Alfredo Panzini
Legione decima
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XIX I BRINDISI

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XIX I BRINDISI

ALLORA Ambrogino dalla bocca aperta domandò: – Non c’è alcuna lapide per questa battaglia?

Gravemente il professore rispose:

– Tu ti riporti all’uso che avevano i romani di mettere lapidi. Sei in errore, tu come tanti. Le lapidi erano un’usanza romana, ma consistevano in poche parole a documento del fatto: S. P. Q. R. ex S. C., che vuol dire: «per deliberazione del Senato»; e Augusto dice che elevò certe sue opere edilizie con grande spesa «senza metterci nemmeno il mio nome», sine ulla inscriptione nominis mei.

L’uso delle ampollose lapidi latine è di età posteriori: dei papi, ad esempio. E poi? Dove vuoi mettere la lapide ché non si conosce il luogo della battaglia?

Ambrogino allora disse: – Alziamo almeno il calice in onore della decima legione.

Il calice lo troveraidisse il vecchio – ma non così il vino.

Lasci fare a me, – rispose Ambrogino. Andò, tornò su con una bottiglia, e, da ragazzo previdente, aveva preso con sé anche il cavatappi. Il suono schietto che fece il tappo nell’uscire, assicurò la buona conservazione del vino.

Versa, o ragazzo, in onore della luna nuova: da lunae pròpere novae –, così disse il vecchio; e guardava il fremere rosso della spuma del vino. – Grignolino! – esclamò. – È ammirabile! Appena uscito dal vitreo suo carcere, canta l’inno della libertà. Bibamus papaliter!

E bevve con delizia, poi aggiunse:

– Altro gran vino è il barolo: esso, non ti so dire perché, mi ricorda l’anima austera di Silvio Pellico. Forse perché fu intendente dei conti di Barolo? o forse perché Silvio Pellico si maturò in dieci anni di prigione così come il barolo acquista valore per la lunga dimora nelle bottiglie? Conosco vini che finché sono giovani come te, fanno bella figura; ma dopo un anno si rivoltano, e non hanno più splendore. Nessuno meglio di me ammira, ama la giovinezza. Con penna d’oro essa oggi scrive il suo peana! Ma fa sì che la duri sino a bella maturità.

E diceva anche:

– Il barolo arriva profumato e chiaro sino agli anni cento. Vini guerrieri del glorioso Piemonte hanno creato un popolo guerriero.

– Ma lei sa tutte cose! – esclamò Ambrogino.

– Non hai visto quello che sta scritto su la porta? Grammaticus. La prima fra le arti liberali, la grammatica! Io conosco, infatti, tutte le lettere dell’alfabeto.

Tu, come traspadano, puoi vantare il lambrusco, vino allegro e rubicondo, che inspirò tanto la musa di quel bizzarro amico del Tassoni, quanto confortò i pazienti studi di Ludovico Antonio Muratori, la ammirevole formica di tutte le storie. Noi abbiamo vini santi per monache, vini bianchi per i prelati, e il vinello del popolo, che ride e grilla, e fa sorridere i nonni ed i bimbi alle povere mense. Non gravare di gabelle il vino del popolo: non incatenare il Dio Libero.

Oh, buon medico aretino, Francesco Redi, seguace del grande Esculapio, che offrivi agli infermi la nepente del vino e il sorriso delle Muse, che diresti tu se vedessi qui, fra noi, agitare il gelido barattolo del coktèl? Sì, eleviamo il calice alla X legio. Essa nella baldanza della vittoria fu alquanto violenta. Ma poi nei secoli di poi, siamo stati anche troppo gentili, e verso germani, e francesi e spagnuoli!

E libiamo anche una coppa di questo ottimo vino, che odora di violette, agli Dei Mani di Ariovisto. Fu grande strage e uccisione in quel giorno: magna caedes fuit, come scrive Cesare. Ma ora che la memoria mi ricorda, ti devo anche dire che una uccisione o strage, anzi, per dir meglio, un annegamento anche più grande di germani fu compiuto da Cesare quattro anni dopo questa sua vittoria.

Devi sapere che altre tribù di questi sterminati germani avevano passato il Reno e domandarono a Cesare di stabilirsi in Francia. Cesare fece venire i capitani delle tribù nel suo padiglione sotto pretesto di parlamento, e quando li ebbe , assalì le orde dei germani che non se l’aspettavano ed erano senza più i loro capitani. Cesare li fece buttare tutti nel Reno, ed essendo le acque molto impetuose, annegarono.

Ma che vuoi? Benché vi siano piacevoli racconti di cortesie, specie al tempo dei cavalieri erranti, come il buon re Meliadus e il cavaliere Senza Paura che erano nemici mortali e si usarono cortesia; generalmente parlando, la guerra non può essere operazione cortese.

La spietatezza contro il nemico diventa la pietà per gli amici. I nostri tempi così civili te ne offrono un esempio: la Germania, durante la grande guerra, fu stretta da un cerchio di fame. Vedi? È l’intercludere commeatu, come in antico. Allora adottò la guerra dei sottomarini: cosa veramente crudele, e anche stupefacente per noi che eravamo educati a così pacifica civiltà. Fu un anno di terrore e su l’uso di questi sottomarini se ne sono dette tante. Persino fu detto che se la Germania avesse perseverato in quella sua spietatezza, avrebbe concluso altrimenti.

Io non sono qui per fare l’apologista di nessuno e nemmeno di Cesare, ché poi conta poco l’apologia, perché quando tu sai già in antecedenza che la predica finirà in gloria, tu non stai più attento; e, se puoi, te ne vai.

Io non faccio la guerra perché mi sono messo in mente di andare in paradiso con le mani nette. Io non gioco a poker, e perciò non bluffo; ma se giocassi, blufferei: e Cesare ha fatto benissimo a truccare il suo esercito agli occhi di Ariovisto, e anche a fare la magna caedes.

E come è che Cesare verso i francesi non fu crudele? Perché sentiva che essi si sarebbero avvicinati a Roma, e i germani si sarebbero avventati contro Roma, così che dopo quell’annegamento e quell’uccisione, passò lui il Reno sopra il suo ponte per andare lui in Germania e guardar negli occhi di quelle genti. Cesare vedeva lo spettro di Ariovisto. Esso infatti risorse, sessantasette anni più tardi col nome di Arminio, vindex germani nominis Arminius; e Augusto nella reggia di Roma piangeva: Vare, Vare, redde legiones meas!

Quei germani buttati nel Reno furono nel numero di 430 mila, e questa cifra ci è fornita da Cesare stesso, sempre per quella passione delle statistiche.

Quando arrivò a Roma notizia di tanto esterminio, Marco Porcio Catone protestò in senato, e strepitava che per punizione si doveva consegnare Cesare in mano a Ariovisto che Catone credeva ancor vivo.

Ma caro Marco Porcio Catone, lei qui ha torto. Io ammiro la maniera della sua morte, come l’ammirò lo stesso Cesare; e le ultime parole di lei sono fra le più romane che mai siano state proferite: «la causa vincitrice piacque agli Dei, la causa vinta piace a me, Catone». Ma lei credeva di vivere al tempo del virtuoso Fabrizio? Cosa voleva più moralizzare, caro Catone? la famiglia? il parlamento? il senato? la gioventù? la stampa? le signore? Mandare in esilio gli scrittori un po’ libertini?

Palliativi rispettabilissimi, espedienti mucilagginosi, a cui ricorse anche Augusto quando affidò l’ufficio stampa a grandi poeti. Ci volevano cure di altra natura, e Cesare ben lo aveva capito. Si accontenti, caro Catone, del monumento che le ha elevato Dante nel suo Purgatorio.

Lei ha inspirato a Dante due versi che quasi valgono il canto imperiale dell’aquila: «libertà vo cercando che è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta»; ma qui siamo in tema di religione, di catarsi, di purificazione, di visioni trasfigurate, fuori dell’umanità, ché tale è l’ufficio delle eccelse Muse.

Io non sono un entusiasta di Catone: in vita era una mente ristretta, era un uomo gretto. Ma insomma era un uomo che quello che era nero era nero, e quello che era bianco era bianco. Era di quelle anime che fecero il bagno nella fontana gelida dello stoicismo. Probabilmente era una fantasia quando proclamarono: «soltanto quello che è onesto è utile»; ma si temprarono e diventarono d’acciaio per filosofia come prima erano stati d’acciaio per istinto. E quando si trovarono circondati senza scampo, fecero come lo scorpione: si uccisero. Anzi non si uccisero da sé, non fecero arakiri: ne avrebbe sofferto la loro dignità. Dissero al servo: «colpisci con la spada», oppure: « taglia le vene, e fa andar libera la mia virtù».

Questa è grandezza, non è suicidio: questa è morte gloriosa! Di questi romani, forniti di una potenza illimitata di sacrificio, te ne potrei far venire avanti una legione: la legione immortale della vera aristocrazia.

Sai, e non te lo nascondo, dove il contegno di Cesare mi lascia titubante? È verso Vercingetorix.

Vercingetorix è un giovane, un nobile francese che preparò la suprema riscossa di tutta la sua patria, per la libertà da Roma. Cesare parla con rispetto di questo nemico; riconosce la sua intelligenza di organizzatore e di guerriero, ma è implacabile!

Voi eravate attorno a Cesare quando Vercingetorix gettò con superbo disdegno la spada gallica ai piedi di lui; pro tribunali; Vercingetorix si arrende, Vereingetorix deditur. Voi, X legio, eravate su la via del Campidoglio al grido di: Io, triumphe!, e Vercingetorix seguiva incatenato.

E dopo?

Non posso nascondere un brivido d’orrore. Capisco la politica perché non la capisco. Forse il demonio! Anche nel cuore di Cesare il demonio veniva a far visite.

Ti prego: eleviamo il calice anche ai mani di Vercingetorix.

 

*

 

Il vecchio guardava contro il cielo il bellissimo vino; poi diceva: – È stranissimo! Tutto è trasparente come questo vino: tutto è senza tempo: io sento le arpe piangenti ai salici di Babilonia e le trombe che squillano la diana del futuro.

Quella spada infranta ai piedi di Cesare rinacque dopo molti secoli, e si chiamò Durendal, e Vercingetorix risorse in Francia, e si chiamò Roland.

Invano dopo Cesare visse Germanico: la Selva Nera precipitò con gli Svevi, coi Cheruschi, coi Goti: i cento pagi diventarono mille: la romba dei cavalli selvaggi di Ariovisto non gira più attorno al campo di Cesare: scende in Italia e gira attorno a Roma. Altri barbari vomita la Selva Nera, e la landa sarmatica: hanno invaso la Francia romana, la Spagna romana: ora è la corsa disperata contro il Campidoglio: continua per cinque, per sei secoli.

Tutte le statue d’oro di Roma sono crollate fra tanto. Che appare in fine? Tu vedi un cavaliere tremendo. E prima si vede una nube tenebrosa; lampeggia: le messi ondeggiano d’orrore, i fiumi vanno a flagellare le mura delle città. Una luce più spaventosa di ogni notte prende figura di uomo: coperta è la testa di un elmo di ferro, di ferro è la corazza: minacciosa è la sua destra.

Ma che cosa avvenne, figlio mio?

Quel guerriero arrivato a Roma, a Roma si è inchinato. Suonano le campane del santo Natale. Quel guerriero depone la corazza di ferro e veste la clamide romana; calzò i calzari romani, e imparò l’abbaco, onorò gli studi, e calcolò le stelle. Posò con delicatezza la spada su le bilance della Giustizia.

Costui è Carlo Magno, il magno imperatore. Egli è nato germano, e poi è rinato francese; ecco è fatto romano. Riprende la spada, il pensiero, il nome di Cesare; e questa è la vittoria di Cesare, che vola attraverso le età.


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