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CHE cosa fece allora Ambrogino, ragazzo di buon cuore? Impegnò la sua motocicletta, e la prima idea fu di andare a pagare per il professore senza fargli capir niente, si intende: ma poi quando ebbe quei soldi in mano, gli dispiacque fargli cambiar padrone, e si ricordò di quello che diceva sua madre: che a pagare c’è sempre tempo. E tornò indietro; e pensò di parlare con qualcuno di quelli che stanno in alto, per vedere se la si poteva rimediare. Si vestì bene da milite fascista, si diede la brillantina in testa, si calcò il berretto un po’ di traverso; si guardò, si compiacque. Vide nello specchio un’aria guappa che andava bene, e poi si avviò verso quegli uffici.
Era un grande palazzo con tanti uscieri, e tutti quei corridoi con tante porte, e tanta gente che saliva, che scendeva, che aspettava, che domandava.
Quello stanzino lassù dal professore, coi canarini, coi libri, la spinetta, l’erba cedrina, le poesie, scompariva lontano, come un altro mondo.
Finalmente gli fu indicata una porta, e dal di dentro venne una voce che disse: – Avanti.
Si trovò in una grande stanza, tutta allineata nelle pareti con reggimenti di libroni tutti eguali in parata cenerina.
Un signore stava seduto allo scrittoio, nascosto dietro una catasta di carte, e stava con la testa chinata sopra quelle carte.
– Non si potrebbe mica darci un taglio, qui? – disse con voce risoluta Ambrogino, facendo scivolare la sua carta sopra quelle carte.
Allora quel signore alzò la testa per vedere chi parlava così.
Vide Ambrogino dritto, con la palma della mano dritta, che salutava.
Salutò anche lui così.
Era un vecchio signore magro, lungo, lungo, vestito di nero, con gli occhiali d’oro su la punta d’un lungo naso, con una barbetta grigia in punta e certe mani strane, lunghe, bianche come tentacoli.
– Veda un po’ se me la può accomodare, – ripeté Ambrogino.
Il signore guardò con meraviglia il giovane, la carta, e quelle ingenue e un po’ impertinenti parole; le labbra si agitarono, si quetarono, poi domandò segnando con l’indice quella carta.
– È un suo parente qui, l’interessato?
– L’è il mio zio.
Quel signore levò il mento in quell’indefinibile moto che esprime l’ignoto e insieme l’indifferenza. Si alzò senza fare altro motto e andò a cercare in quella fila di libroni. Essi non si aprivano come quelli del professore: si tirava una fettuccia, si alzava un coperchio e dentro c’erano tante carte.
Quel signore con quelle gambe lunghe si moveva per quei ripiani di quelli scatoloni come un ragno in casa sua.
Ora mentre colui cercava, l’occhio di Ambrogino scorrendo sopra lo scrittoio, vide un ritrattino che stava dietro il vetro in una cornicetta nera.
Rappresentava un milite come lui.
– Ecco trovato, – disse quel signore rimettendosi a sedere, e teneva un incartamento in mano. Guardò.
– Proprio lui: professore di belle lettere, abitante via tale, numero tale, piano tale.
– Signor sì –, disse Ambrogino –, professore, ma l’è un povero diavolo.
Quel signore sorrise: un sorrisetto un po’ acido, un po’ di compatimento; allargò le braccia, buttò la testa in dietro come volesse dire: «che ci posso fare?».
E in quel moto che fece indietro con la testa, la barbetta si sollevò, e Ambrogino scoperse su la cravatta uno spillone ovale che ripeteva il ritratto che era su lo scrittoio.
Un pensiero vago che era balenato alla vista del primo ritratto prese consistenza alla vista del secondo ritratto; e quasi nell’attesa che quel pensiero si sviluppasse da sé, Ambrogino cominciò intanto a fare certe girandole con le mani, e l’altro seguiva con l’occhio quelle girandole.
– L’è che l’è matto, – disse infine Ambrogino.
– Oh, povero diavolo, – esclamò quel signore, e corrugò la fronte come chi vuole ricordare.
– In fatti –, disse poi –, l’usciere che ho mandato per il pignoramento mi ha bene riferito qualche cosa del genere.
– Com’è? – disse Ambrogino con voce piena di dignità e quasi offeso per il sospetto. – Vuole che io sia venuto qui per dire cose che sono mica vere?
Prese un tono allegro che era una bellezza e continuò.
– Maria Vergine, se l’è matt, pover veggett!
Se lei, egregio signor ispettore, dovesse starlo a sentire, come sono stato io, le cose che dice, le dice così bene che si finisce col crederci e poi si diventa matti come lui. Già intanto parla un italiano che l’è mica del nostro tempo, e chi lo capisce è bravo. Lui poi si fa le domande e le risposte, e ha sempre ragione lui. Salta di qua e salta di là, come in una partita di futbòl.
Quel signore stava a sentire con una specie di compiacimento. Ambrogino se ne accorse, e continuò:
Quando non ne può più, attacca a parlare in latino. Poi fa il mago sabino con la luna e con le comete, fa le profezie, fa il nostalgico, come si dice; e parla male del progresso perché l’è un andeghee; e noi gli diciamo: «Zio, citto!».
El cognoss pü gnanca i ghei, – esclamò di colpo. –– Non conosce più nemmeno i denari, e non ci dico altro!
Quel signore sorrise, e domandò:
– Beve forse vino? Perché l’usciere mi riferì di aver visto delle bottiglie...
– Mah! – disse Ambrogino. – Se gli càpita, beve anche e ci fa le cantatine su la spinetta. Gli sequestri tutto, ma non gli porti via la spinetta; per l’amor di Dio! E quella che gli calma un po’ il nervoso.
– Ma come fa in queste condizioni a fare il professore? – domandò quel signore. – Sissignore, professore – confermò Ambrogino – e anche istruito, ma l’è deficiente come dicono adesso, tanto è vero che l’hanno mandato via dalle scuole, e per questo dicevo: vediamo se la si può accomodare.
Quel signore strinse le labbra, scosse la testa e disse: – Dura lex, sed lex. Io non ce ne posso.
– Ciao –, rispose Ambrogino. – E non ce ne posso neppur io. «Adesso tutti parlan latino,» disse fra sé, e fu preso da uno scoppio di gaiezza.
Lo deve sentire adesso, il professore, dopo che gli hanno sequestrata la spinetta! Non vede che la guerra, e vuole fare la guerra...
Il sorriso di curiosità disparve dal volto di colui: parve risentirsi come avviene se il medico posa la mano sopra un punto dolente.
Ma sì, la guerra contro la Germania, contro la Francia, contro l’Inghilterra, Bombacè, bombacè! Marcia al rombo del cannon! Lui dice che l’è cristiano; ma l’è un cristiano gramo! Carità ce l’avrà, ma fede e speranza, mica tanta. «Non ti far sentire, zio!» gli diciamo.
– Infelice! E da quanto tempo è così? domandò quel signore.
Ambrogino prese un’aria indifferente, e rispose:
– Da quando gli è morto un figlio in guerra.
*
E Ambrogino non ebbe più bisogno di parlare perché quel signore esclamò «Ah!» e agitava la testa e fece un gesto sconsolato con uno stralunar degli occhi, e guardava Ambrogino, e guardava quel ritratto.
– Un ragazzo come lei –, diceva «Vent’anni! Il suo professore d’italiano, di latino: il primo della classe. «Papà, mamà –, scriveva –, non state in pensiero per me: quando tornerò saremo tutti felici». E non è più tornato. Anche oggi, quando suona il campanello, balziamo su. E non sapere dove è seppellito! L’abbiamo cercato per i cimiteri. Niente! Quelle viole lì (scolorite viole erano dietro il velo del ritratto), le abbiamo colte ad Aquileia, lì fra i cipressi e le tombe di Aquileia...
Passò un’ombra di silenzio, e Ambrogino risentì la parola del professore quando parlava di Attila e di Aquileia.
Poi sentiva passare le parole di quell’uomo lì davanti: nomi strani, quasi come quelli del professore: Monte rosso, Monte nero, le Tofane, San Michele, le foibe, i blokaus, cima 12, le mazze ferrate, gli honwed, l’ermada, i camminamenti, le trincee, il fango, il fango rosso, il gelo.
La voce straziante diceva: – Dove è morto? come è morto? Se ne è accorto? Come non siamo impazziti, io e quella povera donna?
Ogni tanto si passava la mano lunga su la fronte come per buttar via qualcosa di folle che vi si accumulava; e come vinto dalla passione, ripeteva: – Oh, povero il mio bambino, povera la mia creatura!
E questa esclamazione risonava strana in quella stanza burocratica. «Bambino?» Ora sarebbe un uomo; ma per quel padre e per quella madre era sempre bambino.
Ogni volta che l’usciere si affacciava e annunciava gente, il volto di colui ritornava duro, e diceva: – Attendano di fuori.
Quand’ebbe finito si alzò, posò le mani su le spalle d’Ambrogino, lo guardò, lo riguardò.
Gli occhi di colui non erano più quelli di prima.
– Così è! – disse sconsolatamente, non sapendo che dire, e anche lui era un povero diavolo.
– E allora per quel povero diavolo? – domandò Ambrogino.
L’altro parve ricordarsi. Biffò con un lapis turchino quelle carte. Chiamò un impiegato: gli ordinò: – Sospenda!
Disse a Ambrogino: – Gli dica che non si dia pensiero. – E fece un vago cenno con la mano.
L’ultima parola che Ambrogino udì fu: – Scartòffie.
Lo vide riprendere la faccia di prima, e disse alla gente che aspettava: – Avanti a chi tocca.
*
Ambrogino uscì da quelli uffici con passo leggero. Era molto contento: aveva ancora dalla parte del cuore i suoi soldi per riprendersi indietro la sua motocicletta, aveva salvato la spinetta e il professore.
Aveva detto un sacco di bugie, ma poi, camminando, gli parve che levato via l’affare del figlio morto in guerra, le altre non fossero bugie: perché «zio» si dice dei buoni vecchi. Se Ambrogino avesse dovuto fare un compito in iscritto di quello che veniva succedendo nella sua mente, non ci sarebbe riuscito, ma sentiva che nel cielo del suo cervello era avvenuto un mutamento: il cielo non era più quello, e la temperatura era mutata.
Per tante mattine era stato ad ascoltare quelle storie del professore. Ora sentiva distinta una oscillante voce che allora era tanto indistinta che non se ne era accorto. Una voce gli diceva: «è vero», un’altra voce gli diceva: «non è vero».
Quelli uomini fuori di misura raccontati dal professore, ci saranno anche stati se li dànno da studiare nelle scuole, ma non mica esagerati come li faceva vedere lui.
Ambrogino, non avrebbe mai detto che il professore era matto; ma avendolo detto per «machiavellica», ora gli pareva quasi vero. E diceva anche: «se lo hanno mandato via dalle scuole, ci sarà stata la sua brava ragione».
Con la bacchetta magica della parola aveva toccato i lievi fantasmi. Cesare, Cato, Alessandro, Carlo Magno, le aquile, i vessilliferi e anche la sua decima legione si dissolveva come fanno le nubi naviganti per l’azzurro, che appaiono or chimere, or giganti, or vascelli che vanno di conserto. Un insensibile filo di vento lassù li scompone, li sfalda, silenziosamente lassù. E tutto scompare.
Ora per via Ambrogino vedeva passare tutta gente ordinata, tutta bella società, che andavano ai loro lavori, ai loro uffici. Lui in quelli uffici delle tasse non c’era mai stato, ne era vergine come un germano di Tàcito, ma era stato colpito da quell’ordine, da quella precisione con cui ogni uomo si trova segnato li dentro in quelli scatoloni grigi.
– Ambrogino – gli dice un compagno che incontrò –, come l’è che non ti si vede più? Non ti abbiamo visto nemmeno al futbòl!
E lasciamo stare il foot-ball che se ne può anche fare a meno; ma anche a bottega da qualche mattina non andava, e quando andava, era molto distratto e suo padre era impensierito.
Un altro compagno passò, ma non lo salutò perché era assorto con la sua madamina. E lui era in compagnia di un vecchio: in compagnia di fole e follie.
Eppure da quel bravo figliuolo che è, Ambrogino volle subito andare dal professore a portargli la buona notizia, e lo assicurò che la spinetta non gliela avrebbero portata via, e che poteva dormire i suoi sonni tranquilli, perché aveva visto lui tirare un crocione su quelle brutte carte.
– Ci ha dato la benedizione –, diceva.
Il professore gli si appressò e lo baciò sopra una gota e poi sopra l’altra.
– Ma come hai fatto, figlio mio?
– Questo non glielo posso dire. – E raccontò a suo modo, e parlò di quei libroni dove ci sono tutti; tutti in fila, tutti in ordine. – E c’è anche lei, egregio professore.
– E ci sarai anche tu! Tutti! Come nella valle di Giosafatte.
E cominciò a cantarellare:
*
Ambrogino se ne andò pensando che aveva ragione suo babbo, quando diceva: «chi troppo studia matto diventa».