Alfredo Panzini
Legione decima
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VIII ARIOVISTO E I GERMANI

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VIII ARIOVISTO E I GERMANI

Poiché il professore salì su la cattedra, cioè si mise a sedere su quel seggiolone a braccioli, cominciò a gesticolare, e con tono solenne verso il suo uditorio, cioè Ambrogino, diè al suo dire principio così:

– Quando Cesare montò su le Alpi per entrare in Francia...; ma la smetta con quella sigarettainterruppe, perché Ambrogino aveva fatto brillare il suo ordignetto che accende forse che si, forse che no, e aveva mandato due o tre boccate di fumo.

– Vi pare egli convenga fumare davanti a Cesare? Li imagini tu con la sigaretta in bocca i fanti della decima legione?

Ambrogino spense la sigaretta e la ripose.

Il professore riprese:

– Quando Cesare montò su la cerchia delle Alpi per andare in Francia, vide gli eccelsi monti galoppare: erano i popoli che si spostavano col fragore delle valanghe. Ora puoi accendere la tua sigaretta. Ma dove hai imparato a fumar tanto? Nei romanzi gialli? nei film d’America, dove quei personaggi pensano col fumo?

Or qui si principio al racconto della gran gesta e io non ti parlerò in stile terribilistico da far spavento a Pirgopolinice, ma ti parlerò per parole piane; e per rispetto di Cesare, che evitava come scogli le stravaganti parole, e per rispetto della X legio, e anche della tua giovinezza. Da questa cattedra si insegna gioco leale e non si fa imbonimento. L’imbonimento lo farai tu, se sarai capace, quando ti troverai nella piazza della vita.

Detto che ebbe questo proemio, continuò:

Dicono che Cesare avesse con come guida della Francia il libro di certo greco ebreo chiamato Posidonio. Sarà, ma non me lo posso imaginare Cesare col Baedeker in mano. Cesare creò lui la prima guida della Francia. Era partito con molta fretta da Roma, e quel Baedeker di Posidonio se lo sarà, tutt’al più, fatto mandare più tardi, nei momenti di calma, quando le legioni riposavano negli accampamenti invernali.

Ora ti dirò della Francia antica che non era barbara, ma era civile a suo modo barbarico, come sempre fu e sempre sarà di ogni gente.

Il primo posto in Francia l’avevano i capi delle contrastanti nazioni. Ma sopra tutti stavano i sacerdoti druidi che sapevano leggere e scrivere; erano vestiti di bianco, incoronati di fronde di quercia e abitavano nei monasteri delle dense querce. Essi insegnavano la dottrina della trasmigrazione delle anime. Ci credevano quei sacerdoti nelle dottrine che insegnavano? Anche essi, i druidi, cercavano di far parlare gli Dei, e perciò li lusingavano con sacrifici spaventosi: costruivano con rame di quercia enormi fantocci, mannequins d’osier; li stipavano di uomini vivi, gente nefaria; e in mancanza di costoro, Cesare dice che ricorrevano al riempitivo anche degli innocenti.

È, questo il culto degli idoli, il totem dei selvaggi anche oggi; e i sapienti di oggi a questo culto feroce congiungono anche il sacrificio di Cristo! Non sanno essi perché Cristo è venuto per abbattere gli idoli? Ripeti il pater noster, Ambrogino! Non te l’ha insegnato tua madre? E prima di Cristo, venne Bacco, il liberatore, ché soltanto dove la ben coltivata vite si attorciglia alla vita dell’uomo, fiorisce la civiltà. Io adoro la civiltà, Ambrogino, e perciò ho spavento quando vedo sopra di noi le pupille lucide della invincibile barbarie.

 

*

 

Quando dunque Cesare arrivò su la faccia degli avvenimenti, mise in chiaro la distinzione fra francesi e germani, perché i francesi pieni di spavento ripetevano un nome: «Ariowist! Ariowist

E Cesare rispose a loro: «Noi lo conosciamo questo Ariovisto. Esso è amico del popolo di Roma, e il senato romano gli ha decretato un’alta onorificenza col titolo di re

Ora ti dirò chi era questo Ariovisto:

Ariovisto era un grande germano che abitava le terre che sono di dal Reno, che è una grande riviera azzurra, dove oggi si specchiano castelli e cattedrali, e su le rive ora fiorisce un raro vino che si beve in coppe verdi. Questo fiume così lungo e così bello fu cagione di molti guai. C’era una volta la leggenda dell’oro del Reno e oggi c’è quella del ferro; e siccome oggi tutto si fa col ferro, anche i cappelli, sì Ambrogino, anche i cappelli, tu capirai che importanza ha il Reno.

I germani cantano dalla loro riva «la guardia al Reno» e i francesi cantano: «noi l’abbiamo posseduto il vostro Reno tedesco». E così le acque turchine di questo fiume si sono colorate di sangue.

 

*

 

«Ariowist, – dicevano i francesi a Cesare, – ha passato il Reno, è venuto in Francia con tanti guerrieri: il nostro paese molto gli piace, in confronto della sua patria che è orrida di selve e paludi. La Francia è molto gentile. Qui lui ha trovato migliori bevande, ha trovato il vino, e lui non conosceva che bevande d’orzo, la barbarica cervogia, e non vuol andare più via

Adesso ti descriverò la Francia:

Molto grandi foreste e belle riviere sono in Francia, affioranti su ameni piani. Nella Provenza ride il sole; e il Rodano, come ti ho detto, corre per la terra lieta, e lieta è la gente, e beve il vino d’Ampuis, e al suono dei tamburelli balla la farandola, la farandoulo. Al nord v’è la Senna che è come il Giordano perché serve al battesimo degli uomini illustri. Scorre la Senna per il paese dei Parisii, da cui poi venne Parigi, che allora si chiamava Lutezia, che in latino vorrebbe dire «lutolenta o fangosa», ma il genio di Francia ha poi così trasformato il fango in splendore di tanti ninnoli gentili, che ognuno che vi è andato, se ne partì soddisfatto.

Ariovisto aveva passato il Reno, a capo di centoventi mila guerrieri, e donne e vecchi e bambini, quattro anni prima che vi arrivasse Cesare. Perché aveva fatto quel passaggio? Prima di tutto perché i popoli si spostavano allora senza mai pace e poi per la ragione per cui fu creata la favola del cavallo e del cervo. Il cavallo aveva lite col cervo, e non lo poteva vincere al corso. Allora il cavallo chiamò l’uomo in aiuto. Montò l’uomo sul cavallo e con una freccia raggiunse il cervo e l’uccise, e poi non volle più scender di sella, e così il cavallo diventò servo dell’uomo.

Due popoli eran rivali fra le rive dell’Arar che oggi si chiama la Sôno dal lento corso: gli Edui e i Sequani. I Sequani per meglio vincere i rivali, chiamarono Ariovisto. Questi venne e sconfisse gli Edui in una grande battaglia, che Cesare chiama da Admagetobriga. Amagétobrie, dicono in Francia, e i dotti di quel paese ne hanno disputato senza concludere con sicurezza dove sia questo luogo, anche perché nessun nome odierno richiama quel nome antico. C’è chi pensa presso la odierna città di Colmar.

Tutti erano guerrieri in Germania, e portavano nomi splendenti di guerra: guerriere anche le donne: anzi germani in loro lingua vuol dire «gente di guerra», e «guerra» è una parola tedesca che vuol dire «baruffa, scompiglio», melée in francese; mentre in latino si diceva bellum, che era il combattimento ordinato. Siccome poi questo bellum si poteva confondere con «bello» che vale «grazioso, gentile», così da noi, un po’ per volta, si finì con l’abbandonare la parola bellum dei latini per adottare la parola guerra dei germani. C’è chi oggi sostiene che il bellum è anche «bello», anzi «igiene del mondo», e può darsi; ma le due parole benché simiglianti, non sono nate dalla stessa matrice.

Li vuoi vedere questi germani? Io li vedo: truces, caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora: «truci! occhi celesti, chiome rosse, statura gigantesca ».

Chi li raffigurò così non fu Giulio Cesare, ma è stato un altro scrittore, chiamato Tàcito. Tàcito dice anche che quando i germani si sposano, la sposa offriva al donzello una lancia. E il donzello offriva alla sposa un paio di buoi, un cavallo frenato, uno scudo, una spada; e questi buoi aggiogati, questo cavallo frenato, queste armi volevano significare che insieme dovevano vivere, e insieme dovevano morire.

Tacito dice anche che i germani sino ai venti anni non conoscono donne, benché uomini e donne fanno nudi insieme i bagni nei fiumi, e Cesare su questo argomento dice lo stesso, perché dice che «quelli che conservano la loro castità sono molto lodati, e si crede che sia per questo che sono poi così alti e robusti».

Tàcito dice che «i germani entrano in guerra cantando e si lasciano facilmente ubriacare così che sarà più facile vincerli con l’insegnare a loro i vizi che con le armi».

Questo è molto immorale: insegnare i vizi i quali sarebbero come i topi che rodono le metropoli. Tàcito dice così per amore della sua Roma, non che lui ami i vizi, anzi lui è denso di sentenze virtuose. Mi piacevano tanto quelle sentenze! Ora molto meno. Dunque Roma era così piena di vizi che doveva esportarne per infettare la nemica e virtuosa Germania?

Io non credo troppo alle virtù dei popoli primitivi né ai vizi dei popoli raffinati. Tàcito ha esagerato forse ad arte; perché come lui sentiva nel cuore l’antica republica e non amava il nuovo impero che ebbe fondamento da Cesare, così voleva che i suoi lettori sentissero. Conviene dire che con quelli assalti di sentenze corazzate di virtù pura e fiammeggianti di sdegni superbi, Tàcito è riuscito nel suo intento.

Fra i germani, i più antichi, i più nobili, i più terribili erano gli Svevi, e Ariovisto era, come dire? il condottiero, e oggi si direbbe il Führer, degli Svevi; e quando fu eletto a capo, o duca dal suo popolo, fu perché era il più nobile, il più valoroso, il più orgoglioso fra gli Svevi. Con fremito di scudi e lance fu esaltato Ariovisto. E che dirai tu se vedrai questo sangue svevo rigermogliare in Italia dopo dodici secoli nei nomi di Federigo Barbarossa e del gran Federigo della casa di Svevia, che poetò in nostra favella? e di Manfredi «biondo e bello e di gentile aspetto»? Roma li fece gentili, Cesare li fece imperatori! A chi segue il corso delle storie, i capelli incanutiscono come a quelli scienziati che vanno sotto terra per scoprire le misteriose caverne.

Severità di costume era anche fra gli Svevi, e solamente i capi potevano avere più di una moglie. E Ariovisto ne aveva due: una era sveva e l’altra era trentina di alto lignaggio, e così aveva due figliuole: le due mogli furono ammazzate, e così una delle figliuole: l’altra fu fatta prigioniera. Probabilmente da quei ragazzi della X legio; ma Cesare non si ferma a questi particolari, e dice soltanto: «Ariovisto aveva due mogliere, una per nazion sveva, l’altra era norica sorella del re del Norico, e l’una e l’altra morirono: e due figlie. Di queste l’una fu presa e l’altra trovata morta;» come si legge scritto in quel libro dei Commentari, che tu, con la tua spensieratezza, mi hai fatto volare giù.


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