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IN quel punto un uomo, pauroso in vista per le irsute ciglia, saliva le scale, apparve e domandò compermesso.
Un altro uomo pur di lugubre vista, con un cappello duro di vecchia forma, con due scarpe senza tacchi e un robone nero lo seguiva, e si fermò di fuori sul ballatoio come per guardia.
Quello che entrò era un usciere, e veniva per reclamare un certo pagamento di tasse per esercizio professionale, non mai pagate.
Presentava un foglietto.
Il professore ammutolì, e rimase con la bocca aperta. Poi disse:
– Già, di questi foglietti ne ho trovati altri sotto la porta.
E rivolto all’usciere parlò dolcemente:
– Il primo dovere del buon cittadino è di pagare i tributi, tasse o imposte, benché la definizione fra tasse e imposte non sia cosa facile. E ciò sino dai tempi di Ciro, gran re dei persiani, dove il messo annunciatore, come tu sei, era grecamente chiamato ànghelos, da cui poi venne «angelo»; e di lì pare derivata altresí la parola «angheria». E siccome correva le parasanghe a cavallo per portare i foglietti, così era chiamato, come è chiamato ancora, «cursore».
Erano questi cursori uomini di speciale allevamento, non facili alla commozione, e facevano bene ad essere tali, perché altrimenti poca pecunia avrebbero portato nel fisco. Il fisco, fiscus, vuol dire la borsa o ventre dei re. Esso con le sue glandolette lubrifica il corpo della società. Non sta a noi giudicare come avvenga questa lubrificazione: noi possiamo augurare che avvenga con misura e giustizia. Il nostro dovere è ubbidire: solve, e, caso mai, rèpete. E noi siamo qui per questo. Oh, figlio caro, (e parlava a quell’uomo e non a Ambrogino) io ben ti soddisferei della pecunia che tu mi richiedi, ma lo vedi: io mi trovo presentemente in disagio. Io vivo come Amiclate, il pescatore, in compagnia della Povertà. E Cesare che fu pure creatore di molte leggi, quando si trovò su la riva del mare, ospite nella capanna di Amiclate e vide la sua povertà, gli fu cortese; e esonerò da ogni tributo, imposta o balzello, i poveri pescatori.
Ricorda queste cose a colui che qui ti manda, e prègalo che faccia con me come fece Cesare con Amiclate.
*
Mentre così il professore parlava, quell’uomo lo veniva guardando dalle folte ciglia per capire che lingua mai fosse quella che così parlava: poi si insospettì, e gli parve esser preso in burletta.
Disse che veniva per il sequestro.
Il professore si incantò ancora, poi disse:
– Sequestrum? Antica parola del verbo sequi, che vuol dire «seguire», e il sequestro segue in verità colui che non paga, che è morosus. Ciò è nel diritto romano.
Non te lo nascondo che questa cosa mi dispiace molto, e conturba. Ma dimmi, o meraviglioso, che cosa vuoi tu qui sequestrare?
L’usciere avanzò: guardava i mobili, il lettuccio, i libri.
– Cerchi il tesoro? Non lo troverai. Vuoi i libri? Bada che non è roba marocca: non sono morticini con la copertina sgargiante, che più ne stampi con le rotative e meno hanno valore: sono libri di pregio, di quelli che duravano per generazioni: si incidevano lentamente con lo stilo, ovvero con penna di cigno, volgarmente detta di oca. Spezzato è lo stilo; spuntata è la penna del cigno.
Ebbene: se non puoi fare a meno, prendi tutti questi libri: io te li abbandono senza grande rimpianto. Essi, ahimè! sono passati nella mia testa, e questa non la puoi sequestrare: e se la tagliassi che ti gioverebbe? Dentro c’è vile materia. Ma non leggerli mica questi libri. Ti faranno male alla testa.
*
Allora l’uomo cominciò a fissare quei suoi occhiacci sopra la spinetta.
Il professore vide e disse:
– È una spinetta veneziana che fa: ci, ci. Guarda che bei ricamini di fiorellini: è una eredità di mio bisnonno patriarca: guàrdala, ma non me la toccare.
L’uomo invece, senza far motto, tirò fuori un taccuino, e con la punta di un lapis spuntato faceva i suoi conti. Poi fece cenno al collega che stava di fuori perché giudicasse. Parvero accordarsi, approvare…
Il professore si riscosse dal suo vaneggiamento.
– Oh, anime di gelo –, esclamò, – le stelle vi vedono e vi faran di gelo. Basta che una stella lo voglia, e il vostro mondo superbo diventerà di gelo. Ma che cosa credi? che quella spinetta sia il tesoro di Cesare? Cesare pure, dopo che passò il Rubicone e arrivò a Roma, andò nel tempio di Nettuno per sequestrare il tesoro. Erano 4135 libre d’oro e 900.000 libre d’argento, che allora valeva assai. Oh, non per sé e meno ancora per questi poveri ragazzi della X legio occorreva l’oro! e nemmeno, a quel che pare, per Labieno. Labieno si era già molto arricchito e diceva: «basta di guerre. Anche le civilia bella»?, e voleva godere in pace il suo oro, come Massena, come Ney. Morì poi in Spagna il valoroso Labieno alla battaglia di Munda combattendo contro Cesare, e fu tradimento; ma Cesare ordinò per lui splendidi funerali.
L’oro occorreva a Cesare per saziare molti insaziabili: c’erano molte cambiali degli altri amici in sofferenza alle banche: non alla banca di Crasso, perché lui, da buon romano, era morto in guerra, banchiere e guerriero! E poi e poi! Soldi non bastano mai a chi trova che le pernici non sono buone se non vengono dall’Africa, e le ostriche devono essere del lago Lucrino, e i profumi devono venire dall’Oriente, e gli appartamenti devono essere di marmo, e i mobili rinnovati con nuovi stili, e i servi non bastano mai. Soldi non bastano mai; e si fa la guerra per Ariovisto e anche per i soldi, come fece Napoleone quando lo mandarono in Italia a mutare gli assegnati che in Francia non valevano una cicca, nella ricchezza d’Italia: perché, come diceva re Alboino, «ricca è l’Italia, ma ricca assai: chiedi ed avrai».
Se ne son dette tante a proposito di quel sequestro che fece Giulio Cesare.
Leggi Dione Cassio, leggi Floro, leggi Appiano, leggi Plutarco; e arriva sino a Teodoro Mommsen, un tedesco, come tanti altri della sua razza, preso da ambivalenza fra ammirazione e avversione per Roma: il quale dice che «la libera Roma rimase scossa quando vide, per la prima volta, la porta del tesoro pubblico, aerarium sanctum, forzata dai soldati di Cesare».
A guardia del tesoro c’era un cassiere d’onore; un giovane tribuno di nome Metello che si oppose a Cesare. Cesare gli disse: «il tempo delle armi non è il tempo delle leggi. Se a te dispiace veder portar via il tesoro, vàttene di qua». E poi disse ancora: «Quando sarà finita questa guerra e io avrò deposto le armi, tu, se credi, ritornerai e nessuno ti vieterà la libertà di parlare come tribuno. Pensa ora che in questo momento tu sei mio prigioniero e con te sono prigionieri tutti quelli che io ho presi, nemici di Cesare. Dammi, dunque, le chiavi del tesoro».
Metello rispose che mai avrebbe dato le chiavi.
Cesare, allora, muove verso le porte del tesoro.
Metello si fa avanti alle porte, e Cesare fa venire i fabbri ferrai perché abbattano le porte.
Metello, a braccia aperte contro le porte, si oppone con la vita e Cesare ode nei presenti un mormorio di ammirazione. Cesare è turbato.
Allora fremendo Cesare lo minacciò di morte, poi lentamente disse: «Ragazzo, non sai tu che mi è più difficile proferire contro di te la sentenza di morte che non eseguirla?».
Allora Metello, impaurito, vide la grandezza di Cesare, e fuggì.
Da ciò appare che Cesare, anche quando era nervoso, era generoso, e tu mi vuoi portar via questa spinetta? Che te ne fai? Sei tu musico cantore? Credi: si vive bene anche senz’oro come conobbe l’onniveggente Cesare se è vero che quando vide la povertà di Amiclate, esclamò: «oh, dolcezza di una povera vita e di un modesto focolare! oh, doni degli Dei, non ancora compresi dai mortali!».
E Amiclate gli disse: «Cesare, Cesare! Fermati qui con me, camperai novant’anni come il mio vecchio genitore. Perché vuoi parlare agli uomini? Parla ai pesci come fece San Francesco, ed essi ti ascolteranno con più innocenza».
Ma le trombe di guerra di là dal mare squillavano forte come sirene fatali: chiamavano: Cesare, Cesare!
E Alessandro? Non rispettò la bigoncia di Diogene? Alessandro di Macedonia pur essendo giovane e furente come il suo antenato Achille, quando arrivò in Beozia rispettò anche la casa del poeta Pindaro. Anch’io sono poeta! Ho la testa piena di vento.
E seduto alla spinetta cominciò a canticchiare:
Da un navicel, dall’amo e dalle nasse,
Scarsi alimenti ma sinceri e queti
Per novant’anni Egialeo ritrasse.
Libertà fu sua gioia, or qui si giace:
E ai figli suoi lasciò l’amo, le reti,
L’onde amiche e la sua libera pace.
– Ehi badi, signore, esclamava, – che se i versi non sono miei, la musica è di mia composizione:
Ma dove se n’è andato quel messo di sventura, mantis cakòn?
– È tanto tempo che è scappato giù per le scale –, rispose Ambrogino.
Ma partiti che furono quei due uomini, il vecchio cominciò a paventare non venissero con forza, coi soldati, come Cesare, a portargli via quel suo tesoro. E diceva a Ambrogino:
– Io ho detto che la spinetta è l’eredità di mio bisnonno patriarca: ci sonava mia madre.
*
E, i dì seguenti, domandandogli Ambrogino dello sbarco in Inghilterra della X legione, rispondeva che non ne aveva più voglia, e pareva fissato verso una preoccupazione, ma non diceva niente. Solamente un giorno disse:
– A me mi ha rovinato quella là.
Indicava il cartello su la porta.
Mi ha rovinato la grammatica. Tu, asinus, nescis vivere! Bada che parlo di me.