Alfredo Panzini
Legione decima
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XV IL PANE E IL VINO

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XV IL PANE E IL VINO

DOPO due giorni Ariovisto invia ancora ambasciatori a Cesare. Dice che vuol continuare il discorso che era stato interrotto quel giorno sul monticello. Se non vuole venire lui, mandi un suo generale.

Cesare non va, non manda generali perché è periculosum. E lo scrive lui, lui che non ha paura, che era «pericoloso

Quanto mi piace, o Ambrogino, spiegare certe parole rivelatrici che hanno lasciato a noi coloro che sono stati i signori del mondo!

Dopo, ci faccio una suonatina su la spinetta.

Cesare è il più bello di tutti gli eroi: io direi «fuori serie».

Dopo viene Alessandro, ragazzo di genio con quel suo bel corpo lacerato di punta e di taglio. Quando lui in Egitto va nell’oasi di Giove, e proclama che anche lui è Giove, è un po’ teatrale, ma dimostra, così giovane come è, che conosce il segreto del mondo: il faut épater, come dicono i francesi.

Il giovane Buonaparte se ne deve essere ricordato quando, in Egitto, venne fuori con quella storia delle piramidi che guardano da quaranta secoli.

Veramente Buonaparte esagera un po’ nella teatralità tanto quando in ammanto azzurro costellato d’oro si mette da sé in testa la corona ferrea, nel duomo; come quando sta negletto in redingotta grigia e piccolo cappello fra i suoi generali superbi di oro e di piume. Mamma Laetitia, che gli voleva tanto bene, gli diceva: «Bada, figliuolo, che ti può cadere il sipario su la testa!» Lui aveva il torto di irritarsi se appena sentiva qualche fischio in platea.

Ma Cesare è altra cosa. Cesare ha domato il demonio della vanità. Cesare sta fuori del panteon che rinserra la gloriosa umanità. Cesare è semplice: si è accontentato di scrivere questo libretto dei Commentari, che ora lo leggono i bambini.

Quel giorno, sul monticello, con davanti Ariovisto, Cesare ha capito che si trovava davanti a «uomini feroci», feris hominibus, e perciò era «pericoloso».

Gli uomini feroci sono quelli che non hanno la nostra bella educazione: ma hanno lo scatto. Scattano come belve quando vedono una figura antipatica; e allora è pericoloso e ci si può lasciare la vita. Perciò l’alto senno di Giove ordinò ad Ercole, suo fedel servitore, di esterminare gli uomini feroci, e dietro ci mandò Orfeo con l’arpa, per ammorbidire i duri cuori.

Tu dirai che Ariovisto è feroce perché è un barbaro. Non è una ragione sufficiente. Artaserse, re di Persia, era raffinatissimo; ma trovandosi in guerra, mandò a chiamare i generali dell’esercito nemico dicendo che voleva discutere con essi e venissero pure alla sua tenda. Quelli andarono, e li ammazzò tutti.

E il duca Valentino, benché fosse figlio di papa, fece lo stesso: mandò a chiamare i suoi nemici per ragionare bonariamente con loro; e invece trovarono don Michele che li strangolò.

Ti potrei ricordare storie anche più recenti: quella del giovane duca d’Enghien, preso per sorpresa, e fatto fucilare per ordine di Napoleone nel 1809. Quando si giocano certe grosse partite, non si può badare per il sottile.

 

*

 

Cesare non va più da Ariovisto, non mandò Labieno, né Auruncolejo Cotta, né il fratello del suo amico Cicerone, né Crasso l’adolescente: ma non poteva lasciarsi sfuggire quell’invito di Ariovisto allo scopo di meglio vedere, esplorare, e forse trattare ancora, se era possibile.

La situazione di Cesare era tra le più difficili.

Egli si trovava a centinaia di miglia lontano da Roma. Se domanderò aiuto a Roma, l’aiuto non farà in tempo ad arrivare. E  poi? Cesare lo sa, anche senza che Ariovisto glielo dica, che nei consigli del senato non si udirà con dispiacere se lui è morto in quella guerra: forse non lo vendicherà nemmeno come vendicò Attilio Règolo.

Quante forze armate ha con sé? Sei legioni. Ventiquattro mila fanti; che dovevano essere molto ridotti dopo quell’atroce battaglia di Bibracte.

Erebus et Terror avevano colpito le sue legioni. In quel giorno, con quel suo discorso, a Besançon, egli ha potuto allontanare Erebus et Terror dalla mente dei suoi soldati, ma i fantasmi ritornano.

Vi sono le genti ausiliarie degli Edui. Ma sino a quando, e a che punto gli saranno fedeli?

Di notte ascolta un cupo tramestio, grida e voci si levano dal campo di Ariovisto. Sono gli Svevi dei cento pagi che si congiungono ad Ariovisto? È la battaglia che si approssima anche se lui non la vuole.

Cesare è solo col suo genio, e l’enigma della Fortuna sta davanti a lui. I fanti della decima legione guardano l’imperàtor. Il sorriso di Cesare aleggia sopra il suo genio come il suo cranio riposa su quelle mandibole. No, egli non butterà quei poveri fanti nella fornace della battaglia con disperazione, così come il giocatore folle fa con le carte. I legionari di Cesare questo sanno; e perciò ti dico: quando vai a morire per il comando di Cesare, è una bella cosa.

Per queste ragioni Cesare scrive che stimò «molto utile», comodissimum, mandare qualcheduno da Ariovisto.

Cesare mandò ad Ariovisto due ambasciatori scelti assai bene. Mandò un giovane romano di tutta sua fiducia che si chiamava Valerio Procillo «col quale i germani non avevano ragione di rancore»: di modi molto gentili, summa humanitate, come deve essere un ambasciatore, e molto discreto e saggio, summa virtute. Oltre a ciò, costui si faceva capire facilmente in lingua francese, che Ariovisto conosceva per il lungo uso di Francia; l’altro ambasciatore era un certo Marco Mezio, di cui non sappiamo di più se non che conosceva bene anche il tedesco, perché era stato altre volte ospite di Ariovisto.

Con quali istruzioni li mandò? Questo Cesare non ce lo dice. Dice soltanto che nell’accomiatarli li prega di «tornare più presto che possano e di riferire», referre.

Andarono, Cesare li aspettò, e non ritornarono indietro.

 

*

 

Invece di veder ritornare i suoi ambasciatori, Cesare s’accorge che l’accampamento di Ariovisto si sposta e avanza verso di lui; prima a cinque chilometri, poi a due chilometri, e infine si divide in due accampamenti: uno grande e l’altro più piccolo.

Allora Cesare schierò le legioni in ordine di battaglia come a dire: «son qui».

Ariovisto non appare.

Quando è sera, Cesare riconduce i suoi nell’accampamento. Spunta il giorno seguente, e Cesare dispone ancora le legioni a dimostrazione di battaglia, e Ariovisto non appare. E così fece Cesare per cinque giorni. E Ariovisto mai non apparve.

Quale manovra ha in mente Ariovisto?

Noi siamo qui, su questa terrazza, al solicello d’aprile, e parliamo di strategia, e ciò mi fa sorridere: non dico per te che sei uomo d’arme, ma per me che sono grammatico e, tutt’al più, ho schierato in ordinanza le paroline. Tuttavia mi pare che Ariovisto si comporti da capitano accorto e che dispone del dominio dei propri nervi davanti a Cesare che per cinque giorni lo sfida. Il programma di Ariovisto è questo? stancare le legioni di Cesare per arrivare al marasma morale, al «momento psicologico»? Questa è una espressione celebre del cancelliere germanico, Ottone di Bismarck, quando nel 1871 bombardò Parigi, affamata e isolata dal mondo. I tedeschi sono anche loro intelligenti. Tutti noi di razza bianca siamo intelligenti. Abbiamo insegnato il progresso a quelli di razza gialla che ne facevano a meno; e oggi col progresso si domandano: «perché ci sono quelli di razza bianca?».

I romani vivono sotto la minaccia di Ariovisto, e perciò male possono la notte riposare. Vegliano su gli spalti il giorno e la notte: con tronchi di foresta, con macigni, bocche da lupo, cavalli di frisia, fortificano l’accampamento; e ogni tanto il vento porta il ruggito di quel mare di barbari. Ecco, ecco l’assalto! Le sentinelle dànno l’allarme. È apparsa appena l’alba che è l’ora quando gli occhi si chiudono. È Ariovisto?

No! Ariovisto non si è mosso. È la sua cavalleria solamente. Sedicimila cavalieri barbari si sono scatenati. Non dànno assalto: girano una romba furibonda attorno al campo di Cesare.

Cavalcano senza sella su quei feroci cavalli, cavalcano urlando: Urrah! Sono in due per ogni cavallo; uno in groppa, l’altro corre attaccato per la criniera. Se quello in groppa è rovesciato, l’altro prende il posto del morto.

Se anche questo casca, scendono le Valchirie volanti e li portano nel Valalla.

Così Cesare può vedere per pittura quello che saranno, quattro secoli più tardi, i cavalieri di Attila.

I cavalieri di Ariovisto, appena colgono il destro, si avventano contro i romani intenti alle fortificazioni. Recano gran turbamento. La cavalleria romana li ha scontrati, ma ne è uscita con grave danno.

A tratti, quei cavalieri interrompono la romba, e filano via per la tangente come nembo di frecce. Hanno veduto di lontano profilarsi una mandria, un convoglio. Sono i buoni Edui che portano farina, carne, vino, insomma quello che ci vuole perché i fanti di Cesare stiano in piedi.

Quei convogli sono assaliti, le vettovaglie disperse, gli Edui uccisi: insomma quei cavalieri costruiscono l’opera essenziale di tutte le guerre: distruggere.

Gli Edui, impauriti, non porteranno più viveri al campo romano.

Questa operazione di guerra è tanto importante che nelle sue memorie Cesare ha creato la frase apposita: «chiudere l’andare e venire del commercio, bloccare il trasporto delle provviste», intercludere commeatu per dirtela in latino, e ha per conclusione: «prendere per fame».

 

*

 

Oltre la fame, c’è la sete che è forse più terribile, perché asciuga la gola.

Ci fu una volta una grande battaglia, che dico una volta? settantaquattro anni fa, ed era un giorno di torrida estate; e i croati che dovevano contro-attaccare dall’alto del colle, erano assetati e conveniva anche inebriarli. C’erano tante botti di vino. Apersero, spaccarono quelle botti. Era potòria, peggio che aceto! Perdettero la battaglia. Il loro imperatore ordinò poi un’inchiesta, e quei fornitori di vino guasto diventarono poi grandi banchieri.

È la battaglia per cui Francesco Giuseppe imperatore d’Austria non vide più quella , la tua Madonnina del duomo. Non l’avrebbe più riveduta lo stesso; ma questo particolare è notevole se anche non lo ritrovi nei libri descritti dagli stati maggiori.


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