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XVIII LA BATTAGLIA
I GERMANI si disposero stretti per tribù perché quel popolo sembra si senta più forte quando uno è a contatto dell’altro; e nell’ultima guerra di cui stenterà molto il color rosso a scomparire dalle candide ali della Pace, si legge di germani che avanzavano in file serrate contro il grandinare delle mitraglie, come se il terreno fosse lui ad avanzare, e così camminavano i vivi e camminavano i morti.
Dunque stavano tutti compatti i germani, e coi loro palvesi si coprivano, e siccome quei palvesi erano variopinti, così parevano un embricato tetto. Dietro i palvesi le bocche dei germani si aprivano per soffiare certe cupe cantilene. Spade e lance fiammeggiavano.
Le loro donne stavano sui carri, e supplicavano quei guerrieri di non le abbandonare ai romani. Gridavano scarmigliate come furie verso i romani: «Venga Ariowist, sì vi farem di sasso».
Ariovisto apparve. Guarda davanti, e se è lecito scherzare in argomento tanto grave come è una battaglia, ti direi che è Ariovisto che rimane di sasso, cioè stupefatto. Si volge ai suoi fedeli e domanda: «Come è cresciuto a tanto l’esercito di Cesare?»
Fremendo dice: «Nuove legioni devono essere arrivate da Roma se ha osato battermi, in faccia».
Ora Cesare non aveva che quelle sei legioni.
Come aveva potuto Ariovisto a vedere contro di sé così grande esercito?
È che Cesare aveva truccato quel suo piccolo esercito con gli ausiliari, coi vèliti in lieve armatura; e frombolieri, e balestrieri, tutta gente gallica, e li aveva allargati alle ali, e li chiamò gli «alari»: agitavano le ali, facevan frastuono, scagliavano dardi e fionde. Stormeggiava la cavalleria edua, mentre lo sparviero romano, in sé raccolto, si disponeva nella triplice ondata d’assalto, tríplici àcie. Questa disposizione della triplice àcie avveniva di per sé per antica disciplina; ma nuovo è l’occhio di Cesare che vede nel corpo nemico quale è il punto dove deve essere diretto il colpo mortale.
I romani stavano con la fronte rivolti verso oriente: i germani con la fronte rivolti ad occidente, e alle loro spalle correva il fiume Reno. In quelle battaglie antiche a ferro freddo era necessario più che nelle moderne non voltare le spalle. Chi non voltava le spalle, aveva molte probabilità di salvare la vita.
Cesare in quella battaglia rinnovò l’antico duello dei tre Orazi contro i tre Curiazi: dividere e battere separatamente, come fece anche Napoleone.
Ma le teorie della guerra ti valgono poco. Sapere quando, dove, come si possono applicare, lì è il segreto della vittoria; e perciò gli antichi chiamavano arte dove noi chiamiamo scienza: arte della guerra, arte della medicina. L’elemento magico!
Cesare ha calcolato il punto, il tempo, lo sforzo. Poi l’azione si svolge fulminea.
Cesare ha lasciato a Labieno e alle legioni l’assalto al campo maggiore dei germani, dove è Ariovisto. Egli mira il campo minore.
Gli squilli delle trombe romane echeggiarono appena per ordine di Cesare, che subito qualcosa balenò, partì, sormontò. Cesare contro quel campo si avventa alla testa della decima legio. Le altre legioni assalivano il campo maggiore scagliando prima il classico pilum.
La decima legione gettò via il pilum: arma inutile. Balzarono sopra quel tetto degli scudi, strappavano gli scudi, e immergevano le spade. Cessa il canto dei barbari: si odono grida e lamenti. I morti in quelle file serrate dei germani rimanevano in piedi. In un momento il campo minore è annientato.
Quell’annientamento spira scoramento nel campo maggiore. Questo comincia a vacillare.
Sanguinante è Ariovisto: le mogli e le figlie si buttarono su di lui a succhiarne le ferite.
Cesare ora osserva quel vacillamento. È formidabile, e lento. È arrivato il momento, e Cesare manda ordine a Crasso. Crasso, l’adolescente, stava agli agguati in testa alla cavalleria.
All’ordine di Cesare mosse la cavalleria romana. Mosse la ardente cavalleria degli Edui.
Le torme dei cavalieri catapultarono, e anche il campo maggiore crollò. Allora appare la parola mortale che chiude le battaglie romane: hostes terga verterunt: «i nemici voltarono le spalle».
Per dirupi, per selve, nascondendosi, fuggendo, precipitavano giù verso il Reno i germani. Si udiva lo stridor delle donne, il pianto dei bambini.
Non cercar queste mie descrizioni nei Commentari. Ti bastino queste parole di Cesare: «sino alla riva del fiume Reno continua fu la fuga»: usque ad ripam Rheni fuga perpetua fuit.
L’acqua del Reno rosseggiava per i germani che dentro vi precipitavano. Gli svevi che erano rimasti all’altra riva, atterriti fuggivano.
«Il resto che non poté passare il fiume fu ucciso»; e queste sono le ultime parole di Cesare.
Ariovisto piangendo per tanta sventura, arrivò insieme con i suoi fedeli alla riva del Reno; perché grande disdoro era per i germani abbandonare il loro signore. Qui trovarono un navicello e traghettarono Ariovisto all’altra riva; ma poco appresso morì per quelle ferite.
*
Entrava poi Cesare nell’accampamento dei germani e vi trovò i due giovani «savi e discreti» che aveva mandato come ambasciatori. Quanto se ne rallegrò! Essi erano incatenati con tre catene e Cesare li fece sciogliere. Essi raccontarono che le streghe dei germani volevano bruciarli vivi per la loro religione. Cesare dice che nel ritrovare vivi quei due giovani, fu più contento che per la battaglia vinta, e questa dichiarazione testimonia ancora della sua gentilezza.
«Ariovisto – dice Cesare così di sfuggita, – li trattò non da ambasciatori, ma da esploratori», che è parente con spia.
Ai tempi nostri due ambasciatori di quel genere non sarebbero stati trovati vivi; e mi nasce il sospetto che Ariovisto fosse migliore della sua fama.
Ma ricordiamo soltanto il valore dei vivi, e non le operazioni crudeli. La colpa è di Eva: essa partorì due figliuoli: uno era bianco e l’altro negro. Poi oltre ai colori, c’è la grinta crudele, e chi non l’ha se la fa apposta, come puoi vedere se vai a spasso per il corso.
Queste operazioni crudeli, per divina provvidenza, sono intercalate nel tempo a lenti spazi, così che l’una operazione è coperta dalle arene dell’oblio prima che l’altra ondata sopragiunga; e intanto l’uomo coltiva i frutti della terra, come fece con i suoi cavoli in Dalmazia il grande Diocleziano.