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XIII IN CAMMINO CONTRO IL NEMICO
CESARE accomiatò gli ufficiali con un «e adesso coraggio, compagni, e state bene», che in latino sarebbe: – et nunc macte animo, commilitones, et bene valete; – e si appartò nella sua tenda. Era arrivato il corriere da Roma, ma lo avrebbe aperto a tempo più sereno. Ora riprese la lettura di un poema che gli aveva mandato il gran Cicerone con preghiera di un giudizio.
«Che cosa ne pensi, Cesare, del mio poema? Ti piace, o dispiace? È più bello il pensiero oppure la forma?»
Allora Cesare pensò che era bene rispondere oggi a quel suo amico, così pieno di lettere, perché domani chi sa? E scrisse così:
«Marce Tulli, amice mi, si vales bene est; «io e il fratel tuo, per oggi stiamo bene, ma domani chi sa?» ego et frater tuus hodie bene valemus, cras manet alta mente repostum. Il tuo poema mi piace molto, ma non mi sembra limato. Ti consiglierei pomice latina meglio che pomice d’Asia, o meglio ancora nessuna pomice, come usava Omero. Ma dove quel vecchio cieco si è portato il suo segreto? A noi ha lasciato gli epiteti decorativi. Tu mi domandi se è più bello il pensiero oppure la forma? domandane a Aristotele, che ne fa due tempi nella sua estetica. Io ne faccio un tempo solo: simplex dum taxat et unum.
*
Si confortò con un po’ di cibo, guardò la clepsidra e pregò Ipnos, il sonno, dolce fratello del nero Thanatos, che venisse a chiudergli gli occhi. Cesare possedeva questa bella virtù di dormire quando voleva; e così Alessandro che fu trovato sereno nel sonno che già era principiata la battaglia che doveva decidere del dominio dell’Asia, e svegliato dai suoi domandò: «Perché mi svegliate?»
E Garibaldi si svegliò con l’apparire della stella diana nel maggio di Calatafimi, ma aveva ben dormito fino dalla sera prima. Io credo che i grandi condottieri tanto di eserciti quanto di uomini, se non possedessero questa preziosa qualità di dire: «adesso dormo, non voglio seccature nemmeno di sogni» si troverebbero ben presto, non dico disgustati ma stanchi di tenere in mano la bilancia dell’umanità; e perciò quando i nostri poeti chiamano «insonni» gli eroi, non ci credere troppo: è più per l’amore verso gli epiteti decorativi che non per la verità.
*
Le legioni uscirono da Besançon così come l’imperàtor aveva ordinato; e il sole sorgendo dalle nebbie del fiume, indorava le foreste, e la gente degli Edui salutava Cesare che andava a dar battaglia a Ariovisto. Era il giorno 28 di agosto.
Cesare prese la via verso Colmar nell’alta Alsazia dove si udiva essere Ariovisto. Dalla parte d’occidente sorgono le montagne dei Vosgi e dall’altra parte cominciava quella smisurata selva germanica, chiamata allora Ercinia, e oggi Selva Nera, da cui vengono gli orologi a cucù, e allora venne l’orologio che segnò l’ora di Roma.
Un largo piano si stende fra quei monti e quella selva, e lì nel mezzo, ma più presso ai monti dei Vosgi, scorre il fiume Reno.
Cesare guardava quel fiume e quella selva.
Le legioni si misero in cammino.
Esse mossero in ordinanza quadrata, il che, – scusa sai! – non è proprio quello che voi altri dite le quadrate legioni, che sa un po’ di parata: l’agmen quadratum era la speciale disposizione dell’esercito quando si trovava in cammino, che è il momento buono, per un nemico che sia svelto, di attaccare e di tagliare. I romani non marciavano in fila indiana, capisci? ma in modo da formare quasi un quadrato, con in mezzo gli impedimenta, i carri, i vivandieri, i portatori. Naturalmente le punte delle cavallerie si stendevano a ventaglio, e le avanguardie e le retroguardie conoscevano le distanze. Il drappello degli antesignani, che erano ufficiali scelti, faceva scudo alle bandiere. Questo è l’agmen quadratum, che si formava da sé per tradizione, per disciplina, senza che l’imperàtor avesse bisogno di scomodarsi per queste piccole cose.
Le legioni andavano con una certa lentezza perché si dovevano portar dietro la casa: l’accampamento. In teoria, il povero fante era un vero cireneo: doveva portare la sua provvista di grano, una sega, una vanga, una scure, una pentola, i paletti per le trincee, oltre alle armi e all’armatura: sessanta libbre di peso, circa venti chili. In pratica avrà caricato sui muli e su carri: ad ogni modo se, quando marciava era chiamato «impedito», lo si poteva bene a ragione chiamare così. Grande eccezione è la corsa che fecero per mezza Italia i legionari quando si trattò di tagliare la strada al fratello di Annibale; e non avevano altro bagaglio che la spada e il furore.
*
A quei tempi la massima velocità era data da un uomo a cavallo, che oggi fa un po’ ridere. Le muse allora erano nove e non era sorta la musa Velocità. Essa sta crescendo ogni giorno, e, che Dio vi dia bene, non vi intervenga come agli uccellini nel cui nido il cùculo ha buttato il suo ovino; ma poi questo nasce e butta fuori del nido gli uccellini. Con o senza velocità, spostare un esercito è operazione seria, perciò se l’agmen quadratum lo formarono le legioni, la direzione del cammino la prese Cesare.
Quelle strade che Roma lanciò per il mondo – fa conto le ferrovie di oggi –, allora in Alsazia non c’erano; e Cesare dice che allungò il viaggio di cinquanta miglia e percorse un largo circuito per non passare per selve e per monti; ma volle passare per luoghi «aperti». Il fidato eduo Diviziaco gli era da presso e disegnava il cammino. Sin dove arrivò Cesare?
Camminò per sette giorni senza mai sostare. E Ariovisto dov’era? Aspettava che tutti quelli altri svevi della Selva Nera passassero il Reno? La Fortuna lavorava contro Cesare e così il Tempo. Bisognava vincere Tempo e Fortuna. A quei tempi di genti superstiziose e con la scienza che era bambina bambina, non ti meravigliare se anche un uomo come Cesare credeva nella Fortuna, e perciò dice: «quante e quanto inaspettate combinazioni presenta la Fortuna: quantos affert casus!».
Sin dove può, Cesare cerca di vincere la Fortuna; e probabilmente quel giorno, a Besançon, quando disse agli ufficiali che all’alba del dì seguente sarebbe partito, aveva già stabilito di partire, e tutt’al più colse quel momento dell’entusiasmo per annunziare «si parte domani alla quarta vigilia quando nasce il sole».
Besançon era luogo forte, ma presentava il pericolo che Ariovisto lo assediasse con quella sua moltitudine.
Era la fine del settimo giorno quando le avanguardie di Cesare ritornano a briglia sciolta per annunziare che Ariovisto era poco lontano.
Ed ecco appare uno squadrone di cavalieri tedeschi su ispidi cavalli, con le corna in testa come gli elmi dei nibelunghi. Splendevan le lance. Sono gli ambasciatori di Ariovisto. Domandano dove è Cesare. Quando sono davanti a Cesare, sbattono le lance perché questo è il lor modo di salutare; e senza smontar da cavallo, uno dice:
«Ariowist ci manda per dirti che acconsente di venire a parlamento con te. Prima ha detto di no perché tu eri lontano, ora dice di sì perché sei vicino».
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Questo messaggio «piacque a Cesare credendo che Ariovisto avesse preso miglior consiglio, offrendosi a ciò che poco avanti, pur essendo da lui pregato, aveva negato: sì che venne in grande speranza che cesserebbe dalla sua ostinazione quando avesse da lui inteso la sua onesta domanda».
Proprio è Cesare che scrive così! Capisci? Cesare aveva pregato! Dunque Cesare non desiderava la battaglia, almeno per allora, ma preferiva un accomodamento diplomatico; e quella sua mossa ardita fuori di Besançon probabilmente aveva questo fine di far mutare un po’ la dura testa di Ariovisto, e, come vedi, gli era riuscito e ne era contento.
Se Cesare è prudente, non meno prudente è Ariovisto, e per di più teutonicamente pedante.
Quattro giorni occorsero per combinare questo colloquio, e fu infine stabilito così: Cesare e Ariovisto si sarebbero incontrati da soli, a cavallo, di chiaro giorno su l’ora del mezzodì, in cima a un monticello che sorgeva nella pianura. Avrebbero parlato rimanendo a cavallo.
Dieci cavalieri per scorta d’onore condurrà Cesare, dieci Ariovisto. A duecento metri di distanza staranno quattromila cavalieri di Ariovisto; quattromila cavalieri di Cesare a duecento metri da Cesare. Volle infine Ariovisto che ognuno giurasse la tregua per i propri Dei.
Cesare accettò queste condizioni.