Alfredo Panzini
Legione decima
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XII EJA, EJA ALALÁ!

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XII EJA, EJA ALALÁ!

MA chi sono? che vogliono quegli ufficiali davanti alla tenda di Cesare? Domandano udienza. Sono per la più parte giovani di buona famiglia, eleganti patrizi che compivano la loro educazione militare seguendo l’imperàtor, nelle spedizioni lontane.

Dicevano a Cesare: Mater mea sta poco bene, pater meus fu colpito da paralisia, Livia, puella mea, Clelia, fidelissima coniux, mi scrive che se non mi vede, morirà di crepacuore. Tullia, deliciae meae, mortua est. Son passate le calende, presto siamo alle idi che è giorno dei pagamenti, e il banchiere Alfio, se non vado a Roma a soddisfarlo, metterà una ipoteca sui miei beni». Insomma tutti domandano a Cesare una licenza per tornare a Roma.

Cesare li guarda e li vede stranamente turbati. Poi va per gli accampamenti, e vede ufficiali veterani che stanno taciturni sotto le tende. Altri scrivevano e sigillavano pergamene perché a quei tempi la carta non era stata trovata: vale, valete, amici! Guarda, e s’accorge che fanno testamento. Queste cose le dice proprio Cesare: che da per tutto si faceva testamento: totis castris testamenta obsignabantur. Cesare li guarda e vide lagrime cadere da quegli occhi come agli Edui.

«Voi piangete?», disse Cesare.

«Noi non vedremo più le nostre case, i nostri cari. Mai combattemmo così: tanti boschi, tanti nemici».

Così rispondevano.

Cesare ritornò nella sua tenda. Venne alla sua tenda il suo luogotenente Labieno, che nelle guerre di Francia ha scritto una bella pagina. Con lui erano altri generali: Auruncoleio Cotta, Sulpicio Galba, e il giovane Licinio Crasso.

Labieno parlò con molta franchezza, e disse che aveva il sospetto che se Cesare avesse comandato di levare il campo e uscire fuori di Besançon, e andare contro Ariovisto, i soldati non avrebbero ubbidito.

Ci doveva essere anche a quei tempi quello che si dice il «bollettino del fante». Si era sparsa la voce che Cesare voleva dar battaglia a Ariovisto, e i soldati per i racconti dei francesi, e per averli visti da lontano quei germani, erano impauriti, come tu vedi.

Diceva Labieno a Cesare: «I nemici fanno più timore quando l’aspetto stesso confonde l’imaginativa: formidolosiores sunt hostes quorum ipse aspectus mentem confundit. Sarà bene condurli fuori questi nostri fanti prima che tu dia battaglia, antequam dimices, affinché ci si abituino a guardarli da vicino, i nemici: imparino a conoscerli, recognoscant mores, arma, equos. Anche Mario ha dovuto fare così.

Allora Cesare comandò a Labieno di chiamare gli ufficiali a rapporto: non i capitani soltanto, i centurioni; ma tutti. Le legioni erano sei, sessanta ufficiali per legione: trecentosessanta ufficiali fecero quadrato attorno a Cesare. Cesare levò la mano; e tu, Ambrogino, che cosa avresti fatto?

Già, ho capito! la decimazione, per diserzione di fronte al nemico. La decimazione infatti esisteva nell’esercito romano, e credo che non provenga da «dieci», ma da una parola che vuol dire «morte». Non mi risulta che Cesare sia mai ricorso alla decimazione: la guerra è di per sé cosa troppo crudele per aver bisogno di un supplemento di sangue. E poi che avresti ottenuto? Volevi dare una soddisfazione a Ariovisto?

Cesare, oltre la spada, possiede l’arma della parola.

Cesare parlò! E certamente rimproverò quegli ufficiali del loro vil cuore in cui erano caduti: li rimproverò aspramente, acriter incusavit, non accusavit. Bada che qui la differenza è forte, anche se non sai di latino, fra incusavit e accusavit. Acriter! ma non accusò, perché accusando avrebbe dovuto poi condannare. Egli parlò, ma diversamente che nove anni più tardi sul pietrone di Rimini. , a Rimini, a quanto pare, si sbracciò e pianse, e si strappò le vesti. Aveva intorno in quella piazza una folla, e si trattava come in un teatro politico di commuovere folle.

Forse era turbato anche lui quel giorno, a Rimini? Ma non mi far parlare di cose politiche; quelle le sa Aristotele e Platone.

, a Besançon, aveva davanti ufficiali e di fronte quel grande nemico. Fra questi alti ufficiali v’era anche il fratello di Cicerone, ma Cesare non parlò asiatico come spesso faceva Cicerone, e quando ebbe finito il suo discorso egli dice che gli animi di tutti furono mirabilmente mutati: mirum in modum conversae sunt omnium mentes, e tutti volevano andare contro Ariovisto. Che cosa disse Cesare? Disse parole meravigliose. Le parole sono una grande cosa; ma senza musica che sono? La voce di Cesare è la musica. Io non ti so riprodurre quella voce, ma ti dirò quello che disse. Disse intanto che non temessero per la fame né per i luoghi, perché già i carri del grano da parte degli Edui stavano per arrivare, e i luoghi lui li aveva ben studiati. Quanto ad Ariovisto, considerassero che era interesse più per lui che per Cesare rimanere amico del popolo romano, e perciò la parte politica la lasciassero a lui, Cesare, e non facessero parlamento, ché tutto si poteva risolvere senza ricorso alle spade. «Se poi Ariovisto fosse impazzito e volesse far guerra, che timore avete voi dei germani

«I Cimbri e i Teutoni, germani, chi li tagliò a pezzi quarantatré anni fa? La spada di Roma per la virtù di Mario, che fu mio parente. I gladiatori di Spartaco, germani anche loro, chi li tagliò a pezzi diciassette anni fa?

La spada di Roma. Gli elvezi che avete vinto questa primavera chi erano? Germani. Ariovisto ha vinto gli Edui alla battaglia di Admagetobriga. Sì, valorosi sono i francesi, ma erano senza guida, e voi sapete che i francesi sono facili a impressionarsi. Voi siete romani

«Signori ufficialidisse infine (senti tu la voce di Cesare?) – mi è stato riferito che se io avessi deliberato di levare il campo verso Ariovisto, voi non mi avreste seguito. Io sino ad oggi nulla avevo deliberato, e mi stupisce come il fante sappia quello che non sa l’imperàtor. Ma poiché voi lo sapete, allora vi dirò che ora invece ho deliberato, perché voglio sapere súbito se in voi ha più forza l’onore che non il timore. Domani, alla quarta vigilia, quando si leva il sole, io leverò il campo».

Silentium! Levò la mano, poi disse: «Se nessuno mi seguirà, io andrò solo con la sola decima legio».

Senti tu la voce di Cesare? Essa è più meravigliosa delle onde corte, delle onde lunghe. Essa è il mistero delle anime grandi. Rimbomba nei cuori. Cesare voleva molto bene a questa decima legione: – lo dice lui; – e «si fidava nel suo valore».

Se la teneva alla sua destra. Cesare uomo solo, come solo è ogni grande, quando era con quei ragazzi della decima legio, era come con i sogni ardenti della sua giovinezza.

Così finì Cesare il suo dire: «Se nessuno mi seguirà, io andrò solo con la sola decima legio».

Gli ufficiali della decima legio alle parole di Cesare, mandarono il grido: Eja, eja Caesar, alalà! I soldati della decima legio, come seppero delle parole di Cesare, lo mandarono a ringraziare. «Più volte, o Cesare, tu ci hai promesso che noi saremmo un giorno tua scorta d’onore. Grazie, o Cesare, perché questo giorno è venuto. Per la vita e per la morte, noi siamo con te, o Cesare

Ma tu piangi, Ambrogino? Queste lagrime, testimoniano pur sempre di un nobile cuore. Esse mi ricordano un caro amico della giovinezza che era ufficiale, un bell’ufficiale. Portava il berretto che oggi non usa più, e lo portava un po’ alla sbarazzina, da un lato, e afflosciato: e quei galloni d’argento su per la manica. Più volte lo vidi piangere al solo nome d’Italia. Combatté in una battaglia contro centomila, più assai barbari che quelli di Ariovisto: la battaglia di Adua; ma non c’era Cesare con noi! Non morì in quella battaglia, dove tanti morirono. Morì molto più tardi quando la gran barba nera si faceva d’argento. Morì per gentilezza di cavaliere: non volle ripiegare la bandiera d’Italia da un forte africano che gli era stato affidato. E sua moglie era con lui in quel forte, e essa pure morì con alto valore. Lei portava il nome della madre di Gesù, e lui il nome di un imperàtor romano. Ma tu piangi, Ambrogino?

E il professore levò un suo gran fazzoletto per asciugare i suoi propri vecchi occhi.


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