Alfredo Panzini
Il diavolo nella mia libreria
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Dolce morale.

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Dolce morale.

Molto furono accusati i padri gesuiti di essere stati accomodanti e pieni di soave tolleranza, purchè non si trattasse di fede; e questa cosa sanno anche coloro che non hanno letto le Lettere provinciali del Pascal. E anche ai passati un giovanetto, che comincia adesso sui banchi della scuola il suo viaggio per le vie del conoscere, mi domandava: «Come mai gesuita, che deriva da Gesù, vuol dire ipocrita?».

«Eh, eh, ragazzo mio, – risposi anch'io come fra Galdino, accennando lontano lontano – è una cosa lunga spiegare queste cose».

Questi giovanetti dagli occhi sinceri e che desiderano conoscere (oh, ce ne sono nelle scuole!) mi ispirano una grande pietà; e se amano la patria (oh, ce ne sono, e non so nemmeno io come ce ne siano tanti), anche di più.

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Dunque dicevamo? Ah, sì, sono molto accomodanti i padri gesuiti. Nel tempo passato io non provai – in verità – mai quei fieri sdegni che i liberali mostravano per la così detta morale gesuitica: tutt'al più un po' di ironia. Adesso meno più quella.

I padri gesuiti insegnano le virtù. Le virtù stanno al gelo, al caldo, fra le spine, tra gli oltraggi degli uomini, ecc., ecc. Chi non le sa queste cose? Altrimenti non si chiamerebbero virtù. E i padri gesuiti dovevano insegnare le virtù a gente che voleva stare tra i velluti e le sete, vicino a un bel camino, l'inverno; fra i boschetti di belle ville, la state: una buona tazza di cioccolata al mattino; fagiani, coturnici a pranzo. Càlida pugnabant frigidis; e ne derivavano graziosi inconvenienti.

Domanda una dama al suo direttore spirituale: «Tutte le cose belle, e piacevoli, e deliziose del mondo si devono gustare: o si deve ad esse rinunziare per salvar l'anima?».

E il saggio direttore risponde: «Iddio nel creare tante belle e gustose cose, ha tenuto conto della sua magnificenza e della dignità personale dell'uomo. Quando un cavaliere riceve per ospite suo un qualche principe e gli prepara un suntuoso banchetto, pretende forse che il principe mangi tutto come un lupo? No, certo! Gusterà qua e con grazia e moderazione. E così si dica dei piaceri mondani, che il buon Dio ha preparato per quel principe della terra, che è l'uomo».

E qui, per l'uomo, e la donna, si intendono soltanto coloro che – per decreto dell'infallibile volontà del Signore – come dice Donna Fabia Fabron De-Fabrian al Pader Sigismond – sono nati nel ceto distinto della prima nobiltà; perchè gli altri non contano.

Carlo Porta, poeta milanese, versò il suo più squisito umorismo su l'orgoglio nobilesco di Donna Fabia Fabron De-Fabrian, nata nobile per grazia di Dio, mentre poteva nascer plebea: cittadina, merciaia, o simil fango.

Ma se oggi Carlo Porta rivivesse, e vedesse che il primo ceto sociale è proclamato quello appunto che per donna Fabia era l'ultimo, domanderebbe scusa a donna Fabia.

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Dicevamo?

Ah, dunque: la dama domanda al suo padre spirituale:

«E peccare si può?»

Il padre spirituale conosce tutta la scala del peccato: «mangiar bene, dormire bene, ozio, immodestia degli occhi, consenso della volontà e finalmente adulterio». Dulcis in fundo.

Sì, ma esiste anche l'antidoto. Ecco la parola magica che serve da contra-veleno: «peccavi, ho peccato!». Ma deve essere pronunziata con voce molle, soave. «Responsio mollis frangit iram Domini. La risposta soave spezza l'ira di Dio». « Datemiesclama trionfalmente il padre – un peccavi di questa forza e sia quanto si vuole grande l'ira di Dio, tutto si smorza».

Come è graziosa la damina del Settecento, che dice con voce soave: Peccavi!

E tornava a peccar senza paura.

E il bel verso del Boiardo, dove parla di Astolfo, così leggiadro cavaliere, ma così debole in sella:

Lui solea dir che gli era per sciagura,
E tornava a cader senza paura.

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E questo buon padre gesuita Mattei, che al giovanetto rampollo, nato da eccelsa prosapia, fa mangiare tutte le virtù, ma le diluisce, le emulsiona come si fa con l'olio di fegato di merluzzo, le riduce piccine piccine, le mette di nascosto dentro il siroppo, nella ben dolce cioccolata? «Mio Diopare esclamare il buon padre – come è delicato di stomaco questo nobile giovanetto! No, poi, quei frutti acerbi!».

«Io sono un uomo discretoscrive il padre Mattei per il suo giovinetto, – io non vi proibisco di mangiare il fagiano, vi prescrivo di vestire il panno romagnolo, che usano i contadini...».

Sì lo so: è più bella l'ode intitolata L'Educazione dell'abate Parini che cerca di insinuare nell'animo di un altro giovanetto ben più austere virtù. L'abate Parini vuole che il suo giovanetto si vesta d'acciaio e di eroica morale. Ma non è più possibile! La stessa ode risuona un po' anacronistica in quella bella sala settecentesca, tutta oro, ghirigori e fiorellini.

Giustizia entro il tuo seno.
Sieda, e sul labbro il vero.

Sì, ciò è molto bello. Ma negli angoli, piccoli genietti sbadigliano. Ho fatto anch'io un po' l'abate Parini, per tanti anni, nelle scuole.

Ora basta.

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Amabile, garbato Settecento! Quando l'eroismo era messo in musica dal Metastasio e la virtù nel siroppo! Non so perchè, oggi il Settecento mi piace.

Le damine leggevano la Novella Eloisa, i nobili giovani si divertivano a commentare Candido e la Pulcella del Voltaire.

Si arrotavano da quei nobili signori il filo della ghigliottina; eppure il Settecento mi piace! Nelle belle sale a stucchi e oro pesa un'aria greve come d'estate quando pende nel cielo il presentimento di un uragano.

Il cielo è ancora sereno, ma chi ha un barometro in casa, avverte il rapido abbassarsi della pressione atmosferica.

Ad un tratto, ecco un lividore nel cielo, un guizzo di lampo, un rabbrividire delle foglie nel parco.

Pare che la rivoluzione la faccia il cielo, più che gli uomini.

Il cielo non ha altro mezzo per purificare l'aria se non gli uragani.

Sì, lo so. Quella damina che non può più portare lo scapolare su la nuda pelle, perchè farà un brutto vedere quando dovrà peccare; quel giovanetto che non digerisce più nulla dei decotti del suo maestro, non hanno ragione di esistere: lo so.

Tutte le istituzioni sono applicabili all'uomo e vanno bene, finchè vanno, finchè i freni tengono, finchè non si superi un certo limite di tolleranza.

Dopo, addio! Crac!

Giustifico il crac. Ma se anche fossi un poeta come il Carducci, non sentirei il bisogno di far della lirica rivoluzionaria. Si corre il rischio di rimanere poi imprigionati nella rete delle proprie teorie. Verissimo! Ma non è meno vero che, non avendo convincimenti, si rimane come un generale coi soldati che scappano da tutte le parti.

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Avvenuto che sia il crac, si sente il bisogno di rinnovare tutto.

«Tutto. Anche la morale».

«Anche la morale?».

«Anche la morale!».

Così diceva, or non è molto, un rivoluzionario in buona fede.

Io volevo domandare: «quale morale

Forse quel signore non avrebbe saputo determinare. Ma diceva bene: «anche la morale».

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Nell'attesa della nuova morale, mi diverte la morale in musica del Settecento.


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