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SAI tu cosa è Fobos? Erebus et Terror? Sono i compagni di Marte. Al loro apparire, dice il vecchio Omero, «si sciolgono, si piegano le ginocchia» ai più strenui guerrieri. La cappa di piombo della neurastenia si stende in un momento sopra le moltitudini. Esse fuggono. Vedono l’Erebo. Fuggono. Deve essere cosa terribile.
Quando Erebus et Terror dicono sul serio, si rovesciano i cervelli meglio costruiti. Non ne andò esente un eroe come Bellerofonte quando venne in odio agli Dei; e l’orme dei viventi fuggiva. Guardati bene, Ambrogino, dal venire in odio agli Dei: essi esistono sempre. Anche Achille si ribellò quando gli apparve la nube nera dell’Erebo; e domandò a sua madre: perché mi hai generato? Se non si piegano le ginocchia, si piega l’anima.
Alessandro, il vittorioso, non tornò indietro dall’India perché pioveva dal cielo falde di fuoco, ma perché davanti a lui si affacciarono gli spaventosi sapienti dell’India, gli uomini nudi. E gli dissero: «Che cerchi, o Alessandro? la gloria? la vittoria? Non esiste che il nulla». E lui si mise le mani nella chioma, e tornò indietro.
Attila pure ebbe spavento quando gli apparve san Pietro e san Paolo davanti ad Aquileia, e sarà, forse, per quest’unico momento buono nella sua vita che ora gli vogliono fare il monumento.
E Napoleone, l’impassibile, il credente dalla fede cieca nella sua fortuna? Tu lo vedi sul ponte di Lodi che avanza fra la mitraglia col tricolore in pugno: io lo vedo in una carrozza fra un gendarme austriaco e un gendarme russo che lo conducevano nell’esiglio dell’isola. È cascato giù dal trono: ha tremore, vede le moltitudini che lo hanno adorato, e ora lo vogliono morto. «Nascondetemi –, dice ai gendarmi –: scambiate il mio vestito col vostro, sì che io non sia conosciuto». Bada che io scuso Napoleone di quello smarrimento: lasciamo stare i coristi, i poeti, ma Ney, il fido Ney, il prode dei prodi lo aveva abbandonato, e il suo Massena, e la moglie pur lo avevano abbandonato. Un bambino solo rimaneva, e non lo avrebbe più riveduto.
Solamente Cesare, quando vide il senato di Roma con i pugnali alzati sopra di lui, non si scompose, ma si compose nella toga.
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Tu ti sarai accorto che i francesi erano spaventati oltre misura in quella estate del 58; e questa cosa avvenne pure nella estate del 1914, quando la terra tremò sotto il passo dei Germani che avevano varcato il Reno come Ariovisto; e portavano sui colbacchi le insegne della morte; e i russi erano stati sepolti nei laghi Masuri. Veramente erano spaventati un po’ tutti in quel 1914, anche gli impassibili inglesi.
Guai se non c’era santa Genoveffa, e san Dionigi, e la Pulcella, e l’arcangelo dal periglio! O venne il soccorso di Cesare?
Tu eri allora in mente Dei, o di tuo padre, e non te ne puoi ricordare: ma dire che «se anche il mondo andrà in pezzi, i cocci feriranno un uomo senza paura», è poesia; e poesia è spesso il linguaggio delle superbe menzogne.
Il terrore di Ariovisto! Bada che questo è genitivo obbiettivo: non il terrore che abbia Ariovisto, ma il terrore che incute Ariovisto.
Ed è a questo punto che Cesare descrive Ariovisto con due parole soltanto.
Veramente Cesare non descrive Ariovisto, ma i suoi germani e così tu vedi anche Ariovisto. «I germani hanno due punte inflessibili per occhi: i francesi, che li avevan veduti da presso, dichiaravano che non potevano sopportare quelle punte: le spade degli occhi dei germani: acies oculorum».
Ebbene: il Terrore era entrato anche nel campo romano!
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In queste condizioni Cesare, dopo quella assemblea degli Eduli, mandò ambasciatori al campo di Ariovisto, ma senza specificare niente; soltanto disse che desiderava trattare con lui di interessi comuni. Stabilisse lui il luogo e il modo dell’appuntamento.
Ariovisto gli manda a dire (senti che prepotenza!): «il giorno che io avrò bisogno di te, verrò io da te, e se tu hai bisogno di me, vieni tu da me».
E poi dice: «permetti che io mi meravigli: nella Provenza che è roba tua, io non ho affari; e nella Francia che è roba mia che affari puoi aver tu?».
Allora Cesare è obbligato a specificare; e qui sentirai cosa molto bella! Cesare potrà smorzare o ampliare le cose che racconta nel libro delle sue memorie; ma è uomo di tanta grandezza che non nasconde, non dice menzogna.
Cesare torna ancora a mandare ambasciatori; e questa volta gli ambasciatori di Cesare dissero ad Ariovisto così «Il senato romano, proprio nello scorso anno, su proposta di Cesare, che ora è nostro imperàtor, e allora era a capo del governo, fu cortese verso di te e ti ha dato il titolo di re; e tu ricambi così tanta gentilezza? Allora devi sapere che Cesare, in nome del senato e del popolo romano, ti domanda: primo, che tu non conduca più germani in Francia; secondo, che tu non faccia più male agli Edui e ai Sequani; terzo, che tu lasci liberi gli ostaggi degli Edui. Guarda, o Ariovisto, con quanta liberalità Roma governa i popoli della Provenza! Usi, costumi, leggi, religione ha loro lasciato. Se farai anche tu queste cose, Roma ti sarà grata in eterno, «perpetuam gratiam»; e tu sarai sempre amico di Roma; se non farai così, tu devi sapere che esiste un decreto del senato che comanda che il governatore di una provincia deve difendere i popoli che si sono dichiarati amici di Roma. Gli Edui e i Sequani sono amici di Roma. Cesare, governatore e proconsole della Provenza, della Gallia, dell’Illirico, non verrà meno al suo dovere».
Questo messaggio stupisce un po’ per la sua benevolenza. Bene! Sai come risponde Ariovisto? Ariovisto risponde con le parole che risuonano ancora nel mondo, e tanti secoli sono passati: il diritto della conquista! «Chi vince – risponde Ariovisto –, comanda ai vinti quando e come gli pare: i romani fanno lo stesso come lui: comandano ai vinti, come a lor piace, e non come piace agli altri. Io, Ariovisto, non do ordini al popolo romano, ma nemmeno ne ricevo. Gli Edui li ho vinti in guerra e ne faccio quello che voglio: quindi non restituisco ostaggi. Anzi tu, Cesare, mi dài grande noia, perché gli Edui sapendo di avere in te protezione, si rifiutano di pagare tributi. Se pagheranno tributi, li lascerò in pace. L’amicizia del popolo di Roma mi è cara se ne ho vantaggio, ma se ne ho danno, che me ne faccio del nome di fratello di Roma? Quanto poi alla minaccia che tu fai, sappi, o Cesare, che nessuno è venuto a contesa con me senza avere avuto la peggio. Sono quattordici anni che noi, germani, giriamo senza casa né tetto. Vogliamo il nostro posto al sole, e le armi le maneggiamo bene. Noi, germani, siamo invincibili».
Così rispose Ariovisto, e tieni a mente questa parola oltracotante «invincibili o invitti», che poi è lo stesso: latino «invicti», che non è mia, ma di Ariovisto, e riferita testualmente da Cesare. Io credo anzi che quel letterato tedesco, il quale dettò un’epigrafe per i giovani tedeschi caduti nella grande guerra, avesse in mente questa parola di Cesare. Perché l’epigrafe suona così: invictis victi victuris: «i vinti agli invincibili i quali, un dì, vinceranno».
Qui il professore chinò la testa e riprese:
Tremano le foreste della Selva Nera: s’ode stridor di carri, nitrir di cavalli, grida di genti. Sono cento pagi, o villaggi svevi che si sono mossi, e si appressano al Reno. Altri, altri germani ancora stanno per entrare in Francia.
Cesare ode il pianto degli Edui, sente la provocazione delle superbe parole di Ariovisto.
Che cosa farà Cesare? Noi sappiamo, perché è lui che lo dice, che è «fortemente commosso», vehementer commotus. Sente per prima cosa la necessità di far vedere più vicino a Ariovisto quale è la faccia di Roma; perciò dà ordine di levare il campo e a rapide giornate muove contro di lui. Dopo tre giorni di cammino, Cesare è informato che pure Ariovisto ha levato il campo. Cesare e Ariovisto muovono verso una stessa meta. L’uno e l’altro dei due guerrieri si vogliono accampare in luogo forte: questo luogo è la città che allora si chiamava Vesontio, oggi si chiama Besançon. Sorge in altura: e un fiume vi gira attorno come in abbraccio di cintura e si chiama Doub, e sbocca nella Sôno e questa poi nel Rodano, fiume regale e gloria di Provenza.
Dove il fiume Doub non forma cintura, lì sorge un muraglione che fa scarpata nel detto fiume con le due estremità: dunque, luogo forte per natura e per arte.
Cesare va giorno e notte, previene Ariovisto e a Besançon si accampa.
L’accampamento romano era come una città quadrata secondo riti etruschi; e sorgeva ogni sera: era Roma che si rinnovellava oltre mari, oltre monti.
Attorno sorge il terrapieno e scende la fossa; nel mezzo sta la tenda dell’imperàtor. Per secoli e secoli il campo romano fu costruito su quello stile, e il legionario non era quello che oggi si dice specializzato, che quando sa fare, sa fare una sola cosa.
Il legionario romano era pioniere, muratore, artiere, fabbro, idraulico, ranciere. Era come il nostro contadino, se alcuno rimarrà degno del nome: il quale sa non soltanto arare, vangare, ma potare, fare innesti, estrae i vitelli dalle giovenche se occorre: conosce le sementi, le opere e i giorni perché guarda il sole, la luna, le stelle e ricorda i precetti dei padri. E poi dai civili si prende il nome di «villano!».
Cesare sta nella tenda. E davanti stavano le bandiere, perché nulla è più venerabile che la maestà delle bandiere: nihil est venerabilius signorum maiestate militibus.
Le bandiere romane in quel giorno erano molto avvilite.