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È IL giorno 2 del settembre dell’anno 58 avanti Cristo: montagne verso ponente; selve d’attorno; selvaggio paese; case impastate di mota; fiero linguaggio di inculte genti.
E quattro secoli prima di allora Platone aveva scritto dell’immortalità dell’anima; Sofocle aveva cantato il lamento di Antigone; Fidia aveva mutato la dura pietra nella più gran gentilezza che mai vide il mondo.
Cinquant’otto anni attendono ancora di passare perché in oriente apparisse la stella ad annunciare il nascimento del re del mondo a cui i magi offersero oro, incenso e mirra; e altra corona non volle che la corona di spine.
Di quel passato e di quel futuro qualcosa doveva splendere attorno alla testa di Cesare.
E credo che Cesare onorasse gli Dei, e suo padre e sua madre, come li onorò l’imperàtor Marco Aurelio, e anche onorasse i suoi buoni maestri; insomma sentisse il sublime orgoglio della umiltà. Lui non era solo con il suo orgoglio; ma i morti e i nascituri erano con lui, e la sua patria era più vasta della grande Roma. Spesso ho considerato quelle iniziali Jesus Cristus, Julius Caesar: sono uguali. Veramente questa comparazione di Cristo con Cesare sa di blasfemo, o di adulazione, la quale se non conviene con i vivi, non conviene nemmeno con i morti. Allora ti dirò che Cesare porta dentro di sé un angiolo, e anche un demonio. Questo, se guardi bene, ti balena nella piega degli occhi presso il naso, e deve essere quel demonio affascinante che si chiama Mefistofele. Ma nella gran fronte splende l’angiolo buono. Chi dei due vincerà, l’angiolo bianco o l’angiolo nero? Il giorno della morte te lo dichiarerà.
*
Ciò detto il professore chinò la fronte e poi riprese così:
Ecco venuto è il giorno che Cesare doveva andare a parlamento con Ariovisto, e il sole si avanzava verso l’ora del mezzodì. Quattromila cavalieri aspettano Cesare.
Sono quei quattromila cavalieri degli Edui, quelli che Cesare aveva ordinato stessero pronti, ed erano pronti. Hanno lunghe spade, montano splendenti destrieri: lunghe trecce scendono dagli elmi.
Allora si udirono suonare i corni, un gran polverio si levò lontano. Erano i quattromila cavalieri germani. Davanti un cavaliere solo procedeva. Era Ariovisto.
Quando fu a duecento metri dal monticello, fece segno con la mano a quei cavalieri di sostare. Egli a cavallo è apparso su quel monticello come un monumento.
Allora Cesare si ferma davanti agli Edui e dice: «Signori francesi, giù di sella». Poi dice: «Decima legione, a cavallo!»
La decima legione manda un grido, ed è balzata in sella.
Per quale ragione questo mutamento improvviso?
Lo dice lui stesso con quella sua ammirabile sincerità, che «non osava, non audebat, affidare la sua vita agli Edui». Avrebbe potuto dire, e sarebbe stato più onorevole per lui: «non si fidava degli Edui»: ma non era nel vero. Gli Edui erano valorosi e fedeli; ma forse la mente di Cesare, oltre alle quattromila lance dei cavalieri tedeschi, vide balenare le ottomila punte di quelle pupille, acies oculorum, ed egli sapeva che cosa vuol dire quando il pallido terrore si impadronisce di una moltitudine. Perciò diede quell’improvviso contr’ordine, e affidò la sua vita alla legione in cui massimamente fidava. Ora i legionari della decima legione son tutti a cavallo in grande baldanza, e uno di essi si fece davanti a Cesare e parlò così: «Noi ancora ti ringraziamo: tu ci avevi detto che di noi avresti fatto la tua guardia di onore. Ora hai fatto molto di più di quanto ci avevi promesso! ci hai inscritti tutti noi, poveri fanti, nell’ordine dei cavalieri».
E Cesare, al motto non infaceto, non irridicule, sorrise.
Qui puoi bene ammirare, perché Cesare che mai non si ferma sui particolari, qui si ferma e nota nei Commentari gloriosi anche il motto di spirito della sua legione.
Così con quel sorriso di buon augurio, Cesare spronò verso Ariovisto.
Li vedi sul monticello? I due destrieri col loro musetto si annusarono? si salutarono?
I due guerrieri si trovarono di fronte. Le pupille del gigante germano folgorarono: quelle del grande latino lo penetrarono.
Si salutarono. Ariovisto porta la gran chioma rilevata all’usanza sveva. Alzò la mano, aprì la bocca nella barba bionda, e un ululato ne usciva in cadenza di parole gutturali, e parevano versi. Odore ferino spirava la sua persona.
Dice Cesare, nelle sue memorie, che quel barbaro prima molte cose narra della gesta onde nacque e sua virtù: «Io sono Ariowist, – disse –. Nella nostra lingua di guerra Ariowist vuol dire il saggio, il forte guerriero, e nel suo onore ben saldo: il primo io son degli Svevi. Primi sono gli Svevi di tutti i germani. Sono tanti i germani fin dove il cielo si incurva e si spegne la luce del sole. I germani temono gli Svevi soltanto. Gli Svevi non temono che il dio Wotan. E tu chi sei? cosa sei venuto a far qui?»
E Cesare senza gestire, movendo appena le labbra, gli inviò queste parole: «Io sono Caesar nato da Venere celeste. Venere vincitrice è il mio motto. Da dove vengo? Da Roma fabbricata per volere degli Dei. Caesar nella lingua di pace degli etruschi vuol dire il grande, l’augusto, e tale sonerà nei secoli. Perché vengo? Per portare liberazione alle genti io sono qui».
Ariovisto lo guardò e poi disse: «Quella che ti pende dal balteo, non è una spada come è la mia?»
« È necessario, o Ariovisto –, rispose Cesare –, vivere tra spade e lance, finché la luce verrà. Se l’umano genere dovesse in eterno vivere belva fra le belve, io non sarei Cesare. Ora mi ascolta: il senato di Roma ti ha fatto pastore di popoli, e tu sei lupo crudele: rendi gli ostaggi agli Edui, e se per il presente tu non puoi ricondurre i tuoi in Germania, dà almeno assicurazione al senato di Roma che tu non condurrai altri germani in Francia. La Francia non appartiene né a me né a te, la Francia è libera, la Francia è dei francesi. Guarda, Ariovisto, come Roma governa i popoli che stanno sotto il suo diritto, a Marsiglia, a Narbona, a Tolosa: i loro costumi, le loro leggi, Roma ha lasciato: tutti son fatti cittadini di Roma: tutti fioriscono in civiltà. Se tu pure così farai, o Ariovisto, il senato di Roma ti avrà gratitudine, e sarai fratello di Roma in eterno».
«Tu parli fiorito, o Cesare, ma ripeti cose a cui tu stesso non credi: noi germani abbiamo più franco parlare, e ce lo conservino gli Dei! Perciò così ti rispondo: la tua amicizia è finta, e il tuo esercito è qui per opprimermi, e perciò se tu non te ne vai, io ti avrò per nemico. Ogni stato è sovrano, e io qui sono per diritto dell’armi, e ci sono venuto prima di te, e governo senza i tuoi insegnamenti. Cessa dal parlarmi del senato romano: sì, io sono amico di Roma se ne ho bene, sono nemico se ne ho male. Ma non credere che Ariowist sia barbaro e ignorante a tal segno che non sappia per molti messaggeri che io ho ricevuto, che questa guerra che tu fai in Francia, la fai per tuo conto. Il senato romano, se io ti uccidessi, o Cesare, e ti avessi morto – e levava la mano minacciosa –, mi sarà molto più grato, e in eterno. Ma io sono leale, e tu va nella tua provincia a governare con liberalità, o a far guerra se vuoi, che non avrai molestie da me. Se te ne vai via di qui, ti farò anche bei doni, o Cesare».
*
Dicendo così, Ariovisto credeva di essere gentile verso Cesare; ma ogni popolo ha il suo costume: i tedeschi fanno sgarberie e le credono gentilezze, i francesi dicono gentilezze e sono sgarberie.
Fu allora, o per impazienza dell’attesa, o per quel gesto che videro fare dal loro signore, quando disse che poteva uccidere Cesare, che i cavalieri tedeschi tumultuarono, e dardi e sassi scagliarono contro Cesare.
A quell’assalto balzarono i legionari della X legio e spronarono i cavalli; ma Cesare si fa loro incontro, e così fece Ariovisto verso i suoi.
La decima legione, fremendo, ubbidì a Cesare. E Cesare dice che li fermò non perché dubitasse menomamente che la X legio non avesse sbaragliato i tedeschi. «Cesare può essere ferito, – diceva –; ma non deve cadere macchia sul nome di Roma. Mai non sia detto che Roma ruppe la fede dell’armistizio giurato».
Quando le altre legioni seppero dell’affronto fatto a Cesare, a stento potevano essere trattenute.