messo un altro. Cosa c’è sopra il polo? la stratosfera. E sopra la stratosfera? Cos’è la materia? Bombardamento elettrico. E dopo il bombardamento? Cos’è la cellula? il protoplasma? il microbio? Cos’è il pensiero? Ecco le fotografie del pensiero. Ci sono le fotografie del pensiero. Marciamo alla ricerca del pensiero. Cosa è il pensiero? Una chimera o una realtà? Ma tu, Ambrogino, vuoi bene a tua mamma? tua mamma ti vuol bene? ti dispiace aver offeso tuo padre? Bene: tu sei a posto anche se non sai se questo è chimera o realtà. Ambrogino, seguita a fare il cappellaio e sarai rispettabile uomo, quando quelli che studiano sono arrivati sin qui.
Attorno a Cleopatra stavano i sacerdoti di Iside e di Osiride. Avevano le gran barbe nere intrecciate e i capelli rasati come i frati: ridevano dai denti bianchi, e dicevano: « Come siete fanciulli! Fanciulli voi siete, greci e romani!» Poi fecero una danza davanti a Cesare e Cleopatra, perché «non a te, Iside – cantavano – non a te, Osiride, convengono le tristi cure e le lagrime, ma i canti, le danze, e i dolci amori, e la fronte inghirlandata di fiori».
Questa gran febbre di avventura è quella per cui Orazio, il poeta, scrisse: «O dove vai, audace figlio di Giapeto? perché vai dove ti fu vietato dagli Dei?»
E quando gli amici partivano o arrivavano da terre lontane, era in Orazio un continuo meravigliarsi: «Come vieni? Perché te ne vai? Dove vai? Resta qui con me presso la fonte di Bandusia e sentirai il mio vinello. Cingi la fronte di fiori, amico, e lascia le cure agli Dei».
E un altro poeta giovane e traspadano come te, e che pure amava i viaggi e le avventure, oh, quanto era felice quando tornava a rivedere la sua bella casa e riposava nel caro letto, e salutava la piccola terra natia, pupilla delle isole, pupilla delle penisole, dicendo: «Salve, o venusta Sirmio».
Babilonia che re Alessandro vide elevarsi superba tra i fiumi, e poi rivide, non è più; ma più grandi, più superbe Babilonie sorgono. Quante cose ho visto io, quante ne vedrai tu! Vedrai arrivare il tempo quando la gente si domanderà: Come si faceva il pane una volta? Col grano. Dove? Sul focolare. Che cosa è il focolare? Che cosa è il grano?
Ambrogino in tutte queste divagazioni vedeva soltanto la testa del vecchio che girava; e diceva fra sé: «Qui non si arriva più alla decima legione».