Alfredo Panzini
Legione decima
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IX SI INCONTRA LA «X LEGIO»

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IX SI INCONTRA LA «X LEGIO»

QUANDO Ambrogino venne la mattina seguente, trovò il professore che guardava con malinconia la sua gabbia di canarini.

La canarina è mortadisse –: suo marito l’ha ammazzata. Vèdila che giace, e lui sta lassù che guarda il firmamento. Chi sa perché l’ha ammazzata? E geloso? ricusa la prole? non vuole canarini in gabbia? Questo non te lo so dire; ma è certo che lui la percosse su la testa con una perizia anatomica che mi fa pensare.

O creatura alata! Vèdila, Ambrogino: quelle ali non batteranno più. È stupido, è vero? Io sono molto facile alla commozione: mi commuovo anche per lo scettro di Achille, che era un bastone; quando lui l’inesorabile, povero ragazzo di Achille, giura che mai più fronda quel suo bastone non germoglierà.

 

*

 

Venne il giorno che Cesare si incontrò con Ariovisto, e questi gli domandò:

«Chi sei tu? Cosa sei venuto a fare qui?».

A questo punto della mia narrazione io devo tornare un poco indietro come si fa nei romanzi scritti male.

Ariovisto non era tanto ignorante che non sapesse chi era Cesare e come morì Annibale, e come mori Virdumaro, e come furono dispersi quelli altri germani che si chiamavano Teutoni e Cimbri. Se Cesare non aveva ancora riportato alcuna di quelle strepitose vittorie che stupirono il mondo, se il bollettino delle tre parole: «veni, vidi, vici», non era stato scritto ancora, un gran fatto di guerra era avvenuto poco tempo prima presso Bibracte, che era la capitale degli Edui, e oggi si dice Autun: un gran fatto impressionante anche per un cervello teutonico.

Tribù tedesche, ferocissime, di grande corpo e nemici di Roma, dei monti della Svizzera, con donne e bambini, nel numero di quasi mezzo milione di genti, avevano deliberato di passare in Francia; e annunciano che il 28 marzo di quell’anno 58 si sarebbero adunati presso Ginevra per passare il Rodano.

Questi tedeschi montanari sono da Cesare chiamati gli Elvezi, che sarebbe come dire gli svizzeri: brava gente che in tutti i tempi di poi furono presi a condotta dai re per loro guardia e li puoi ancora vedere con la alabarda davanti su e giù alla porta del papa.

Cesare, come seppe a Roma di questa invasione, decide di prendere subito il comando della sua provincia e anticipa la sua partenza da Roma, e viene a Ginevra «in gran fretta», non a grandi tappe, magnis itineribus, ma maximis itineribus; e perciò, credo, non prese con sé il Baedeker di Posidonio.

Da Roma a Ginevra ci mise otto giorni, ciò che allora era meraviglia: di giorno cavalcava per le poste, di notte riposa va sopra una carrozza che andava: ecco perché si dice che Cesare camminò giorno e notte. Passando per l’Emilia e per Milano, ordinò leve di soldati.

Quando arrivò al bel lago di Ginevra non c’era che una sola legione. Fece a quella legione tagliare il ponte sul Rodano che, come già non saprai, usciva ed esce ancora dal lago di Ginevra. E fece abbattere il ponte per impedire il passo agli svizzeri.

Allora vennero a Cesare gli ambasciatori degli svizzeri, e dissero a Cesare che volevano andare in Francia; ma per andare in Francia dovevano passare per la Provenza, essendo quella la miglior via.

«Noi ti domandiamo, Cesare, il permesso di passare, e ti giuriamo che non faremo alcun maleficio».

Cesare ascoltò come persona che è incerta, ma pur disposta a benevolenza.

«Datemi temporispose – di interrogare il senato di Roma, e tornate per la risposta il 13 aprile ».

La distanza fra il lago di Ginevra e il monte Giura è di pochi chilometri. Cesare ordinò a quella legione di fortificare i passi più vulnerabili di quella gola. E la legione, con muri e con fossi, li rese inespugnabili.

«E che nessuno passi!», comandò Cesare.

E nessuno passò.

Quando viene il 13 aprile, si presentano gli ambasciatori.

«Non è costume romano –, rispose Cesare –, dare il passo. Se volete passare per forza, io lo difenderò».

«Noi passeremo lo stesso – risposero gli svizzeri –, e sarà attraverso il paese degli Edui e dei Sequani, e grande devastazione faremo per quanto lungo è quel viaggio».

Ora gli Edui erano amici di Cesare, tanto che Cesare aveva ai suoi ordini quattromila bellissimi cavalieri di quella nazione. Non li dimenticare! Li ritroverai, o Ambrogino, e allora il cuore ti salterà nel petto come a cavallo saltò la X legio. Non capisci? Non importa: capirai più avanti, e sentirai come è bello.

Amici di Cesare sono gli Edui, se Cesare vincerà gli svizzeri. E se non vince? Possono diventare nemici. C’è, anzi, chi consiglia agli Edui e ai Sequani di fare alleanza con gli svizzeri e così scuotere per sempre il giogo dei romani. Sono cose da popoli barbari senza lealtà; ma anche i civili ragionano così.

Un giorno Cesare disse al suo generale Labieno di difendere lui quel passaggio del Rodano.

I legionari videro Cesare balzare a cavallo.

«Quo vadis, Caesar?», domandarono.

«In Italiam vadorispose. – Presto ritornerò».

E dileguò. Lo vedi tu Cesare a cavallo su le Alpi?

 

*

 

Noi un po’ per volta non li vediamo più i grandi condottieri sul dorso della più bella fra le belve dal dolce nitrito. Il teuf-teuf di voi centauri le sta uccidendo.

Avverrà dei sentimenti come dei cavalli?

 

*

 

Per sette giorni e sette notti andò Cesare, il cavaliere instancabile. Venne a Milano, raccolse le leve che aveva comandato. Il settimo giorno era di ritorno a Ginevra a capo di cinque legioni. La XI e la XII le aveva condotte dall’Italia cisalpina; la VII, la VIII, la IX legione da Aquileia. Quale era dunque la legione che elevò il baluardo sul Rodano, che lo difese? La tua! la X legio?

Gli svizzeri, così impediti nel passaggio, trovarono allora nei monti del Giura uno stretto varco, e per tal modo entravano nel paese dei Sequani. Lentamente con carri, con tutte le loro genti passavano. E Cesare calcolò il tempo e il luogo per bene incontrarli; e questo luogo fu presso Bibracte, come prima ti ho detto.

Io sono grammatico, e quando sarò uomo d’arme, ti descriverò la strategia di quella battaglia. Allora non c’erano carte militari e non c’eran cronometri; ma Cesare aveva in sé il senso del terreno delle battaglie, e quale era quello propizio e quale era quello iniquo: e l’attimo fuggente gli batteva nel cervello dove stava la vittoria. Non c’erano artiglierie: c’era il pilum, arma terribile. Creste e penne sui cimieri e scudi dipinti avevano gli svizzeri, e grandi spade. Ma fra i romani spirava la voce antica di Papirio Cursore, il dittatore, quando vinse i Sanniti, e diceva: «i pennacchi e le creste non producono ferite, il pilum romano trapassa gli scudi anche se dorati e dipinti». Cercavano gli svizzeri ululando di strappare l’asta della freccia infitta negli scudi, e non potevano. Dovevano buttar via gli scudi, e le lunghe spade erano di impedimento nella mischia serrata contro la breve spada romana.

Furiosamente combattevano le donne elvetiche.

Durò la battaglia il giorno e la notte. Stanchi sono i legionari da tanto combattere, e vedono Cesare che è a cavallo e sorveglia il combattimento.

Or la battaglia ondeggia: se il Dio della guerra spirerà contro Roma, saranno tutti morti i romani; e Cesare a cavallo si salverà. Ora ammira quello che si legge nei Commentari! «Cesare fece togliere via prima il suo cavallo, et poi de tutti gli altri, acciò che essendo egual il pericolo, a tutti fosse levata la speranza del fuggire, e così avendo confortato li suoi, entrò nella battaglia».

Come è bello quell’«entrò nella battaglia

Tre giorni occorsero per seppellire i morti: poi fu l’inseguimento della cavalleria, l’annientamento. Invano gli svizzeri si buttarono ai piedi di Cesare.

E gli svizzeri dovettero risalire i monti. Cesare poi essendo entrato nei loro accampamenti, trovò in lingua greca descritti i ruoli di quella migrazione di popoli.

Questi ruoli davano in complesso 363 mila svizzeri. Ne tornarono 110 mila, il che vuol dire 253 mila morti, fra cui donne e bambini. Cesare non li nomina nemmeno; e tira la somma dei vivi, e lascia a chi legge quella dei morti.

Cesare è crudele? E così difficile, figliuolo, incontrare per via la pietà, e quel viandante ferito che la incontrò, la trovò nel sammaritano e non nel levita.

Ora Ariovisto sapeva queste cose: non la parabola del sammaritano, ma della grande strage che la spada di Roma aveva operato per Cesare.


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