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XXII LA CONQUISTA DELL’INGHILTERRA CON L’AQUILA D’ORO
PERCHÉ non vieni più, Ambrogino? – gli domandò un giorno. – Ti volevo raccontare come la decima legione arrivò in Inghilterra.
E Ambrogino venne, e il professore riprese il suo racconto così:
– L’Inghilterra basta che tu la guardi e capisci subito che è un’isola altera e elegante. Vedi come sta dritta! Le frange della Scozia sembrano chiome nel mare. L’isola d’Irlanda le viene dietro come camerista.
Essa comanda tanto impero per tanti mari, perciò tante squadre galleggiano come la squadra del Mediterraneo, che galleggia nel porto di Melita.
Bene! Quando voi altri, ragazzi, sbarcaste in Inghilterra, essi non conoscevano nemmeno le triremi.
Questo non ti autorizza a credere che l’isola dei Britanni fosse abitata da un popolo incivile perché Cesare vi trovò i campi di grano, un po’ in ritardo di due mesi sui nostri climi, ma la spiga era matura, e anzi Cesare mandò una legione a mietere. E quando tu vedi un campo di grano fa tanto di cappello, come si diceva ai miei tempi: siamo davanti alla civiltà.
Il cervello di quest’impero risiede a Londra, città caliginosa, sul fiume Tàmesis.
Sul fiume Tàmesis arrivano tante navi con le spezie e gli aromi dai paesi del sole.
Quando Cesare vi approdò, rimase sorpreso dei freddi meno intensi, remissioribus frigoribus, benché l’isola fosse rivolta più a nord della Francia. La ragione di questa mitezza del clima è stata scoperta più tardi: c’è un fiume caldo nell’oceano Atlantico, che viene dal sud e abbraccia l’Inghilterra come un termo-sifone, e gli inglesi lo chiamano golfstrim.
Guai, figliuolo, se le stelle sdegnate dicessero: «o anime di gelo, noi vi farem di gelo », e deviassero quel caldo fiume! L’Inghilterra perderebbe ogni orgoglio. Ti dico che anche l’Europa perderebbe il suo orgoglio, e la gioventù non avrebbe più voglia di andare coi toboga e gli sci a far le corse su la neve. Solo la morte farebbe le corse.
Oltre che dalla corrente del golfo, l’Inghilterra fu riscaldata dalla fiamma di Roma, che Cesare vi portò.
I fari della civiltà si accendono. L’uno dall’altro si accende senza invidia e senza riguardo di tempi e di spazi. Ma che ti valgono i fari di Gerosolima, di Atene, di Roma, di Parigi se l’anima hai arida senza lucignolo?
E così gli inglesi poi fermarono su grande carta i diritti della dignità umana ed ebbero alti poeti fra cui uno che aveva la mente come un dio. Egli segnò nei suoi drammi il passaggio degli eroi: non poteva quindi dimenticare Cesare, e lo fece parlare umanamente e non vestito di travertino, come hanno fatto certi poeti quando mettono in scena i romani.
E poi hanno creato il vestito moderno dell’uomo, che essi chiamano fashion: perciò gli inglesi sono gli uomini meglio vestiti del mondo.
Hanno creato gli abiti razionali, e per quando piove, e per quando è mattino, e quando è sera; e quando fumano; e quando corrono a cavallo; e quando giocano alle palle; e quando fanno la guerra! Sai quale importanza ha l’abito. Un bottone di più, un bottone di meno, un becco più lungo, un becco più corto al soprabito, un risvolto che c’è o che non c’è, ti può far figurare o sfigurare quando andrai nella gran società. Se non sei a posto con il vestito, sarai «messo per coda di tavola», come accadde a Dante, quando andò alla corte di re Ruberto di Napoli perché «entrò in corte vestito assai dozzinalmente come soleano fare i poeti». Perciò se non vuoi esser messo a coda di tavola, va da un sarto, che non sia un ciabattino della sartoria, un sartus resartus, ma un nobile sarto.
Lì troverai i figurini inglesi, tutti gentiluomini allungati, sbarbati, sorridenti gelidamente. Nel secolo dell’ottocento portavano una collana di barba puritana. La loro regina si chiamava Vittoria. Veniva spesso a Firenze e non si peritava di andare a spasso in carrozzino, tirato da due asinelli. È che Firenze, la patria di Dante, era per quella graziosa regina come un luogo di villeggiatura.
Poi hanno creato il comfort e lo hanno insegnato a tutto il mondo. Quanti colpi spara la tua mitragliatrice? Te lo domando perché ogni comfort è un’ingegnosità come la macchinetta che tu tiri fuori ogni tanto per accendere la sigaretta. Il comfort cammina sempre: sa dove principia e non sa dove finisce. Ma chi sa il gioco non l’insegni! Senti questa storia: un ammiraglio di razza gialla aspettò un ammiraglio di razza bianca che aveva una gran flotta. Ventinove corazzate andarono in fondo al mare e dopo andò in fondo al mare il trono degli zar. Ebbene! Quell’ammiraglio giallo non aveva fatto altro che applicare gli insegnamenti dell’ammiraglio bianco: era stato suo scolaro!
– E Cesare, allora, che insegnò la civiltà ai barbari?
E il professore rispose: – A stare con me, tu diventi intelligente. La differenza sta qui: che Cesare volle insegnare i grandi sentimenti e non la meccanica. Per questa cosa è inutile scomodare Cesare.
*
Quando Cesare vide gli inglesi, essi erano tutti turchini, anche la faccia.
Anche le loro donne erano turchine; non perché ci fossero stoffe turchine, c’era soltanto la tinta turchina ricavata dall’erba guada che Cesare chiama glastro. Gli uomini si tingevano per far più paura, per diventare più orridi, horridiores, e le donne per parere più belle.
Se diamo fede anzi al racconto di Cesare, pare che le signore non portassero altro vestito che quella colorazione, e ciò sorprende per dame che dovevano diventare tanto scrupolose che non toccano nemmeno certe parole.
Dovevano però essere molto buone perché gli uomini ne sposavano parecchie. Cesare arriva sino al numero di dodici mogli! I figli erano di quello che per primo era entrato in casa.
Perché Cesare andò in Inghilterra? Egli dice che voleva conoscere come era fatta quest’isola, per quanto spazio si estendesse, quali ne fossero gli abitatori; e voi eravate con lui. Come doveva esser bello in vostra giovinezza seguir Cesare per tante avventure! Se foste scampati ai perigli della guerra, Cesare vi regalava un campicello: voi squadravate la terra come già squadraste l’accampamento, piantavate la vite e l’olivo, sonavate la piva pastorale lungo le rive del Mincio rimembrando Ariovisto, Vercingetorix, la Francia armoricana, l’isola dei Britanni, che apparve tra le brume del nord.
L’isola dei Britanni era allora chiamata «l’isola divisa da tutto il giro delle terre», tanto appariva lontana.
«Giro delle terre» era chiamato il mondo, ma non erano certi che il mondo fosse tondo. E più «mille passi» facevano, più parasanghe avanzavano, più pareva andare lontani.
Oggi più vai avanti e più ti avvicini al punto da cui sei partito; e perciò il mondo pare piccolino, ed è tutto conosciuto. Questa è la ragione per cui gli uomini girano come frecce con le loro macchine volanti attorno al «giro delle terre»; oppure fanno salti con certi loro razzi e palloni per vedere se si sta meglio, anche se non c’è aria per respirare.
Ci sono stati i viaggi di Dante alla scoperta di Dio; ma quello è stato un viaggio spiritale medievale, quando non c’erano le nostre macchine. Ora che abbiamo le macchine, noi siamo diventati Iddii, e vogliamo creare l’uomo macchina; anzi ci domandiamo: «a quale grado siamo arrivati nella creazione dell’uomo macchina?».
E in questo nuovo entusiasmo si potrebbe osservare che più andiamo avanti con le parasanghe e con i mille passi del progresso, e più torniamo al punto di partenza, quando gli uomini costruivano i loro idoli.
*
Cesare è il primo romano che sentì il nord per la salute dell’impero, e là rivolse le prore delle triremi.
Ma prima di salpare, aveva mandato a dire al re d’Inghilterra che sarebbe venuto a fargli una visita.
Quel re si chiamava Cassiovelauno, o almeno Cesare prende quel suono e ne fa un nome latino. Doveva essere un re gentile, perché rispose: «ben volentieri».
Cesare salpò dalla Francia per la Britannia con mare calmo e per un bel lume di luna, nella notte tra il 24 e 25 agosto dell’anno 54.
Aveva ottanta navi da trasporto, appunto per trasportare due legioni, ottomila fanti, dunque cento uomini per ogni nave: poi altre diciotto navi che trasportavano la cavalleria. Questa flotta era stata costruita negli arzaná dei francesi che abitavano le rive dell’oceano ed erano buoni conoscitori delle cose del mare, ma il disegno era di Cesare. Il genio italiano riusciva bene in tutti i mestieri prima della servitù per burocrazia. Cesare, capitano di terra e capitano di mare, andò avanti con le triremi.
Le triremi erano le navi da guerra dell’antichità classica, erano sottili ed erano armate con uno sperone di bronzo, proteso a prora, a fior d’acqua, per cozzare contro le navi nemiche. Andavano a vela latina, e questo nome proviene dall’antichissima sua origine mediterranea. Erano vele triangolari che si allacciavano per i loro lati prodieri a lunghe antenne; una per albero, senz’altra vela in aggiunta. Nelle battaglie queste navi saettavano snelle su le onde, come delfini, per forza di remi: tre ordini di remi esse avevano per ogni lato, e perciò erano dette triremi. I remi uscivano da apposite aperture nei fianchi della nave. Tre ordini di remi disposti per tal lunghezza che le pale degli ordini soprastanti non si impigliassero con i remi sottostanti. Il numero dei vogatori per ciascun remo dipendeva dalla lunghezza del remo: i vogatori stavano seduti e anche incatenati sui sedili perché erano galeotti; e quando la sferza del còmito, agitata sopra la schiena nuda di quei feroci infelici, incitava alla gran voga, dentro bordo doveva parere un inferno; ma fuori sul mare la trireme alata doveva fare un bellissimo vedere.
– Le ha viste lei? – domandò Ambrogino.
– Io ho visto tutto – rispose il professore.
E continuò:
Il porto di Francia da cui la flotta salpò, si chiama oggi Boulogne-sur-mer, dove anche Napoleone attese – ah, invano! – il tempo propizio per salpare contro «l’Anglia avara» come allora si diceva.
L’ora di salpare non venne per Napoleone; e allora un suo giovane ufficiale italiano che si chiamava Ugo Foscolo, ingannò il tempo a Boulogne-sur-mer, traducendo un libro inglese, « il Viaggio Sentimentale».
Quel freddo popolo inglese, fra le sue meraviglie, possiede anche quella di essere anche sentimentale.
E facendo una mescolanza di quella freddezza e di certe loro paturne col sentimento, hanno creato una loro specialità e l’hanno chiamata con nome latino benché non sia cosa latina, cioè «umorismo» che vuol dire quasi «umidità». In fatti c’entra un po’ l’umidità delle lagrime, ma queste non si devono vedere.
Vi sono, sì è vero, di quelli che passano per umoristi, perché si mettono a ridere, ma sono saltimbanchi. Del resto, paese che vai, umorismo che trovi.
Un pizzico di ipocrisia fa conto che sia la senape: condisce l’umorismo. E gli inglesi sono famosi come fabbricatori di salse. Mettono salse piccanti sui loro cibi insipidi, e sono puritani anche quando sono libertini.
Ma io mi meraviglio di me stesso. Che sto io parlando a te di queste cose aristocratiche?
*
Cesare veleggiava avanti con le belle triremi per un buon vento quando vide elevarsi davanti a sé una scogliera. Erano circa le dieci del mattino e la terra che vedeva è dove oggi è Douvres.
Niente spiaggia: la scogliera montava dal mare. I francesi la chiamano falaise; e il generale Cicerone che era con la spedizione, ne dà notizie al fratello oratore, dicendo che la Britannia è difesa da mirificis molibus, come dire da muraglioni meravigliosi.
«Qui non è facile, sbarcare», disse, Cesare, e fece buttar l’ancora alle triremi e aspettò l’arrivo delle ottanta navi onerarie.
Intanto guarda in su, e vedeva che la scogliera non era deserta. Si vedevan trascorrere criniere di cavalli, si udivan nitriti, grida di genti, stridore di carri: erano carri aggiogati a impetuosi cavalli, e sopra i carri stavano i guerrieri.
Che cosa era successo? Avevano dato l’allarme a Cassovelauno che dalla parte di Francia si vedevano arrivare tante navi.
«Con tanta gente? Allora non più volentieri» disse quel re; e si vestì di turchino, e ordinò di aggiogare i cavalli e ai suoi guerrieri di vestirsi di turchino.
Cesare attese molto tempo finché apparvero le ottanta navi. Erano le ore quattro dopo mezzodì.
Fece i segnali di proseguire, perché lì era impossibile prendere terra, e avanzò per sette miglia. E avanzando Cesare per mare, tutta quella gente lo seguiva per terra lassù.
Apparve in fine un po’ di spiaggia, e Cesare decide lo sbarco che ormai calava la sera.
«In terra –, dice Cesare –, chi comanda è l’imperàtor, ma in mare chi comanda è il vento, la marea, la luna.»
S’accorgono appena i britanni dell’intenzione di Cesare, e cavalli e carri e guerrieri precipitano giù meravigliosamente per la scogliera sino ad entrare in mare. Scagliano dardi contro le navi.
I romani ora li vedono da presso quei guerrieri: sono simili a spettri. Mani, faccia, sono tutti verde-celeste.
Che dirai tu, Ambrogino, quando udirai che Cesare stesso confessa che i romani sono «atterriti», perterriti?
Ma per il sangue di tutti i morti, non sarà atterrita la decima legione! E con tutta probabilità erano milanesi in marcia. Ma o milanesi, o traspadani, o sanniti, o lucani, o umbri, erano tutti figli di questa Italia genitrice di tanti figli. Voi altri di qua dal Po eravate di più alta persona e di più chiara faccia, quelli altri erano olivastri e di più breve statura. Quando i romani levavano i fanti, per formar le legioni, essi dovevano essere di vive pupille, testa dritta, petto largo, ventre magro, gambe sottili, forti dita, e muscolose spalle. Ma senti come è più bello se te lo ripeto in latino: sit adulescens vigilantibus oculis, recta cervice, lato pectore, ventre modicus, exilior cruribus, fortibus digitis, torosis humeris.
Ti guardi nello specchio? ti pare di essere te?
Belli dunque e coraggiosi. E la bellezza crea l’aureola dell’immortalità.
Cesare vi chiamò compagni d’arme, commilitones, non «materiale umano», non «proiettili umani», non «rendita di centomila uomini».
Queste sono espressioni della nostra materiale razionalità. Voi in morte eravate ritenuti buone divinità, anche se poveri fanti – voi in vita eravate sotto la protezione di quella Madonna che si chiamava Vesta, ed era la luminosa dea del focolare.
Anch’io, benché non bello, mi sento milite di una misteriosa legione.
E l’aquila d’oro non era soltanto vessillo di conquista.
Le vuoi vedere le aquile d’oro? Passa l’imperatore: «d’intorno a lui parea calcato a pieno di cavalieri e l’aquile dell’oro sopr’esso in vista al vento si movièno». E una vedovella si fa davanti all’imperatore e domanda giustizia per il figliolo che a torto era stato ucciso; e le aquile si fermarono per fare giustizia.
Dunque l’aquila è segno di giustizia. Allora è il sacrosanto segno. E quando l’aquila tramontò, sorse quell’altro segno, e questo fu la croce, e Dante fece dell’aquila e della croce un unico segno.
Il mondo ti dirà che queste son fole, e tu làscialo ben dire.
Erano esitanti i legionari nel discendere, haesitantibus nostris, quando Cesare comandò una manovra alle triremi. E i britanni videro le triremi sollevate dai remi, volare. Per meraviglia sostarono; furono grandemente turbati, come Ariovisto quando scoperse un esercito che prima non c’era; e in questo Cesare eseguiva la grande tattica romana che dice: «parte della vittoria consiste nel turbare il nemico prima che tu dia battaglia».
Allora fu udita una chiara voce, una gran voce che dice: «Soldati della decima legione, io vado a consegnare la bandiera ai nemici. Se non volete questa infamia, scendete in mare con me».
Era il porta-bandiera della decima legione, e si buttò in mare con l’aquila, e tutta la decima legione balzò in mare. Fieramente, acriter, si combatté e Cesare approdò in Britannia.
C’è una leggenda che dice –, e la racconta l’imperatore Giuliano –, che non fu il portabandiera, ma fu Cesare stesso che innalzò l’aquila, e per primo si buttò in mare.
*
Ora Cesare era in Britannia da pochi giorni, quando arrivò il corriere con le lettere da Roma. Le lettere dicevano a Cesare: «Tua madre è morta, tua figlia è morta».
Ma questo particolare lo cercherai invano nei Commentari.
Certamente non si può essere Cesare e avere la nostra sensibilità. Lettere però di Cicerone farebbero credere che Cesare non fosse insensibile, perché Cicerone dice che «Cesare sta in grande afflizione, e le parole di lui sono così amabili, così commoventi che aumentano la simpatia per il suo dolore».
Se così è, potresti credere in quella grandezza di Cesare, per cui egli si chiude nel pudore del suo dolore, come dentro la toga, quando morì.
Altri imperatori seguirono poi Cesare in Inghilterra, e la fortificarono. Cesare l’aveva fortificata del suo genio per cui l’isola galleggia ancora sui mari.