Alfredo Panzini
Legione decima
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XXIV LA CANZONE DELLA COPPA

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XXIV LA CANZONE DELLA COPPA

E L’ULTIMA volta che parlò, il professore disse così:

– Questa notte, quando tu dormivi, mi è venuta a disturbare la decima lègio, e i britanni turchini, e la selva dei germani, e le legioni dei francesi. Essi sono mobili e son passati al servizio di Cesare. Se i germani sono «invicti» nelle armi, i francesi soltanto dall’ingegno si lasciano vincere. E lascia stare se la Francia aveva bisogno di Cesare per diventare nazione, oppure ne poteva fare a meno; e non mi ripetere le parole di quel Numanziano, il quale chiamò Roma madre e nutrice di tutte le provincie dell’impero.

Un amabile popolo quello di Francia: che arriva a sorridere dei propri pennacchi; e se anche dice: je regrette quando niente gliene importa, non ci badare. Anche il gallo canta che è mezzanotte, e tu senti l’aurora! Un popolo che ha perfezionato i profumi in questo gran cimitero, è una gran cosa. E quando gli altri popoli ti creano il colossale, ecco lui ti presenta una grazia, una gentilezza, e non ne indovini il segreto.

Fra un’umanità ingrugnita che non ti risponde nemmeno, che non ti sorride, preferisci questa che si bacia per via, che si maschera così bene sì che la maschera diventa realtà.

Dunque io vidi accanto alla legione decima, la legione quinta che era tutta formata di francesi.

Era la legione dell’«allodola»! e l’aveva creata Cesare.

Ah, è commovente Cesare che lascia ai francesi il loro emblema. Sì, il gallo, cantachiaro, anche. L’allegrezza è appropriata al gallo, come la tristezza si assomiglia al corvo; ma il gallo perché è protervo e vuole fare l’astrologo, spesso è castrato. L’allodola, la garrula allodola, era l’emblema antico di Francia, la vigile allodola che è molto gentile, saluta il sole, nell’aria si spazia ed è come il cardellino che il veleno ai figliuoli ingabbiati: prima morire che perdere libertà. La alauda cristata, l’allodola col pennacchio.

Ammirò Ambrogino quella conoscenza degli animali.

Capirai, ho fatto scuola per tanti anni; e fra gli animali, evita il troppo virtuoso asino: le sue molte fatiche gli saranno rimunerate di fame, di sete, di mazzate, di disagi, di punture.

 

*

 

Sai che cosa facevano quelle legioni?

Guardavano i loro re. Erano presso le chiare verdi onde del Rodano al confluente della Durenza, e si vedeva il mare. Battelli a vapore non c’erano a turbare il sereno delle acque del fiume.

C’era Cesare, c’era Ariovisto, c’era Vercingetorix, c’era Cassiovellaunus.

Vercingetorix era alto, e di nobile aspetto: stava presso Cesare. Portava certe impronte al collo: la mano del carnefice che lo aveva strangolato nel carcere.

Pure diceva a Cesare: sans rancune.

Cesare allora aperse la toga e mostrò a Vercingetorix le ventitré pugnalate che aveva ricevuto in senato.

Ariovisto si era tolto quell’elmo, ed era una nobile testa come il Barbarossa. Era tutto piagato.

Il re dei Britanni si era ripulito di quel colore d’indaco ed appariva un bel signore biondissimo.

Avessi tu visto come era ben vestito il giovine re d’Inghilterra! Otto paggi gli sostengono il manto e dicono in latino: vivat rex magnae Britanniae et Hiberniae. Ha l’anello nel dito anulare, sostiene lo scettro con la colomba che è simbolo della misericordia. Ha promesso di fare ogni sforzo per assicurare il trionfo della giustizia in tutte le sue dominazioni.

 

*

 

Fu portata una grande coppa, e bisogna che io te la descriva: essa era di oro che è la sostanza solare che non soffre oltraggio: questa coppa era inghirlandata da un fregio che diceva così: diligite iustitiam vos qui iudicatis terram, «amate la giustizia, o voi che siete i re del mondo! »

Queste parole le scrisse un sapientissimo re dell’oriente, il cui nome fu Sàlomon, figlio di David, poeta e re, e di Betsabea. Ma bada: dice diligite iustitiam che vuol dire amate la giustizia: non dice: «fate la giustizia».

E già molto avere una certa buona disposizione verso la giustizia!

Questa coppa era colma di spumeggiante vino. Cesare appresso a pena le labbra, e passò la coppa ad Ariovisto che bevve alla germanica e così la coppa girava. Parevano tutti e quattro senza vanagloria.

Essendo tutti e quattro signori del mondo e grandi politici, io stavo in aspettazione che parlassero di faccende politiche; e, quanto meno, ragionassero del come si governano gli uomini.

Ma non fu così. Si misero a cantare.

Erano i signori dei mondo e cantavano in coro. La voce di Cesare saliva serena e continua. Vercingetorix cantava per scatti orgogliosi come fa cantachiaro. Ariovisto cantava a tempo pur con voce roca; e per fermare il verso, si aiutava col gesto, abbassando la mano con violenza come desse una mazzata. Il re d’Inghilterra si accordava malissimo.

Era un canto di guerra?

Non era un canto di guerra, era un canto lento e insieme concitato: solenne come di chiesa, di cui non capii sul principio quale fosse il linguaggio; ma il ritornello che ricorreva me lo svelò. Diceva quel ritornello:

 

Coupo santo e versanto.

 

Allora compresi che era lingua di Provenza, il gaio fiore che primo apparve del parlar latino.

Era la lingua dei poeti e dei cavalieri quella in cui parlavano i quattro guerrieri. E quel ritornello voleva dire così:

 

Santa coppa

Che trabocca

Di vin puro

E di speranza,

C’è la nostra giovinezza,

C’è la nostra fratellanza,

C’è la fede e c’è l’ebrezza

Della nuova umanità,

Eja, eja, alalà!

 

Bevono la coppa santa i grandi guerrieri, e il Dio Libero li fa tutti buoni.

In quel levare che essi facevano della gran coppa, mi si adombrò il ricordo del rito che io vedevo quando mia madre mi conduceva alla messa del Natale, e si sente spuntare la luna nuova.

Ed ora làsciami che io aspetto quell’altro anghelos, che mi traghetti di dal Rubicone, e speriamo, senza fantasmi. Ma prima di lasciarci io ti devo domandare scusa se ho parlato molto con te. Ho parlato volentieri perché tu non sai niente; e con quelli che sanno tutto e han tutto il senno, io non so parlare. E oltre a non saper tu niente, ho parlato volentieri con te perché tu ti meravigli, perché ami le cose belle e valorose. Superstizioni, fole, chimere io ti ho raccontato, ma non le disprezzare.

E fissando Ambrogino negli occhi, come aveva fatto il primo giorno, aggiunse:

Conserva, ti prego, questa polvere d’oro che han le farfalle: essa con gli anni si muterà in fede ed onore. Questa è la vera giovinezza.

 

Natale 1933 – XII, in Roma.

 

ALFREDO PANZINI

 

 


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