Alfredo Panzini
Legione decima
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X LA BUONA CARTA

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X LA BUONA CARTA

Dopo quel grande esterminio degli svizzeri, i personaggi più ragguardevoli degli Edui vennero a Cesare per congratularsi con lui della vittoria: proprio gratulatum, «per congratularsi»; e insieme per ringraziarlo di avere liberato il loro paese da quella invasione di tante genti feroci e avide di preda.

Cesare li accolse gentilmente nel suo padiglione.

Voleva molto bene agli Edui tanto più che erano buoni coltivatori, e tutte le volte che ebbe bisogno di grano, Aeduos flagitabat, ne domandava agli Edui.

In quella occasione Cesare non poté nascondere una sua meraviglia: quei principi degli Edui parlavano piano, con circospezione come se il padiglione di Cesare fosse stato uno di quei gabinetti che hanno i muri che sentono tutto quello che si parla, come nell’evo medio, o che hanno un apparecchio radio-fonico come oggi.

E in fine dissero a Cesare:

«Noi intendiamo tenere un’assemblea, e ci faresti tanto piacere se venissi anche tu, e ne assumessi la presidenza».

Cesare disse:

«Ben volentieri».

E allora Cesare vide quegli Edui che si guardavano fra loro, negli occhi, tendevano la mano e facevano giuramento di non parlare, di non dire niente a nessuno, perché in quei tempi, se una cosa si sa in più di due persone, tutti la sanno.

«Cesaredisse il capo di tutti gli Edui che si chiamava Diviziaco ed era persona seria e fidata, – l’adunanza è segreta. Il luogo è questo, il giorno è questo, ma prometti che anche tu sarai segreto».

Quando venne quel giorno, Cesare andò a quell’adunanza che era in luogo quasi impenetrabile in una foresta di maestose quercie. era gran moltitudine, e appena Cesare comparve tutti si mettono a piangere con grande pianto, magno fletu; e si buttano ai piedi di Cesare.

«Signori francesi, che cosa avete?» domandò Cesare.

«Non ne possiamo più di Ariowistrispondono: – liberaci tu, Cesare, ma non lo far sapere che noi ci siamo rivolti a te. Se Ariowist sa che ci siamo rivolti a te, ci mette tutti ai tormenti

E Diviziaco diceva: «Il bel nostro paese di Francia, la nostra educazione, il bel vivere, i ricchi nostri campi gli sono piaciuti. Essi erano centoventimila guerrieri, noi Edui pochi e dispersi quando ci sorprese nel piano di Admagetobriga. Dopo di allora Ariowist è montato in smisurato orgoglio, impone tributi crudeli, ha preso i nostri figli in ostaggio, e quando non si ubbidisce, li uccide. A questo siamo arrivati, che noi, francesi, dovremo andar esulando. Dolce terra di Francia, noi ti dovremo abbandonare. E guai a noi se mai Ariowist viene a sapere che ti abbiamo raccontato queste cose: ci passa tutti a fil di spada. Noi non abbiamo altra speranza che in te. Il nome temuto del popolo di Roma, la tua recente vittoria sopra gli svizzeri possono mettere un freno a quest’uomo crudele: ci renda almeno i nostri figli e non chiami in Francia altri tedeschi».

Mentre così Diviziaco parlava, tutti miserabilmente piangevano.

Cesare guarda attorno e vede che vi sono di quelli che non piangono, che non supplicano Cesare. Stanno avviliti con la testa bassa. Chi sono? Sono i capi di quei Sequani che avevano chiamato Ariovisto.

«Ebbene, voi che avete? – domanda Cesare –. Perché state così?»

«Perché – rispondono, – noi stiamo peggio degli Edui. Essi si possono almeno lamentare di Ariowist perché l’hanno lontano; possono, se vogliono, fuggir via: noi che l’abbiamo chiamato, l’abbiamo in casa. Se viene a sapere che siamo venuti a questa dieta, ci condannerà tutti a morte e di diritto come traditori, perché noi siamo nella sua sudditanza. »

 

*

 

Cesare confortò quei francesi con alte parole: stessero di buon animo, avessero fiducia in Roma e, senza avanzare promesse, fece capire che si sarebbe lui intromesso mediatore fra essi e Ariovisto.

Ma nel suo cuore doveva provare un turbamento che dal volto non appariva.

Avranno esagerato i francesi in quell’assemblea, come è loro natura; ma che l’arroganza di Ariovisto fosse diventata intollerabile, Cesare troppo bene sapeva se a questo punto delle sue memorie dice che Ariovisto era «uomo barbaro, iracondo e temerario». Se vuoi sentirle nell’originale queste parole, te le dirò in latino, ecco: hominem barbarum, iracundum, temerarium.

E se non fosse che tu sei destinato all’arte del cappellaio, mi piacerebbe farti capire come bastino tre parole per fare una descrizione: e, questo ti dico, non perché io creda che certa arte si possa imparare: per esempio Cesare nel raccontare va dritto come una spada, ed io storto come una biscia. Come faceva Cesare, tu mi domanderai, a parlare coi francesi? Con gli interpreti: lui latino parlava latino anche se in otto anni e più di permanenza in Francia parlava francese.

Dei francesi Cesare non disse mai così dure parole come disse di Ariovisto: dice che sono volubili, facili all’entusiasmo, facili alla depressione, imitatori stupendi di quanto vedono creato da altri, più che essi creatori.

Mi sta in mente che Cesare amasse la Francia. Perché? Non te lo so dire: ma tutto è vivo, palpitante quando lui parla delle cose di Francia; e quando racconterà in altro libro le guerre civili, diventerà lontano; non sarà più fra noi.

 

*

 

Cesare ne lo sciogliere quell’assemblea degli Edui sente che bisognava provvedere a questa faccenda di Ariovisto, e nel più breve tempo possibile: proprio così: quam maturrime.

Pare niente, ma sapere quando, come si deve venire ad un’azione risolutiva, è difficile. Oh, dopo è facile ai sapienti di storia dire: «si doveva fare o non si doveva fare così, si doveva far subito, si doveva aspettare». Cesare era operatore, e non professore di storia.

Cesare è l’uomo che vede insieme il presente e il futuro; e io quando mi trovo qui, in questo sgabuzzino librario, in comunicazione diretta con Cesare, con Alessandro, insomma con questi grandi uomini, acquisto anima di re, quand’ero re della Beozia.

Cesare vede il pericolo come un medico sente un’infezione: e il pericolo era che Ariovisto scendesse in Provenza e dalla Provenza in Italia. E gli si apriva anche il sipario della storia futura, e vedeva venir giù tutta quella gente germanica dalle cerule pupille, e quella gente gialla dalle pupille storte, che distrusse l’impero di Roma come dice Niccolò Machiavelli al principio delle sue storie. – E mutando in grave quella sua voce in falsetto, il professore cominciò a declamare con solennità: «i popoli i quali nelle parti settentrionali di dal Reno abitano, in tanta moltitudine molte volte crescono, che sono necessitati cercare nuovi paesi: queste popolazioni furono quelle che distrussero l’impero romano».

Ambrogino interruppe per dire che Machiavelli lo conosceva.

– Questa cosa –, rispose il professore mi sorprende molto.

– Sì – disse Ambrogino –, quando noi vogliamo indicare una trappola, un inganno, una bugia, diciamo «la machiavellica».

– Oh, povero Niccolò! – esclamò il professore –. A che cosa è affidata la tua popolarità!

E continuò: – Cesare in quel momento sentiva che doveva giocare una terribile partita con Ariovisto; ma non aveva carte buone in mano, anzi, come vedrai, le aveva pessime.

Poteva dar battaglia? Che cosa sarebbe successo se, appena arrivato in Francia, fosse stato battuto dai tedeschi sotto gli occhi dei francesi?

Quand’ecco gli capita quello che gli inglesi chiamano jolly joker, l’allegro giocatore, e noi diciamo la «matta».

– La peppatència, la decima legione! esclama Ambrogino.

– Questa volta hai indovinato! Senti il canarino, quel micidiale, che trilla. Ciò fa pensare all’arte divinatoria degli antichi, che attribuivano agli uccelli la conoscenza del futuro; e non soltanto i grandi canori, ma anche le oche sono presaghe delle cose future.


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