IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Maurilio sospese un istante la sua narrazione, esitò visibilmente, le sue guancie pallide e smunte s'infuocarono ad un tratto di cupo rossore; prese fra le sue le mani di Giovanni, e stringendogliele con forza, curvandosi su di lui, riprese a dire con isforzo ed a voce sommessa:
- Poichè ti dico tutto in quest'ora di espansione dell'anima mia, ti dirò pure cosa che ho con infinita cura nascosta a tutti quelli che potei, ed a voi miei amici più studiosamente ancora che ad altri, e cui potete accusarmi l'avervi nascosta. Ma tu, che mi ami più di tutti, tu avrai compassione della mia vergogna, e perdonerai alla mia debolezza.
- Parla, parla: disse Giovanni con molto affetto, corrispondendo alla stretta convulsa delle mani di Maurilio.
- Odimi adunque, esclamò questi, levando il capo ed agitandolo, come per iscuoterne un peso che lo gravasse; e così continuò il suo racconto:
«Ti ho già detto e ripetuto che Menico e Giovanna erano le due creature più avare di questo mondo. A me misuravano con tanta parsimonia il pane che avevo continua compagna la fame; a se stessi rifiutavano ogni cosa che passasse il necessario, ed anco questo riducevano ai più stretti limiti che sia possibile immaginare; sola eccezione faceva Menico per sè, quando si abbandonava all'ebbrezza. Una mattina di autunno Menico ne tornava dalla città secondo l'usato, che codesto non aveva mai voluto smettere di far egli stesso, per nulla fidandosi di me, quando sull'orlo della strada trovò un bel mucchietto di funghi che parevano mangerecci ed i più belli che fossero mai. Pareva che alcuno li avesse raccolti e poscia abbandonati colà. Al vecchio avaro a cui piacevan di molto, parve una buona ventura l'impadronirsene e farsene una corpacciata senza costo di spesa. Li prese, e recatili seco a casa, la Giovanna li fece cuocere, e se li mangiarono tutti con una ghiotta esultanza che nulla più. A me, non occorre pur dirlo, non diedero nè offerirono neppure un briciolo di tanta leccornia.
«Venuta la sera, se ne andarono a dormire che erano i più soddisfatti che fossero sotto la cappa del cielo. Io mi arrampicai a mia volta sopra il tavolato nella tettoia, che era definitivamente diventato mio abituro, e sulla paglia degna del canile che ci avevo colà non tardai ad addormentarmi. Avevo allora diciassette anni, lavoravo tutto il giorno più forse che non permettessero le mie forze, onde non è a dire se il mio sonno fosse profondo, duro e tenace.
«Quella notte certo alcun rumore dovette succedere nella stanza ove dormivano i due vecchi; forse chiamarono aiuto: Menico si levò e venne fino in sulla soglia per cercarne, e là di sicuro mi avrà chiamato colla voce già arrangolata dalla morte: ma io non udii nulla.
«Mi svegliai al mattino e mi stupirono forte due cose: che il sole battesse già sopra il fumaiuolo del tetto della casa, il che indicava esser l'ora più tarda di quella in cui ero solito a levarmi, e che Menico, come tutti gli altri giorni, non m'avesse fatto saltar giù al primo romper dell'alba. Il cane di guardia mandava tratto tratto un lamentoso ululato. Discesi in tutta fretta e quando fui nel cortile un miserando spettacolo mi si offerse. Menico giaceva bocconi sulla soglia della casa, il corpo mezzo fuori e mezzo dentro, immobile, le mani contratte, livide, irrigidite; e il cane sdraiatosi presso alzava di quando in quando il capo insù e guaiva dolorosamente come avevo udito fare quello del medico sulla fossa del suo padrone.
«Accorsi di slancio verso il giacente, chiamandolo per nome. Non sapevo che cosa dirmi di codesto, non avevo neppur travista tuttavia la tremenda verità, ma le gambe mi tremavano. Mi chinai su di lui, sempre chiamandolo e stupito non rispondesse, ne toccai le carni, erano fredde d'un gelo che mi fece correre per le vene un brivido ripulsivo di ribrezzo, feci a sollevarlo e lo trovai pesante come una massa di piombo. Un alto spavento si impadronì di me; gettai un grido e lo lasciai ricadere; il mio sguardo sgomento corse nell'interno della stanzaccia; la Giovanna giaceva traverso il letto, livida ed immobile ancor essa, riversa, le braccia ed il capo abbandonati, con certi occhi spenti, immoti, ma spalancati che parevano fissarmi con minacciosa insistenza. Gettai un altro grido, e fuggii di là tremante, smarrito, dissennato, le chiome ritte per orrore sul capo. Mi fermarono domandandomi che fosse, avvisati dal mio aspetto medesimo che alcuna grave cosa era avvenuta. Io non sapeva che rispondere, non potevo che dire: - Menico e Giovanna.... là.... là.... andate a vedere.
«Si accorse, in pochi minuti tutto il villaggio era colà, e sapeva che i due vecchi erano morti repentinamente d'una inesplicabil morte. Ora ciascuno voleva spiegarsela questa morte. Il caso aveva voluto che due giorni prima Menico e Giovanna mi maltrattassero più ancora dell'usato; ed io, che pensavo sempre più a fuggirmi di là, mi ero lasciato scappar di bocca in presenza di qualcheduno le parole, che non sempre le cose sarebbero andate di quella guisa e che avrei ben saputo un giorno o l'altro sottrarmi a quella vita da galeotto. L'occhio morto della Giovanna che mi aveva odiato e che io certo non amava, mi faceva paura; non osavo entrare in quella stanza, e per quanto mi facessero e dicessero, non lo volli mai; la mia agitazione, il mio turbamento in faccia a quella morte inaspettata erano indicibili. L'idea mi era venuta, che alcune volte, nei momenti di mio maggior dolore, io aveva pur pensato alla mia liberazione per questo modo fatale e quasi con desiderio; ora innanzi a questo fatto tremendo quel pensiero mi pareva un delitto ed io doveva aver di certo sul volto l'impronta del rimorso. Cominciai ad accorgermi che mi si guardava con sospetto, che le donne susurravano piano fra di loro, accennando verso di me, che se ne allontanavano con ribrezzo. Non capivo ancora; ma me ne sentivo inquieto. Venne la giustizia. Esaminò, interrogò anche me - che risposi il più impacciatamente e confusamente che fosse possibile. Il giudice poco accorto e poco istrutto del suo dovere eziandio, non fece procedere ad autopsia dei cadaveri nè ad altro; diede ordine i morti si seppellissero, ed iniziò contro di me processo per omicidio.
«Tutto mi accusava: le parole che avevo detto, il mio contegno, lo sgomento che provai all'udire la taccia appostami, l'antipatia stessa che ispiravano altrui la mia condizione disprezzata, la mia indole scontrosa, il mio umore superbo e vago di solitudine che mi faceva fuggir tutti e rispondere con asprezza all'oltraggio. Tutti mi credettero reo, da Don Venanzio in fuori, al quale protestai della mia innocenza, ma non seppi dar ragione del fatto.
«La casa e le sostanze di Menico e di Giovanna cadevano in mano a certi loro congiunti, i quali erano troppo lieti di succedere e di potersi sbarazzare di me senza aggravio nessuno; e quindi erano i più furibondi nell'accusarmi.
«Io fui arrestato, ammanettato e condotto in carcere a Torino. Quando n'ero uscito, infante, era d'inverno, e mi recava sobbalzando il carro d'un lattaio; ora, dopo diciasette anni, rientravo in questa città, di sera, in una fosca giornata di autunno, sopra il carro d'un conduttore di ghiaia su cui mi si era fatto salire, perchè l'emozione e la vergogna mi avevan tolta ogni forza da poter camminare, scortato da due carabinieri.
«Ero così abbattuto dell'animo che non sapevo guari come e se vivessi. Quasi non avevo più coscienza di me; direi che non sentivo più nell'interno l'anima mia. Solo un gran sentimento di vergogna mi dominava. Nessuno mi conosceva in questa città a cui mi accostavo; nessuno sapeva pur che esistessi fra quella gente in mezzo a cui passavo; e parevami che sopra ogni parete di quelle case, sopra ogni volto di quelle persone leggessi la mia condanna, il mio disprezzo.
«La notte era già scura quando giungemmo. I lampioni accesi mi parevano macchie sanguigne nella tenebra notturna; sentivo un'aria soffocata come sotto una volta bassa ed angusta; il rumore delle strade mi suonava doloroso nel cervello, provai ciò che descrive Dante aver provato nell'affacciarsi alla «valle dolorosa.» Il carro si fermò in una viuzza stretta e scura; fui fatto discendere, mi si fece passare per una porta, poi per diversi anditi e salire diverse scale; dinanzi e di dietro a me mi veniva accompagnando il rumore fastidioso di chiavi agitate, di serrature che si aprivano e si richiudevano ad ogni volta, di catenacci che si toglievano e rimettevano con fracasso, di porte pesanti che cigolavano sui loro cardini, schiudendo il passo, e battevano con cupo rumore risserrandosi.
«Io andava guidato da un gruppo di persone che non sapevo quali, e neppur quante fossero. Pensandoci poi mi venne ricordato che mi avevan fatto fermare in una stanzuccia, innanzi ad un tavolino a cui sedeva un uomo, che mi fu chiesto il mio nome cui non seppi nemmeno balbettare, che i carabinieri avendo risposto per me, quando pronunziarono la parola trovatello, quest'uomo seduto mi saettò in volto uno sguardo incisivo, ironico, insultante, e pronunziò un'esclamazione che pareva dire: - Me lo aspettavo; ecco un abitatore predestinato di questi luoghi; che finalmente fui spinto in uno stanzone appena se illuminato da una lucernetta appiccata in alto alla parete di faccia all'uscio e una voce mi disse: - Guardate d'aggiustarvi lì dentro: per questa notte starete senza pagliericcio che non abbiamo tempo da procurarvelo, ma alla bella meglio, o qua o colà, fate di dormire.
«E la porta pesante si chiuse alle mie spalle con un lugubre suono.
«Io rimasi là dove m'avevano spinto, immobile, coi piedi piantati su quel quadrello dove si trovavano. La lucernetta fumosa, con un lucignolo che era un carbone, rischiarava a stento il locale. Vedevo delle forme che non sapevo ben discernere a tutta prima, stese in linea ordinata appiè delle due pareti laterali. Un'afa gravosa, piena di acri vapori e di cattivi odori, qual può esser quella d'un luogo chiuso in cui gli aliti impuri di troppa gente raccoltavi, mi serrava alla gola e mi rendeva difficile e penoso il rifiato, a me che ero avvezzo alle pure aure dell'aperta campagna. Un romore di voci rauche discorrenti con accompagnatura di violente bestemmie sorgeva di qua e di là, e frammischiatovi il russare profondo di qualche addormentato.
«Alcuni dei prigionieri all'udire aperto l'uscio s'erano levati a sedere sullo strammazzo su cui giacevano ed avevano guardato curiosamente chi fosse il nuovo compagno loro dato a quel punto.
«Ben mi era apparso che parole di scherno e di schifosa fratellanza, oltraggiosi saluti di buona venuta mi accogliessero, ma la mia mente confusa e smarrita non comprendeva bene. I più, squadratomi un poco, s'eran tornati a risdraiare, non curandosi altrimenti dei fatti miei; alcuni seguitavano a guardarmi con curiosa insistenza, ed io vedeva i loro occhi accesi o grifagni a me rivolti splendere nello scuriccio di quello stanzone d'una luce sinistra e maligna.
«Dopo alquanto tempo che io era colà, dato giù alquanto il tumulto che aveva luogo nella mia testa, potei udire questo dialogo:
«- Gli è un poverino d'un piluccaborse per sicuro, quel cazzatello intormentito: diceva una voce grossa e rauca non molto da me lontana.
«- Non ho mai visto quel muso lì, io che conosco dal primo all'ultimo tutti quelli che lavorano a Torino, soggiungeva un'altra voce esile e sottile che pareva di donna, eccetto che tratto tratto usciva in qualche nota da basso profondo. Di certo quel ragazzo non ha mai posto piede nella bettola di Pelone.
«- È vestito come un paesano del contado.
«- Sta a vedere che gli è un ladro di campagna.
«- Mi ha tutta l'aria d'un rimminchionito.
«- Bisognerà farlo cantare... A me, a me che gli vo torre il filo della camicia.
«Così disse quel della voce esile e dirizzando poscia il capo verso di me, fe' con esso un cenno di richiamo:
«- Ohei, martuffino, figliuolo d'una versiera, dà un po' retta qui.
«Io lo guardai: gli occhi piccoli, irrequieti, malignamente vivaci di colui che mi parlava - un omicciattolo mingherlino, collo stampo di tutti i vizi sulla faccia degradata e i bernoccoli di tutte le più brutte passioni sul cranio raso di capelli - quegli occhi mi fecero rabbrividire. Chinai lo sguardo innanzi al lume sinistro di quegli occhietti e mi sentii tutto invaso da una penosa suggezione, da un profondo timore, da un insuperabile ribrezzo.
«- Sei tu muto o scemo, caro il mio bamboccio da forca? Riprese quel cotale. Vieni un po' qua che facciamo conoscenza, poichè siamo alloggiati alla medesima osteria.
«Io nè mi mossi, nè feci motto.
«Egli allora si levò a sedere.
«- Oh oh! esclamò: gli è un sordo e muto, nato e sputato: ma sta a vedere, Stracciaferro, che io fo il miracolo di guarirlo in un momento.
«L'omaccione della voce grossa e rauca si pose supino sul suo stramazzo, colle mani intrecciate sorreggendosi di dietro la testa, e disse ridendo sguaiatamente.
«- Vediamo un po' i tuoi miracoli, Graffigna.
«Quest'ultimo tornò a sdraiarsi, poscia strisciando come una serpe sul pavimento ed allungandosi in modo straordinario delle membra, mi sparò in uno stinco a tutta forza un calcio col suo piede armato d'un pesante zoccolo di legno, munito di chiodi di ferro.
«Il dolore che ne provai fu più forte d'ogni altro sentimento, più forte del mio orgoglio e della mia volontà. Diedi un grido, le gambe mi mancarono sotto, e caddi per terra là dove mi trovavo. Credetti per sicuro avere lo stinco spezzato. Le lagrime mi vennero agli occhi e non potei avere più tanta forza in quel momento da ricacciarle indietro o da nasconderle.
«L'omaccione sghignazzava a gola spalancata, come della più piacevole facezia che avesse visto mai; l'acuto mio grido aveva svegliato qualche dormente, il quale brontolava del sonno interrotto e mi mandava ai cento mila diavoli: Graffigna esclamava in tono trionfante colla sua voce in falsetto.
«- Ve', se l'ho saputo toccar nel debole!
«Quello scellerato, trascinandosi sempre per terra a guisa di rettile, mi si venne accostando. Sentivo una paura ed un abborrimento da non dire. Avrei dato non so che cosa per potermene allontanare. Provai ad alzarmi, e il dolore non me lo consentì.
«- Là là: diss'egli: non muoverti, non agitarti, sta buono, bell'amorino da galera. Questo non è altro che un piccolo ammonimento, che quando Graffigna ci parla bisogna rispondere. L'hai capito eh?
«Mi pose una mano sull'avambraccio; e quel contatto mi fece fremere.
«- Non toccatemi...... lasciatemi stare: gridai con vero terrore tirandomi in là più che potessi.
«Ed egli trattenendomi:
«- Sta buono che non ti voglio mica mangiare; se tu fossi un pezzo di prosciutto... meno male!
«Mi cacciò impudentemente le mani addosso e mi palpò con isfacciato cinismo.
«- Sei magro come un'acciuga. Che cosa faremo di te qui dentro? Sei buono nè da questo nè da quello.
«Dirti il ribrezzo che provavo è impossibile, eppure stavo là passivamente sotto lo schifoso toccare di quelle luride mani, incapace com'ero diventato assolutamente di muovermi.
«- I birri, t'avranno frugato ben bene, continuava Graffigna, e non t'avranno lasciato neppure la croce d'un centesimo, non è vero? vediamo un po'. (E mi frugava con una destrezza insuperabile). Se lo dicevo! Asciutto come un fiasco che è passato per le mani di Stracciaferro. E tu, povero coso, non avrai saputo mettere in salvo tanto da pagarci la buona venuta... E qui dentro, in un modo o nell'altro bisogna pagarla; e se non hai denaro la pagherai colle opere... Questo te lo dico io.
«Ed egli mi diceva il vero pur troppo. Io divenni il servo di tutti que' tristi e ad ogni più umiliante cosa, ad ogni loro capriccio mi obbligarono con sevizie di tutta fatta, piacendosi di quando in quando a tormentarmi per iniquo diletto da occupar loro la noia.
«Non ti dirò tutto quello che mi avvenisse in quella bolgia d'inferno. Ti basti sapere che d'ogni fatta orrori io ne udii narrati e d'ogni sorta sconcezze ne vidi; io cui la vita della campagna in mezzo alla natura aveva almeno conservato sino allora incorrotto nella mia pudica ignoranza.
«Credi pure: una delle prime riforme che occorrano nel nostro ordinamento civile si è quest'essa delle carceri. L'imprigionamento preventivo, in massima, può essere talvolta una solenne ingiustizia che punisca crudelissimamente un innocente, com'era il mio caso; in fatto poi, applicato com'esso è appo noi, è una scuola infame di corruzione e di delitti per chi o è puro tuttavia, dopo un primo fallo altresì potrebbe ancora esser facilmente ridotto alla buona strada.
«Pensa al mio caso ed alle mie condizioni, e non potrai a meno che rabbrividire. Giovane appena di diciasette anni, mentre non avevo ancora nemmanco in me l'idea del delitto, e l'uomo colpito dalle leggi mi appariva come un mostro quasi fuori della natura, ero gettato in mezzo ad una frotta di scellerati che dei loro delitti si compiacevano e menavano vanto, ed avevano dai compagni misurata la stima appunto dalla audacia e dalla grandezza della colpa commessa.
«A ritenere dal male giova moltissimo, forse più che ogni altra cosa, il pensiero ch'esso sia ripugnante alla nostra natura, che il delitto non sia il retaggio che di certi esseri predestinati da noi ben differenti, che fra noi ed i colpevoli corra una gran distanza difficilissima a superarsi. Più state lontani dallo spettacolo e dalla conoscenza del male, e più sarà in voi radicata questa salutare idea. Non crederete possibile il far male, perchè non avrete l'abitudine di pensarci e conserverete per esso tutto l'orrore che vi hanno inspirato od avete da voi medesimi concepito. Ma prendete un povero diavolo cui la giovinezza faccia più impressionabile alle cose circostanti e cacciatelo in quella trista atmosfera di scelleratezze; dapprima il suo orrore sarà cresciuto a dismisura, e soffrirà moralmente, come parola umana non può esprimere; poscia, del pari che il corpo ai patimenti ed alle intemperie fisiche, la sua anima s'incallirà, per così dire, a poco a poco a quello sciagurato ambiente del male; la mostruosità del delitto, che gli pareva impossibile ad allignare nel suo animo, finirà per apparirgli la cosa più naturale del mondo e se ne sentirà entro se stesso i germi; se quell'infelice condizione perduri, giungerà a credere portato della natura umana il delitto, stoltezza o pregiudizio l'onestà e la virtù.
«Codesto press'a poco provai io stesso, e se non caddi fino a quest'ultimo grado, lo debbo ed al buon don Venanzio, che tutto s'adoperò per ottenere la mia liberazione, e più ancora all'intervento pietoso del mio buono spirito protettore.
«I due principali in quella congrega di scellerati erano i due che ho già nominati: Graffigna e Stracciaferro. Erano essi che più mi tormentavano e più mi tenevano seco. M'inspiravano odio e paura: il primo peggio che il secondo, quantunque Stracciaferro fosse il più violento e in apparenza anche il più feroce. Ma non so quale ignoto sentimento, che anche oggidì non so come spiegare, mi faceva desioso di conoscere, di esaminare quella rozza, selvaggia, barbara natura.
«Un vincolo fortissimo di antica complicità nei delitti si vedeva che legava questi due uomini in un'infame amicizia; ma essi lo dissimulavano. Graffigna, che era quello dei due il quale aveva la parola sciolta, raccontava ai compagni, che ammiravano, i fasti sciagurati della loro vita; e mentre l'uditorio applaudiva, Stracciaferro, giacendo quasi sempre disteso nella sua lenta mole, si contentava di sorridere con una specie di orgoglio bestiale.
«Fra tutti quei delitti ce n'era uno che Stracciaferro non voleva udire ricordato. Graffigna aveva fatto cenno di esso una volta, e il suo complice, divenuto pallido come un cencio, esclamò con ira insieme e quasi spavento.
«- No, no, non quello, non quello.
«Bastava codesto perchè grande fosse appunto in tutti la curiosità di saperlo, e ti confesso che ancor io partecipava di questa malsana curiosità.
«Eravamo in principio di novembre, il giorno tristissimo dei morti. Da qualche giorno Stracciaferro era tristo, cupo, taciturno; Graffigna sorrideva e crollava le spalle guardandolo con molta compassione. Quando s'interrogava Stracciaferro che cosa avesse, egli non rispondeva che mediante un grugnito con cui voleva dire: lasciatemi tranquillo; quando se ne chiedeva a Graffigna, egli diceva sottovoce, perchè il suo complice non udisse: - Siamo ne' suoi giorni neri; parecchi anni sono a questi dì ci capitò quel certo affare ch'ei non vuol mai gli si ricordi, e il pover uomo ha la debolezza di sentire qualche cosa a rosicchiarlo nello stomaco.
«La notte dei morti, io che dormiva non lontano da lui, udii Stracciaferro gemere, lamentarsi nel sonno, lo vidi agitarsi e ad un punto levarsi di scatto a sedere sul giaciglio come desto improvviso, esclamando:
«Tutto taceva, eccetto il profondo russare di alcuni addormentati; il lumicino appiccato alla parete mandava una fioca luce nell'androne; a quello incerto chiarore mi parve scorgere livide per paura le guancie di quell'omaccione ed irte sulla sua testa le chiome. Stette egli un poco così, quasi smemorato, guardando attorno con occhi sbarrati, poi si passò la mano sulla fronte due o tre volte, come per cancellarne un tenace pensiero, e gettando un profondo sospiro tornò a sdraiarsi.
«Il domattina Stracciaferro era pallido ed aveva ancora contratti i lineamenti. Quasi non disse verbo di tutto il giorno. Mi guardai bene dal lasciarmi sfuggire un sol motto che potesse fargli supporre aver io visto il suo turbamento notturno.
«Graffigna cercò motteggiarlo; ma, senza neppur disserrare le labbra, Stracciaferro lo guardò di tal guisa che quell'altro non ebbe più ardire di aggiunger parola. Verso sera alcuni dei prigionieri avendo cominciato a cantare, secondo il solito, una delle luride loro canzonaccie, Stracciaferro con voce tonante impose loro silenzio, e tutti si tacquero, tanto era il predominio che gli avevano dato la sua superiorità di forza muscolare e di colpe.
«- Non c'è che un modo per addomesticare quest'orso: disse Graffigna ristrettosi cogli altri prigionieri a consiglio; ed è di ubbriacarlo d'acquavite. Il carceriere P....., se noi gli lasciamo scorrere qualche bianchetto, ci fornirà una famosa toppetta di branda, e con ciò noi otterremo l'intento.
«Così fu fatto. Quando si ebbe l'acquarzente, dapprima Stracciaferro rifiutò di bere; poi cedendo ad un tratto alle sollecitazioni di Graffigna, con un moto brusco e quasi rapace afferrò la fiaschetta e recatala alle labbra, ne tracannò giù come se fosse acqua di fonte. Di botto i suoi occhi brillarono, un cupo rossore salì ai pomelli delle sue guancie, e il petto largo e potente gli si sollevò in un respiro ampio e profondo.
«- Neh, che così la va meglio? Gli disse, con tono insinuante Graffigna.
«- Sì, la va meglio. Questo è il farmaco per ogni melanconia.
«E rimettendosi il fiasco alla bocca non lo trasse giù più finchè non l'ebbe vuotato del tutto. Allora guardò intorno roteando gli occhi, con aspetto tra scemo e tra stupito; poi ruppe in una gran risata, scaraventò contro la parete di prospetto la bottiglia vuota che ne andò in mille frantumi, e cadde indietro lungo e disteso sullo strammazzo dov'era seduto, come fulminato.
«Alcuni s'appressarono quasi per soccorrerlo.
«- Lasciatelo, lasciatelo: disse Graffigna. E' fa sempre così; ora sta un poco a covarsi quel boccone di sbornia, e poi salterà su collo scilinguagnolo sciolto che lo udrete a contare vita e miracoli.
«Avvenne in questo modo appunto. Stracciaferro tornò a sedere sul suo pagliericcio. Aveva la faccia di un rosso cupo, color di mattone, gli occhi infiammati, le labbra turgide, allividite; pareva un infermo di trasporto cerebrale nel delirio della febbre. Tese la mano a Graffigna, e questi avendogli data la sua, glie la strinse con tal forza che il mingherlino fece una smorfia orribile e gettò un grido ed una bestemmia.
«- Alla croce di Dio, pendaglio da forca, tu mi stroppii.
«- Grazie, Graffigna: diceva Stracciaferro con una concitazione straordinaria: grazie! Sì questo mi fa bene.... forse mi uccide, ma che importa?... Questo mi guarisce dalla mia sciocca debolezza.
«Guardò intorno entro il viso dei suoi ascoltatori, un per uno, come per vedere se alcuno volesse contraddirlo.
«- Sì, sciocca debolezza: ripetè insistendo. Sono un uomo, e un fiero uomo in tutto, me ne vanto; ma in una cosa sola sono un bambino, sono una femminetta. Lo credereste? In questi giorni ho qui dentro qualche cosa che mi rode, che mi leva ogni forza, che non mi lascia dormire..... Ha da dirsi rimorso?.... Chiamatelo come volete.... È un maledetto tormento, ve lo assicuro.... Sono già diciasette anni che a questa stagione soffro di codesto male. Che cosa non darei perchè non venisse mai il mese di novembre, e sopratutto il giorno dei morti! Ne ho fatte d'ogni colore, parecchi ho visto morire sotto i miei colpi. Nè il sangue mi spaventa, nè il rantolo dell'agonia d'un uomo. Se penso a questo od a quello che ho mandato all'altro mondo, non mi fa nè caldo, nè freddo, non perdo l'appetito e la notte non dormo meno saporitamente per ciò; e invece quando il pensiero mi viene d'una donna, d'una debole donna, giovane e povera, ecco che gli è come se la vedessi - proprio lei - sorgere, e starmi dinanzi, e tendere verso di me le sue bianche braccia convulse a strapparmi dalle mani suo figlio, e vedo, come allora, le chiome scarmigliate, il nudo seno e gli occhi furenti...... Chi ha visto mai una madre che difenda suo figlio? Una leonessa non può essere più fiera.... L'ho sognata questa notte. Mi si avventava incontro come allora con morsi e graffiature; mi vomitava improperii e maledizioni; invano la respingevo; mi si attaccava con unghie di ferro, e il tempo stringeva; avevo promesso, avevo già preso parte del denaro, aspettavo di averne il resto; Graffigna mi sollecitava; Graffigna mi aveva fatto bere come stassera; io gridava alla donna: lasciami andare o succederà qualche precipizio; ella più ostinata che mai gridava: rendimi mio figlio, gridava accorruomo. Era notte; mi ricordo che le sue grida acute risuonavano pel silenzio di quella città in cui ero straniero come i rintocchi d'una campana a stormo. La gente l'avrebbe udita di sicuro. Sarebbero accorsi; a momenti potevano esser lì. Come salvarmi? Non ero pratico di Milano..... poichè gli è colà che eravamo.... fa presto, mi diceva Graffigna, il quale mi tolse il bambino di mano; fa presto..... Ma come? Pari ad un serpente la Gegia mi si avvinghiava intorno.... In che modo avvenne che mi trovassi in mano un coltello? Fu il demonio che me lo cacciò fra le dita, o fosti tu, Graffigna.... Bisognava fuggire.... Quel seno bianco era lì davanti a me. Gli piantai dentro la lama; il sangue mi zampillò caldo nel viso, lo vidi colar rosso rosso su quelle carni; la Gegia agitò le braccia, rantolò pur ripetendo ancora quelle parole che mi rimasero stampate come un marchio di fuoco nel cervello: rendimi mio figlio; e cadde! Graffigna mi afferrò, mi trasse con sè; fuggimmo portando via la preda - quell'infelice bambino.... Ebbene questa notte l'ho sognata tal quale. Boccheggiante nel suo sangue, quella misera donna venne ancora a ripetermi: rendimi mio figlio!
«Curvò il capo e si tacque. Graffigna prese egli a dire, con quella sua voce in falsetto che mi parve allora più acre e stonata che mai:
«- Fu la cosa più necessaria del mondo, e non si poteva fare altrimenti. Un cotale - gli è un signore di qui, e potrei anche dirne il nome, se non fossi un uomo prudente - un cotale adunque, con cui avevo per altri precedenti affari piuttosto strette relazioni, mi dice un bel giorno, sono appunto diciasette anni: «- Mio caro Graffigna, ho bisogno che tu mi procuri un bambino maschio che abbia circa due anni di età, di cui padre e madre non si dieno più pensiero e non cerchino di saper più nulla mai; ho bisogno che nessuno al mondo sappia mai che io t'abbia data questa commissione e che tu l'hai eseguita. Se tu fai a modo avrai due mila lire.» Cospettone! Capirete anche voi che due mila lire non sono una manata di giuggiole. State tranquillo, messer Na... (Qui Graffigna s'interruppe e non disse intiero il nome). State tranquillo, insomma, gli dissi (così ripigliò) che la cosa è bella e fatta. Sapevo che Stracciaferro era in relazione con una tale che aveva dato alla luce un bambino, e pensai tosto che quello era il fatto nostro. Cercai subito di lui e gli contai la faccenda. Questo bravo uomo dapprima aveva degli scrupoli; ma poi all'udire delle due migliaia di lire cominciò a piegar l'orecchio. C'erano però due difficoltà. Quella donna s'era traslocata a Milano per seguitarvi una signora al cui servizio la si trovava, e quantunque non fosse più in quella casa, aveva però continuato a far dimora colà. Inoltre il bambino di lei non aveva che pochi mesi e non era ancora slattato. Ma io sono fatto per isciogliere le difficoltà. La prima era anzi un vantaggio. Avrei persuaso il nostro mandante come fosse molto meglio per la segretezza della cosa andare a prendere il fantoccio lontano, e che occorreva soltanto per la spesa maggiore un aumento della somma di compenso: quanto all'età, qualche mese più, qualche mese meno, pensavo di potergliela accoccare lo stesso a chi ci dava la commissione. E infatti quel signore fu lieto molto della mia proposta di prendere il bambino in una città lontana, e crebbe sino alle tre migliaia di lire, cotanto gl'interessava la cosa. Partimmo e andammo dritto da quella donna, sperando che spiegandole la cosa, ella si sarebbe acconciata volontieri per un cinquecento franchi a lasciarci il marmocchio, che non erale altro che un peso. Sì, va a far capire la ragione ad una testa matta di donna che si incoccia a dir no! Nè preghiere, nè minaccie ci valsero. Avevamo già intascato un migliaio di lire, e non è gente del nostro calibro che manca alla parola. Dissi allora a Stracciaferro di arraffare il naccherino e filare. Fu allora che successe il casa del diavolo. Il bambino fu portato via, e la donna andò all'inferno.....
«- Taci: urlò Stracciaferro: non parlar male di lei..... Povera Gegia! Povero bambino!.... Oh! che ne sarà stato di lui?
«- Peuh! Questo non era più affar nostro. Consegnato il marmocchio e presi i danari, che ne importava del resto?
«- A te! riprendeva Stracciaferro; ma io!... quello era mio figlio!
«Non puoi credere l'impressione che quel racconto fece su di me. Erano diciasette anni che quel delitto era successo. Quel bambino aveva dunque press'a poco la mia età; e mi domandavo, come faceva il feroce mio compagno di carcere, che cosa mai poteva essere avvenuto di lui, che vita, che sorte fossero le sue. Figliolo d'un tal padre! Non era ella una disgrazia peggiore che quella di non aver padre nessuno? Ma almeno egli non sapeva questa sua disavventura, e l'uomo che aveva fattolo rubare alle carezze della madre gli aveva forse creata una esistenza onorata e tranquilla. Pensavo a quella povera madre, e pareva anche a me udire le ultime parole arrangolate, pronunziate dalla morente: rendimi mio figlio!
«E di botto mi veniva alla mente il pensiero di quell'aerea forma che mi appariva di quando in quando, e ch'io m'era avvezzo a chiamar mia madre. Ella pure forse era stata da me disgiunta; e come? e chi sa con quanto dolore?
«Quegli che più di proposito aveva assunto l'impresa di volgermi decisivamente al male, era Graffigna. Si piaceva ad istillarmi ogni sorta di infami insegnamenti: come si concepiscono, si meditano, si preparano, si compiono i delitti. Era maestro in quest'arte sciagurata. Niuno meglio di lui sapeva far nascere le occasioni da un lato e fare sparir gl'indizi del fatto dall'altro. Aveva ridotto la cosa ad un giuoco di combinazioni che presentava la sua attrattiva come ogni lotta in cui l'attività e l'acutezza della mente s'impiegano più che le forze del corpo.
«A me poi, col serrato argomentare d'una logica inesorabile, voleva persuadere che ad ogni costo io doveva essere e sarei stato uno dei loro. Secondo lui, tutti gli uomini nascevano colle medesime disposizioni press'a poco; a gettarli di di qua o di là di quella linea ideale che separa nel mondo quelli che si chiamano galantuomini da quelli che si chiamano furfanti e che sono perseguitati dal codice penale, non è altro che il particolare presentarsi delle circostanze; in una sola parola, il caso. Per me questo giudice supremo aveva già pronunziato irrevocabilmente, ed avevo da appartenere di necessità alla schiera dei birbanti. Fossi non fossi reo di quel primo delitto, non montava nulla. Avevo assaggiato del carcere, e questo bastava per imprimermi il carattere indelebile d'individuo pericoloso alla società e condannato al bando dai cosidetti onesti. Uscito di là non avrei trovato più nè una mano che mi si tendesse, nè un pezzo di pane in compenso del mio lavoro; la sedicente virtù mi avrebbe chiuso la porta in faccia e lasciatomi dappertutto sul selciato a morir di fame, avrei dovuto riparare ad ogni modo nelle file dei reietti, e tanto valeva che di subito m'imbrancassi con loro. Ero povero, solo al mondo e colla nota di bastardo. La sorte mi aveva gettato in mezzo al genere umano precisamente apposta per accrescere d'una recluta l'esercito dei ribelli alla tirannia sociale: quello era il mio destino; uomo nessuno si può sottrarre al suo destino, ed io, avessi fatto qualunque cosa, avrei dovuto pur sempre soggiacere ai decreti di esso.
«Le parole di quell'uomo mi confondevano la mente; sentivo con terrore in me l'impotenza di rispondere alle sue ragioni, di respingere l'influsso che m'invadeva del suo dire. Delle volte mi nasceva la tentazione di esclamare: ebben sì, sarò dei vostri; e tenuissimo era l'ostacolo di ripugnanza interiore che tuttavia me ne tratteneva. Spesso mi sentivo agitato come da una battaglia che si combattesse nell'animo mio: poi ad un tratto ero lasso e fastidito, e parevami che, presa una volta la decisione di essere ciò che erano tutti coloro che mi attorniavano, sarei stato più tranquillo. Anche la ingiustizia del trattamento che soffrivo, io innocente, mi destava talora dei veri parossismi di sdegno. Provavo un odio accanito contro chi mi aveva procurato codesto immeritato supplizio; e Graffigna mi apprendeva che questo cotale era tutta la società, era l'ordinamento delle cose fatto apposta per rassicurare tutti quelli che possedevano e che si chiamavano onesti, ed opprimere coloro che non avevano nulla e che i primi avevano battezzato per mariuoli.
«Te lo confesso schiettamente: stavo per cedere. Mi sentivo male. Il passare così ad un tratto dalla vita aperta dei campi all'aria impura di quel luogo chiuso dove si respirava in tanti: la passione stessa della mia anima combattuta, la rabbia, il dolore, la vergogna avevano scosso la mia salute già cagionevole fin dall'infanzia. Da più giorni mi ricorreva periodicamente una febbre che ad ogni volta si faceva più forte. Non dicevo nulla ma mi sentivo consumare la vita. Non potevo mangiar più neppure un boccone; avevo una sete inestinguibile e non avrei fatto che bere. I miei compagni che mangiavano la mia porzione si guardavan bene dal dirmi ammalato ai custodi: io nè voleva, nè osava parlare; nè pure ci pensavo. Quando l'accesso mi prendeva, avevo delle trafitture qui nel capo che mi pareva mi piantassero delle sottili lame arroventate traverso l'osso del cranio ed alle tempia a penetrarmi entro il cervello. Delle cose che mi attorniavano e di me stesso e del mio stato, avevo e non avevo coscienza. Le impressioni perduravano, ma non erano più esatte. I rumori e la vista degli oggetti a volta a volta mi tornavano velati, come lontani, come traverso ad una nebbia, oppure mi rispiccavano più vivi, più forti, destandomi una sensibilità quasi dolorosa. Perdevo in certi momenti la idea del tempo; tutto mi si confondeva in un tratto il mio passato a farmisi presente, e vivere in un attimo una serie d'anni; poscia quella confusione svaniva a lasciar sorgere più netta l'idea dello stato in cui mi trovavo; ed allora mi sentivo veramente a soffrire.
«In uno di questi accessi tutti i discorsi tenutimi da Graffigna mi sfilarono innanzi come incarnati in certe figure di persone che mi sembrava mi sorridessero, mi ammiccassero, mi chiamassero a sè passando. Ciascuno aveva la sua fisionomia propria, e mi guardavano molto onestamente, con aria d'interesse e con faccia d'amici. Li salutavo quasi con affezione, e siccome essi parevano invitarmi ad andar con essi loro, io mi drizzai sul mio giaciglio, pronto a seguirli e recarmi dal demonio tentatore a dirgli: sono cosa vostra.
«Ma ecco, di colpo, appena levatomi a sedere, tutta quella fantasmagoria sparire. D'improvviso io mi sentii libero il capo e chiara la mente; parvemi che un fresco alito mi ventasse sulla fronte a calmare il tumulto del mio sangue: provai un senso subitaneo di sollievo e di benessere; sentii che riprendevo per l'affatto il possesso della mia volontà e della mia intelligenza; mi trovai - te lo assicuro - nello stato medesimo di lucidità in cui sono al presente.
«Anche allora era sull'imbrunire. Il lume non era ancora stato acceso ed un'oscurità quasi piena ottenebrava il camerone. Innanzi a me, dritta ai piedi del mio pagliericcio, diffondendo intorno a sè una specie di debolissimo chiarore, stava quella forma incorporea di donna, stava lo spirito che da qualche tempo già non mi era più apparso. Benchè sempre incerte ne vedessi le sembianze, parvemi tuttavia che in esse fossevi una espressione di mestizia e di rimprovero. Io tesi le mani verso di lei e mandai una esclamazione. Ella si chinò allora verso di me; sembrommi che qualche parola pronunziasse, ch'io pure non potei afferrare; si volse alla parte dov'erano nell'ombra Graffigna e Stracciaferro e scosse la testa e fece un atto imperiosamente negativo colle mani, come per dirmi a loro non m'accostassi; poi si pose la destra sul petto, quasi volendo indicarmi, son io che te lo comando, io che te ne prego, e disparve.
«Parvemi che il buio della stanza si facesse maggiore. Fui per chiedere ai miei vicini se nulla avessero visto; ma poi questa mi parve quasi una profanazione e mi tacqui. Mi lasciai ricadere sul mio giaciglio, tutto riconfortato dell'anima. Questa benefica apparizione aveva fugate quelle perniciose della febbre: i sofismi di Graffigna erano vinti dalla sola presenza manifestatasi del mio buono spirito. Stetti più cheto, con una nuova tranquillità quale non avevo più da tempo gustata, e poco stante mi addormentai.
«Il domani ecco aprirsi la porta del camerone, ed il custode chiamarmi per nome.
«- Venite fuori, che c'è gente che vuol parlarvi.
«Appena potevo reggermi in piedi. Mi trascinai a stento dietro il carceriere fino in una stanza a piano terreno.
«Colà Don Venanzio commosso mi tendeva le braccia e sclamava colle lagrime agli occhi:
«Gettai un grido di gioia e l'emozione fu tanta che per la debolezza non potendovi reggere, caddi svenuto nelle braccia del buon sacerdote.
«Don Venanzio non mi aveva dimenticato. Persuaso che io era vittima d'un errore, non aveva avuto pace più finchè non l'avesse visto riparato. A Torino egli conosceva una famiglia potente..... (Qui Maurilio esitò un momentino.) La famiglia Baldissero.
- Quella a cui appartiene il tracotante che insultò Benda? Domandò Selva.
- Quella stessa: rispose Maurilio. Al marchese, capo di questa famiglia, ricorse Don Venanzio, ed ottenne che sollecitamente si mandasse a procedere all'esame dei cadaveri di Menico e di Giovanna, che se ne scoprisse la cagion vera della morte, e che si dichiarasse non esser luogo a procedimento contro di me. Il buon prete aveva voluto recarsi egli stesso di persona a darmi la notizia della mia liberazione ed accompagnarmi fuor della carcere.
«Ma la infermità che mi aveva assalito mi obbligò a passare dalla prigione all'ospedale. Don Venanzio quando mi ebbe visto per sua cura allogato in un letto dell'ospizio X...., raccomandatomi con ogni premura alle suore di carità che pietosamente servivano i malati, se ne partì di nuovo pel suo villaggio, facendomi la promessa, che in realtà mantenne, di venirmi a vedere di sovente.
«Parecchi giorni rimasi senza cognizione; quando risensai mi sentivo una gran fiacchezza addosso, precisamente come allorchè incominciò la guarigione da quell'altra uguale malattia che sostenni qui dopo che tu mi avesti raccolto e dato ricetto. Ero in un lungo camerone a pareti tutte18 bianche; due file di letti nella direzione della lunghezza si schieravano in faccia l'una all'altra. Tutti questi letti erano similissimi, incortinati intorno d'una stoffa di cotone a righe bianche e bleu, con una coperta uguale: a capoletto di ciascuno di essi era appesa una lastra con suvvi la polizza che diceva il numero del letto, l'età, le condizioni, la malattia di chi vi giaceva. Non avvezzo sino allora che allo strame del soppalco di Menico ed al pagliericcio del carcere, io trovava quel materasso su cui ero allora disteso il più soffice del mondo; quella di sentirmi posare sulle membra un lenzuolo pulito mi pareva la dolcezza maggiore che avessi provato mai.
«Mentre stavo così meco assorto a gustare quel soddisfacimento tutto materiale, e non avevo pensiero fatto, ecco dal letto che m'era più vicino alla mia destra uscire un gemito dolorosissimo fatto per istraziare il cuore anche al più insensibile uomo del mondo.
«- Oimè! Oimè! Diceva una voce d'uomo faticosamente: oh quanto soffro!
«Volevo rivolgermi a guardare questo infelice che si lamentava, e la debolezza non mi consentiva moto nessuno. Il respiro affannoso del soffrente, interrotto tratto tratto da un'esclamazione di profondo dolore, da un lagno di spasimo incomportabile, mi faceva una pena da non potersi dire.
«- Da bere! Si mise poscia a domandare con quel po' di voce che gli rimaneva, onde appena era se poteva farsi udire fino da me: da bere!... un po' d'acqua, una goccia d'acqua per carità.
«Nessuno degl'inservienti poteva udirlo: io guardava intorno e non vedevo anima viva che fosse in caso da accorrere; le due lunghe file di letti soltanto, dai quali od uscivano gemiti o un silenzio di tomba. Facendo uno sforzo con tutto quel pochissimo vigore che mi restava, giunsi a volgere il capo verso quel povero tormentato, e lo vidi. Era un uomo sul mezzo della vita, con una folta ispida barba sul volto cresciutagli durante la malattia, le guancie incavate, giallo di colore, i pomelli sporgenti, le occhiaie infossate e al fondo le pupille accese d'un luciore di febbre.
«- Da bere, da bere: seguitava a dire il misero colla manchevol voce, ma con una specie d'irritazione nell'accento: da bere, un po' d'acqua per amor di Dio!... E non ci sarà un cane che mi dia una goccia... e mi lascieranno crepare senza pur darmi una stilla d'acqua!...
«Come avrei voluto potere saltar giù e andargliene a ministrare! Ma mi sentivo inchiodato nel letto del pari e forse più ancora che quegli non fosse; e ad un tratto mi assalì il pensiero che se ancor io avessi avuto quel tormento della sete non avrei potuto levarmelo, e nessuno sarebbe venuto neppure in mio soccorso. Bastò questo pensiero perchè tosto mi paresse davvero già esserne assalito ancor io. Volli chiamare e mi mancò la voce: mi parve che un'altra voce mi pronunziasse entro la testa: «- qui ci lascieranno crepare senza darci neanche una stilla d'acqua.»
«Intanto guardavo sempre quell'uomo, ed egli guardava me. Quegli occhi lucenti cupamente in mezzo a quel viso giallo di cadavere mi facevano paura: e non potevo distogliere da essi i miei quasi affascinati.
«Egli si lamentava sempre. Ad un punto cessò di fissar me per volgere il suo sguardo al tavolino verso il tazzone di terra in cui c'era la pozione da bersi. L'intensità del desiderio che c'era in quello sguardo, l'agonìa di arrivare a quella bibita, il tormento di non poterlo, erano indescrivibili. Vidi agitarsi lievemente la coltre sopra il petto di quell'infelice, e poi una mano scarna uscirne fuori a rilento, protendersi verso quell'agognata tazza, allungarsi, allungarsi, mentre quello sguardo brillava sempre più e più di desiderio. Già la mano era per arrivarvi; il corpo s'era stentatamente voltato ancor esso ad assecondare quel movimento; io seguiva con infinito interesse quell'atto, parevami che a vedere quel dolorante afferrare la tazza e potersi saziare la sete, ne avrei provato grandissimo sollievo ancor io... Ma quando già era per toccare la sospirata meta, quella povera mano di botto ricadde; un sospiro o meglio un gemito sfuggì da quel petto affranto; il capo del giacente rimase più abbandonato sul guanciale, gli occhi si chiusero ed un'immobilità di morte gli tenne tutte le membra. Lo credetti estinto. Quella faccia cadaverica esprimeva nella contrazione de' suoi lineamenti una rabbia profonda: la mano giaceva sulla sponda del letto, pendente all'infuori; era una rozza mano di un rozzo uomo della plebe; ma ora la pelle villosa e bruna si piegava sulle ossa rugosamente, in modo che ogni falange, ogni tendine, ogni vena ne spiccava al di sotto con brusco risalto. Pensai che quella mano un tempo era di certo forte da sollevare ogni peso, ed ora non poteva nemmanco prendere una tazza d'acqua; così era quel povero uomo ridotto dalla malattia!
«Dopo un tempo che mi parve abbastanza lungo, il mio vicino risensò e si rifece da capo a lamentarsi, ma più fiocamente, e a domandar da bere, ma con appena intelligibili parole.
«E così durò lo spasimo di quell'infelice, senza che niuno venisse in suo soccorso, finchè il momento non giunse della visita medica.
«Io, che non avevo mai visto ospedale, nè uditone parlare, quasi mi spaventai quando vidi quella frotta d'uomini vestiti di nero, accompagnati da una monaca, che s'avanzavano pell'androne, si fermavano a tutti i letti, ora un po' più, ora un po' meno, ma non oltre i dieci minuti mai, borbottavano alcune parole fra di loro e passavano.
«Era il medico capo con dietro a sè gli allievi del corso. Prima d'arrivare al mio dovevano incontrare il letto di quel mio vicino di destra, e li vidi, come altrove, fermarvisi. Il professore, che camminava primo, s'inoltrò fino all'altezza della testa del giacente; gli allievi si aggrupparono a' pie del letto, e senza riguardi, con brusca strappata, tirarono via le cortine per poter veder bene tutti la faccia del malato. Notai che alcuni fra essi chiaccheravano fra di loro, parevano di tutt'altro occupati che dello spettacolo che avevano innanzi agli occhi, e ridevano come se di nulla fosse. Uno di essi, che era il più prestante della persona, il più elegante di abiti e tale per ogni verso da richiamare specialmente l'attenzione di chicchessia, attrasse i miei occhi, che, appena vistolo, non seppero staccarsene più. Ei mi pareva tutto tutto il mio compagno d'infanzia Gian-Luigi.
«Intanto il dottore aveva preso il polso del malato e gli aveva domandato come si sentisse.
«- Da bere! Aveva susurrato il miserello per tutta risposta.
«- Ah sì, avete sete: rispose il medico: una sete ardentissima non è vero? È naturale, me la aspettavo.
«E rivoltosi alla monaca che l'accompagnava:
«- È stato tranquillo?
«- Tranquillissimo: rispose con tutta assevezione la suora.
«- Uhm! Fece il dottore crollando il capo, in modo che pareva dinotare poca credenza in quella affermazione; poi, senz'altro preambolo, prese le coltri che coprivano il malato e le trasse giù fino a mezzo il letto: scoprì della camicia lo stomaco del giacente, vi pose su la mano sinistra piatta e si diede a battere su questa colle dita della destra fatte a gruppo; poi si curvò a mettere l'orecchio su quello stomaco e stette ad ascoltare. Drizzatosi rivolse la parola ai giovani che lo accompagnavano pronunziando barbari motti che io non capiva. Il petto rimasto denudato di quell'infelice era macilento come quello d'uno scheletro che fosse stato coperto da una pelosa epidermide; ancor esso era di color cereo, e nello stentato respiro sibilante del malato si alzava ed abbassava con una fatica che facevano pena a mirare. Quando il dottore ebbe finito di parlare, alcuni dei giovani vennero a lor volta a percuotere di quel modo sul petto del malato e porvi su il loro orecchio. L'infermo guardava tutta quella gente e i loro atti con occhio incerto, inquieto, ansioso, interrogatore. A me ispirava un senso di disgusto, quasi direi di ripugnanza e di ribrezzo il vedere tutti questi ignoti affollarsi indifferenti intorno al letto del soffrente, esaminarlo, guardarlo, palparlo come un oggetto di curiosità peggio. Mi dicevo che a momenti sarebbero stati del pari intorno a me e mi avrebbero fatto quel medesimo; e ciò mi faceva una pena che non ti saprei spiegare, tale che se avessi avuta la forza sarei saltato giù dal letto e me ne sarei fuggito.
«Quando il dottor capo si mosse per partirsi, uno del seguito, che teneva in una mano una specie di registro e nell'altra una penna, si avanzò domandando se si aveva da scrivere qualche ordinazione pel malato. Il medico crollò le spalle con un atto che significava chiaramente: è tutto inutile. Io mi sentii ghiacciare nel vedere quell'atto: pensati quell'infelice che stava appunto fissando il dottore coll'ansia interrogativa di chi aspetta la sua sentenza! Una specie di singhiozzo ruppe dal petto affannoso dell'infermo, e fra due sibili del suo faticoso rifiato egli disse:
«- Per me dunque la è finita?
«- Peuh! Esclamò senz'altro il medico dondolando il capo ed avviandosi.
«Un nuovo gemito uscì dal petto affranto di quel misero; e mentre tutti da lui si partivano egli ripeteva con quel po' di voce che gli restava:
«- Almeno... da bere..... da bere..... che muoio di sete.
«Ma nessuno - da me infuori - badava alle sue parole. La comitiva col dottore a capo veniva al mio letto; io mi sentiva il cuore a palpitare, quasi di paura.
«Avvenne intorno a me, precisamente come era avvenuto intorno al mio vicino. Gli allievi si aggrupparono ai piedi; il dottore, la monaca ed alcuni pochi vennero a lato.
«- Oh oh! Eccolo tornato in sè questo giovanetto: disse il dottore appena mi ebbe visto; e voltosi alla monaca: gli è molto, domandò, che si trova di nuovo in cognizione?
«- Credo di no: rispose la suora; perchè passando non è guari di qua l'ho udito vaneggiare come il solito e dire le più strane cose del mondo.
«- Bene! disse il medico: l'accesso è vinto, ma per precauzione ci vuole un'altra dose di chinino. - Si ripeta la ricetta del solfato: soggiunse parlando a colui che teneva il registro, il quale scrisse in fretta in fretta due parole; poi, dirigendosi di nuovo alla monaca, il dottore continuava: dieta assoluta, acqua semplice da bere, il farmaco a cucchiai ogni due ore, da lasciarsi lì tosto, appena v'accorgiate che ripigli un po' di febbre. - Andiamo.
«Io non aveva detto neppure una parola: quella malavoglia, quella confusione per vedermi attorniato da tanta gente che mi guardavano non era cessata; ma la mia attenzione era principalmente rivolta su quello dei giovani che seguivano il dottore, il quale mi era sembrato essere Gian-Luigi.
«E' s'era venuto a postare a pie' del mio letto, precisamente come aveva fatto al letto del mio vicino, se non che a me accordava ancora meno attenzione di quella che avesse data a quell'altro. Quando l'ebbi davanti a quel modo, ogni dubbio in me scomparve: gli era proprio desso, più bello e più superbo che mai, tutto letizia, prosperità e brio. Parlava animatamente con un suo compagno, e pareva che l'argomento dei loro discorsi fosse le mille miglia lontano da quell'infelice luogo di miserie e di dolori ove si trovavano, poichè sorridevano spesso, e talvolta rompevano anche in piene risate, cui frenavano però tosto, se il dottor capo volgesse verso loro lo sguardo.
«Quando il medico, dopo quelle poche parole, si mosse per recarsi ad un altro letto, Gian-Luigi s'avviò ancor egli senza nè anche volgere uno sguardo alla mia volta. Non che non riconoscermi, io credo che non mi ebbe nemmanco veduto.
«Io, facendomi forza, chiamai la monaca che per fortuna s'era indugiata un poco affine di aggiustare le cortine del letto state scostate dagli allievi.
«- Che cosa volete? Diss'ella venendomi allato e curvandosi su di me.
«- Quel povero uomo da un'ora domanda da bere; abbiate la carità di dargliene.
«Il mio vicino pareva aver rinunciato alla sua inefficace richiesta; taceva e guardava. Certo non potè intendere le parole che io pronunziai con tanta voce appena da farmi udire dalla suora, ma le indovinò di sicuro, e ne fu certo, quando vide la monaca accostarglisi e porgergli finalmente alle labbra quel tanto agognato tazzone.
«Il misero bevve avidamente; poi, quando la monaca ebbe raggiunta la schiera de' medici egli mi rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e mi disse la parola grazie con un accento di tanto affetto, che io ne fui tutto commosso ed anche adesso, ricordandolo, me ne sento intenerito.
«Pover'uomo! Quella doveva essere una delle ultime sue soddisfazioni.
«A me l'accesso non tornò più: ma che notte penosa e lunga fu quella che succedette! Non potei chiuder occhio. Nel vasto e lungo camerone radi lumicini, posti qua e là, spargevano una fioca e debole luce, per la quale ricrescevano cupamente le ombre gettate dai letti. Ai miei occhi, in causa della mia debolezza, quelle ombre arrampicantisi sulle pareti come mostruosi ragni, stendentisi sul pavimento come giganteschi animali sdraiati, pigliavano mille forme stranissime e paurose. Ora mi parevano atteggiarsi a faccie orribili che mi facessero smorfie minacciose, contorcersi in corpi convulsi o spasimanti per dolore o raccoglientisi per un feroce assalto; ora mi parevano braccia immense terminate da mani adunche di rapina che si tendessero verso me ad afferrarmi; e, come rifiato di questo mostro indefinibile, inconcepibile, le respirazioni affannose dei malati e il rantolo di questo, la tosse convulsa di quello, i gemiti di tanti. Tutte queste voci di dolore facevano un accordo penosissimo che mi turbava profondo nell'anima; alcune volte però, per caso, capitava che tutti questi lamenti, questi suoni tacessero un istante, ed allora si aveva un silenzio - un silenzio di tomba - un silenzio che era più tremendo ancora, nel suo breve passaggio, del rumorìo interrotto. Mi pareva che fosse sorvolato l'angiolo della morte e colla sua ala potente avesse percosso ad un tratto tutte quelle esistenze, mi pareva di essere io solo vivente in mezzo ad una schiera di morti.
«Il mio vicino di destra era tra quelli che avevano più frequente il lamento; si capiva che il male veniva rapidamente compiendo la sua opera di distruzione, ed io ricordava l'atto del medico che annunziava prossima la fine di quell'infelice e mi domandava se quelli non erano i rantoli dell'agonia, se quei gemiti penosissimi, ma sempre più deboli, non erano gli ultimi, se l'alba del mattino avrebbe ancora trovata accesa la fioca oscillante fiammella di quella vita.
«Io non aveva mai visto a morir nessuno. Menico e Giovanna li avevo trovati morti, ma non avevo assistito al tremendo momento della morte. L'idea di questo istante mi riempiva di terrore. Al pensare che un uomo lì presso stava per trar l'ultimo fiato, per diventare insensibile cadavere, io sentiva un alto spavento possedermi tutto. La idea del poi - di quel terribile ignoto che ci spalanca la tomba - il pensiero del nulla - i quesiti in cui s'era già cotanto affannata fin quasi dall'infanzia l'anima mia irrequieta, mi venivano ad assalire più vivaci e pressanti che mai, e in quel momento, per la debolezza del mio cervello, riuscivano ad una dolorosissima confusione, ad un più tormentoso ancora avvicendarsi di dubbi, ad uno sforzo impotente e penoso di padroneggiare e guidare i miei pensieri disordinati e strani.
«L'alba tanto desiderata e sì lenta ai miei voti, venne pur finalmente. Una maggior quietudine era in tutti i malati; avevano rimesso d'intensità i rantoli, i lamenti e le tossi; il mio vicino aveva meno ansimante il respiro. Ma che ora triste era quella pur tuttavia! I lumi accesi gettavano ancora debolmente intorno a loro un cerchio di raggi giallastri, oscillanti; i primi chiarori che penetravano per le alte finestre erano d'un grigio livido e mettevano sugli spigoli degli oggetti certi riflessi di tinte fredde, stonate affatto cogli ultimi sprazzi mandati dai lumi che venivan spegnendosi. Un'indicibile melanconia risultava da quell'aspetto di cose, dalla dubbiosità di quell'ora, che non era più notte e non era ancora giorno. Mi sentivo venire a folate alle nari più acre che mai il tanfo di tutte quelle esalazioni malsane, di tutti quei respiri viziati; parevami, in paragone, più tollerabile ancora l'atmosfera della carcere in cui avevo sofferto pur tanto. Pensavo con amaro repetio alle belle aurore della campagna, ove ero vissuto sino allora, a quelle pure brezze mattutine, a quel mio diletto gruppo d'ontani vicino al rigagnolo corrente. Quando avrei potuto far ritorno ad essi? E che cosa avrei dovuto andarci a far tuttavia, ora che Menico e Giovanna non eran più? Parevami che gli avvenimenti succeduti mi precludessero affatto la strada del ritorno a quel diletto paese, che la mano del destino, la quale me ne aveva violentemente tratto via ad un punto, fosse là tesa innanzi a me ad impedirmene il passo.
«Quei giorni che avevo vissuti non sarebbero tornati più mai; e quali altri avrei potuto e dovuto vivere io, povero trovatello, solo sulla terra? Me se m'avesse raggiunto la falce della morte, che male sarebb'egli stato? Per me, no certo nessuno; e per gli altri? Meno ancora, poichè la mia vita a persona al mondo non era utile, nè potevo pur dire diletta. E tuttavia un'intima ripugnanza si levava in me al pensier della morte, ed ogni fibra dell'esser mio anelava alla vita!
«Il mio vicino aveva cessato quasi del tutto il suo rammaricarsi. Credevo che dormisse, ma, essendomi rivolto verso di lui, lo vidi cogli occhi aperti, levati in su e pieni di lagrime. Sentii più viva la profonda compassione ch'egli m'ispirava, e parvemi che alcuna mia parola avrebbe fatto un po' di bene a quel misero. Il mio miglioramento era tale che m'era tornato in corpo un po' di voce da farmi sentire dal letto del vicino distante appena se di due passi.
«- La va meglio stamattina: gli dissi.
«Stette un istante senza rispondermi. Parve raccogliere tanto di fiato da poter parlare, e frattanto ringoiare quelle lagrime che gli velavan la vista; poi mi disse a sua volta con voce cavernosa e stentata:
«- Il meglio della morte..... Purchè potessi durar tanto che mia moglie e i miei figli venissero!... Oggi per fortuna è giorno di visita... Ma morire senza averli intorno... senza più vederli!... Oh esser povero! Oh morire all'ospedale!.....
«Fu interrotto di subito da un singulto, e come se troppo si fosso stancato nello sforzo di pronunziare tali parole, l'affanno lo riprese più forte di prima. Chiuse gli occhi, ned io osai più, nè ebbi voglia altrimenti di disturbarlo.
«Ma le disperate parole del morente mi suonavano nel capo come una fiera minaccia, come la pronunzia d'una tremenda condanna:
«Oh esser povero!... Oh morire all'ospedale!...
«A seconda che il giorno cresceva, crescevano pure nel mio vicino l'agitazione e il rantolar del respiro. I suoi occhi irrequieti non facevano che guardar fiso verso quella parte per cui s'inoltrava chi venisse dal di fuori; stanco li chiudeva di quando in quando, ma al primo rumor d'alcuno che si movesse li apriva sollecito con immensa ansietà di desiderio a mirar chi venisse, e poichè mai non erano quelli che con tanto spasimo stava aspettando, mandava un più desolato sospiro e tornava ad abbassar le palpebre con rassegnata disperazione.
«Quando la monaca di servizio gli si accostò per vedere s'egli alcuna cosa desiderasse, l'infelice con quel po' di voce che glie ne rimaneva onde appena nell'affanno del rantolo poteva formar le parole, domandolle che ora fosse, e poichè la suora gli ebbe risposto che appena le otto, egli non disse più verbo, non aprì gli occhi, ma quel sospiro desolato gli uscì ancora più doloroso dal petto, e giù dalle guancie gli calarono silenziosamente quelle lagrime che il giorno innanzi io gli aveva già visto brillar nella pupilla. Il disgraziato aveva perduto ogni speranza di vedere ancora i suoi.
«Poco stante venne la visita medica del mattino. Gli stessi individui, lo stesso modo di procedere. Mancava però Gian-Luigi, pel quale quella era forse ora troppo mattutina.
«Quando furono al letto del mio vicino di destra, il dottore non istette nè a interrogare, nè a toccar polso nè altro. Il giacente aveva gli occhi chiusi ed ansimava penosamente.
«- Siamo alla fine: disse il medico senza riguardo di sorta; e parlando poscia alla monaca: chiamate pure il prete, soggiunse, che questo buon uomo è già entrato in agonia.
«Il corpo del moribondo si scosse in un lieve sussulto, e gli occhi gli si spalancarono vitrei, quasi opachi, ma pieni di spavento; guardò di qua e di là esterrefatto, agitò le labbra, ma nessuna voce ne uscì, e mentre i medici si allontanavano, un singhiozzo d'infinito dolore fisico e morale prorompeva da quel petto affranto, già oppresso dall'affanno della morte.
«La visita medica era finita in tutto il camerone, quando sopraggiunse il prete fatto venir dalla monaca per confortare gli ultimi momenti del moribondo. Io guardava con una curiosità mista d'ansia, di pena e di terrore. Il prete s'accostò freddamente al letto del moribondo, come uomo avvezzo a questa sorta di cose, nel quale perciò la sensibilità rimane smussata. La faccia grossa e volgare diceva inoltre che in lui quella sensibilità non doveva mai essere stata nè molta, nè viva; aveva un libro sotto il braccio ed una stola in mano; camminava adagio volgendo gli occhi di qua e di là, ed annasando lentamente una presa di tabacco. Giunto presso il letto, guardò il giacente che teneva gli occhi chiusi e rantolava in modo sempre più penoso, e domandò alla monaca:
«- È egli ancora in cognizione?
«Il prete si curvò sul letto del morente.
«- Ehi, brav'uomo, diss'egli con voce più alta, come per destare un che dormisse, mi udite voi? capite voi quello che dico?
«L'infermo non fece segno alcuno che indicasse aver egli inteso.
«- Questo povero diavolo è più di là che di qua: disse il prete; ma ad ogni buon conto qualche parola d'esortazione non può far male.
«E con voce trascinante, con quel tono convenzionale di bigotta che prega, si diede a pronunziare le seguenti frasi all'orecchio del giacente:
«- Pensate al vostro Salvatore che morì sulla croce per voi, pensate all'agonia ch'egli soffrì su quella croce.
«Qui s'interruppe per dire colla sua voce naturale alla monaca:
«- A proposito, dove ci avete un crocifisso?
«La monaca prese un crocifisso di legno su tavolino dove lo aveva posato, e lo porse al prete.
«- Eccolo qua.
«Il prete lo prese e lo pose sul petto del moribondo, poi ripigliò colla voce dolcereccia, nasale che ho detto poc'anzi:
«- Gli è qui che vi assiste il vostro Salvatore; mettete nelle sue mani l'anima vostra, e con profondo atto di contrizione domandategli perdono di tutti i vostri peccati.... Voi state per comparirgli dinanzi....
«Il moribondo fece un sussulto e il suo rantolo cessò.
«- È passato: disse la monaca.
«- Non ancora: rispose il sacerdote; ma siamo proprio agli estremi.
«Prese colle due mani la stola, ne baciò con atto puramente meccanico - atto di abitudine - la croce che si trova a metà di essa e passandosela sopra la testa se la pose in ispalla; poi aprì il libro che aveva recato seco e si mise a borbottare le preghiere pei moribondi.
«La monaca s'inginocchiò a piè del letto e veniva rispondendo amen di tanto in tanto e finalmente quelle stupende parole della liturgia: et lux perpetua luceat ei!
«Quando ebbe finito, il prete chiuse il libro, si levò la stola, che ripiegò intorno al volume e mise così avvolta sulla sponda del letto. Il giacente era immobile affatto; gli occhi gli si erano aperti, ma le pupille erano appannate, fisse, senza sguardo; la bocca erasi contratta e le labbra aperte ed immote pendevano da un lato.
«- Datemi un cerino, suora Genoveffa: disse il prete.
«La monaca trasse di tasca un cerino aggomitolato e lo diede al prete, il quale levatosi di tasca un fiammifero lo sfregò per terra e con esso infuocatosi accese il cerino. La fiammella fu posta innanzi alle labbra ed al naso del giacente, e non si ebbe la menoma oscillazione che potesse indicare il più lieve alito di fiato.
«Il prete spense il cerino e lo restituì alla monaca; questa abbassò le palpebre sugli occhi del morto, e tutti due si apprestavano a partire, quand'ecco precipitarsi nel camerone e correre verso il letto dell'infelice estintosi allor allora, una donna che poteva dirsi il ritratto della miseria, trascinandosi dietro quattro bambini di varia grandezza, ma di cui il maggiore non passava certo i dieci anni.
«- Il mi' uomo! Gridò essa disperatamente.
«- È spirato adesso adesso: disse freddamente il prete.
«La donna si fermò su due piedi e mandò un'esclamazione così dolorosa che me ne vennero le lagrime agli occhi ad udirla; poi si contorse le braccia con parossismo quasi furibondo di dolore, e levando al soffitto gli occhi convulsi, pronunciò fra i più penosi singhiozzi:
«La monaca più pietosa le venne allato e mettendole dolcemente una mano sul braccio:
«- Coraggio e calma, le disse.
«Ma la sventurata, rigettandola quasi con ira:
«- Calma! calma? Il mio pover'uomo, il mio pover'uomo, il mio unico sostegno.... la morte me lo ha tolto.... Ah! Dio non è giusto.
«- Oh! oh! Esclamò con tono di rimprovero il prete: guardatevi bene dal bestemmiare, buona donna. Bisogna curvare il capo rassegnati innanzi a Quel di lassù, e quando ci manda una prova, benedirne la mano che ci percuote. Dunque non c'è nulla da farci e bisogna aver pazienza.
«Così dicendo, il prete fece ad allontanare la povera donna dal letto del morto; ma essa, rigettandolo con più forza ancora e con più furore di quello che non avesse fatto alla monaca, si pose a gridare:
«- Mi lasci passare, voglio vederlo il mi' uomo.... voglio vederlo per Dio!... Nessuno mi potrà impedire di abbracciarlo l'ultima volta.
«E con abbandono disperato si gettò sopra il cadavere ancora caldo di suo marito.
«- Oh perchè non ti ho potuto tener meco, mio pover'uomo? Diceva essa in mezzo ai più strazianti singhiozzi: perchè ti hanno voluto trasportar qui lontano da tutti i tuoi, qui dove ti hanno ammazzato?... Sì ti hanno ammazzato coi loro salassi, colle loro droghe.... noi povera gente sì che glie ne importa a loro che crepiamo.... tanti di meno a mangiar pane.... io t'avrei guarito, io che avevo da conservarti ai miei figli.... Ed ora che ne sarà di questi tuoi miserelli di figliuoli?.... Chi ne darà loro da mangiare?.... O almeno saresti morto in mezzo a noi, circondato da noi... e non qui, solo, senza uno de' tuoi allato...
«La sua voce suonava forte e straziante pel camerone: i bambini, che non capivano molto, ma che vedevano la loro madre così disperatamente desolata, si aggrappavano alle di lei vesti, la tiravano e strillavano piangendo; era pei malati una troppo dolorosa commozione; gl'inservienti e le monache accorsero in frotta al rumore. Presero in mezzo la donna e i bambini, li ragionarono, li rampognarono, li confortarono, e tanto fecero che la donna, diventata taciturna con grosse lagrime che le colavano giù dalle guancie, si rassegnò a lasciarsi condur via. Ma quando ebbe fatto appena pochi passi allontanandosi dal letto, tutta di colpo si riscosse; si sciolse dalle monache ond'era attorniata, e sclamando: - Ah! ch'io lo veda ancora una volta, tornò precipitarsi sul morto corpo del marito il cui volto coprì di nuovo dei baci suoi. Quindi se ne tolse da se stessa in apparenza più calma; si premette le mani nere ed incallite sugli occhi e pronunziò con tale accento di dolore che io non potrò obliare giammai, queste parole:
«- Non lo vedrò più.... più mai!... Oh almeno l'avessi visto a morire!
«E coi suoi figli aggruppati intorno si allontanò quindi mesta, curva, barcollante, come spinta ed oppressa insieme dalla mano della sventura.
«Povera donna! Io era voltato col viso dalla parte del morto e avevo innanzi gli occhi la faccia di quel cadavere. Non potevo staccarne lo sguardo quantunque mi facesse una pena quasi paurosa a mirarlo. La morte aveva passato su quei lineamenti contratti dal dolore pur dianzi, la sua mano appianatrice: una gran calma sembrava spirare da quel volto ingiallito, ma insieme una gran mestizia eziandio, una mestizia però rassegnata e mite. Il misero aveva cessato di soffrire, ma quanta angoscia non doveva essere stata la sua quando l'occhio smarrito, sbarratosi negli ultimi fremiti dell'agonia, cercava invano intorno a sè le care sembianze dei suoi! Ma qual dolore per l'infelice donna superstite, che non aveva potuto consolarne gli estremi momenti, che non aveva potuto far impartire l'ultima benedizione a' suoi figli così presto orfani di padre!
«Oh! pensavo, anche la morte è dunque più trista pel povero?...
«Ed allora un'immensa amarezza m'invase, uno scoraggiamento, quasi uno sgomento profondo dell'anima. Quel letto che al mio primo risensare mi era parso così agiato, ora mi tornava irto di spine, l'atmosfera satura di miasmi di quell'ospedale mi riusciva di botto gravissima a respirare, quasi intollerabile, quel cadavere innanzi agli occhi mi faceva paura.
«Fu sollecita, è vero, la monaca che lo aveva assistito nell'agonia, a tornare indietro, appena la donna fu uscita dal camerone, e tirò tutt'intorno le cortine del letto in guisa che la vista del morto venne tolta ad ogni sguardo; ma io sapeva che dietro quelle tende bianche e bleu c'era un cadavere, e coll'occhio della mente lo vedevo pur sempre, con quella sua bocca spalancata e storta, con quell'aspetto di mesta rassegnazione e di abbandonata quiete.
«Più tardi vennero due uomini con una barella, questa deposero ai pie' del letto, poscia entrarono sotto le tende e per parecchi minuti si agitarono uno da una partw dal letto e l'altro dall'altra, imprimendo alle cortine distese una nuova forma, nuovi sgonfi ad ogni loro mossa; quando ebbero finito, trassero ai lati le cortine e il cadavere apparve sul letto, tutto avvolto nel sudario; lo presero a braccia, lo recarono nella barella coperta, e via, lasciando il letto disordinato.
«- Ora lo portano al gabinetto anatomico e domani sarà tagliuzzato per lezione degli studenti: mi disse l'altro mio vicino di sinistra con una specie di sogghigno e con una voce stridula che mi fece ghiacciare il sangue e correre un fremito per tutti i nervi.
«Neanche dopo morto, il povero, crepato all'ospedale, non è tranquillo.
«Nella giornata furono portati via il materasso e il pagliericcio di quel letto, ma due giorni dopo tutto era rimesso a posto, e un altro infermo dolorava a quel medesimo luogo.
«Quando ebbi visto giungere, sostenuto a braccio da un infermiere, un altro povero diavolo coi segni della miseria ancor esso negli abiti e nelle sembianze e venir condotto a quel letto ed esser fatto in esso coricare, un nuovo assalto d'amarezza mi prese. Pensai con ispavento che in quel letto eziandio dove avevan posto me, poco tempo prima, il giorno innanzi fors'anco, poteva esser morto un altro infelice, ed io era venuto a prenderne il posto, come questo nuovo sopraggiunto si sdraiava lì dove era spirato il suo predecessore.
«Per allora questi pensieri non facevano capo a nulla di preciso, ma più tardi, quando anche più maturata la mia mente, tornandovi su ne' miei fantasticari, si conchiusero in alcune opinioni che forse sono paradossastiche, ma che a me pare contengano la verità - se non quella dell'oggi - quella che condurrà seco il progresso di domani.
«La carità sociale ha già fatto molto creando quegli ospizi in cui si raccolgono a curare gratuitamente i poveri caduti infermi; ha fatto moltissimo, se si paragona codesto a quel tempo di barbarie, in cui si lasciavano morire nei loro miserissimi tuguri senza od appena con qualche stentato e inefficace soccorso. Gli è certo sotto l'ispirazione d'un progresso che la società si disse: «quegl'infelici di proletari che mancano di tutto alle case loro, come vi potranno ricevere assistenza appena discreta nelle loro malattie? Raccogliamoli tutti insieme in luoghi appositi, dove con minori mezzi appunto, per la forza maravigliosa dell'associazione, potrà ciascuno dei ricoverati avere tutto o quasi tutto quello che loro può occorrere.»
«Ma non si era tenuto conto a tutta prima di questo fatto, che se la mancanza di mezzi materiali è cosa essenzialmente sventurata pur troppo nella cura dei malati, di uguale forse o di poco minore importanza è altresì il difetto dell'amorevolezza nell'assistenza, di quella soave temperie che crea intorno l'animo del sofferente il vedersi circondato da un vero interesse e da un caldo affetto. Ciò fu ben sentito più tardi da quell'anima celeste che fu S. Vincenzo di Paola, il quale istituì l'ammirabile ordine monastico delle Suore di Carità; ma per quanto queste sieno pietose e zelanti e superiori ad ogni elogio (come niuno può negare che sieno in generale), è tuttavia pur sempre ben diversa cosa l'interessamento d'una persona estranea, la quale ancora, se dall'abitudine acquista una certa pratica del servizio degl'infermi, ha insieme da quest'abitudine medesima, o smussata d'alquanto la sensibilità o quanto meno di certo non pari e non capace di rivaleggiare con quella dei congiunti dell'infermo - madre, moglie, figliuola, sorella.
«A codesto si ha da aggiungere tutto il resto di malessere e di inconvenienti che risultano dall'agglomerazione nello stesso luogo, nella stessa stanza di più malati, dei quali il soffrire dell'uno va ad aumentare e rincrudire il soffrire dell'altro, e il servizio di questo è un incomodo, un turbamento, un danno anche parecchie volte, alle condizioni di quello.
«I pregiudizi del popolo, anche i più falsi e perniciosi, hanno quasi sempre un fondamento in alcuna realtà che viene pur troppo esagerata: consulta tutta la povera gente in proposito, e fra quei miseri, che pure non hanno modo alcuno da questo in fuori di aver soccorso, troverai pochi, per non dire nessuno, che non senta una viva ripugnanza a farsi ricoverare negli ospedali. Senza ragionarvi sopra, senza avere fors'anche un'idea precisa della causa di questa ripugnanza, ciascuno di essi sente che molto lascia a desiderare in quel modo di soccorsi la carità pubblica; ed accrescendo colla mobile e impressionabile fantasia i mali di quel sistema, per lo più non si acconsente a recarsi allo spedale che quando la necessità lo comanda loro in guisa assoluta, e per molti già con soverchio ritardo pur troppo.
«Io credo che un nuovo progresso sarà quello in cui il malato non venga più tolto dalla sua famiglia, ma nel seno di questa al medesimo vengano apprestati tutti quei soccorsi e d'assistenza, per mezzo delle stesse Suore di Carità per esempio, e di medici e di farmaci, per goder dei quali ora lo si costringe a recarsi negli appositi ospizi, e che in questi non saranno ricoverati altri più che quelli i quali o non hanno famiglia di sorta, od anche avendola consentono volonterosi a staccarsene per riparare all'ospedale.
«Codesta quistione sta legata con quell'altra non irrilevante essa pure degli alloggi della povera gente; ma se io entrassi a parlare di ciò la tirerei troppo in lungo. Forse verrà tempo in cui avrò da parlartene di proposito.... Ora perdonami la digressione e ritorno al mio racconto.
«Ero pressochè guarito, quando fra le molte Don Venanzio venne a vedermi una volta. Mi disse che si preoccupava del mio avvenire, che era tempo oramai di pensarci e mi domandò se avessi qualche idea, qualche progetto in proposito. Gli confessai che non avevo su codesto nè anche un principio di decisione: che bene mi era balenato il pensiero e il desiderio di tornarmene alla dimora ed alla vita del villaggio, ma che non avevo tardato ad accorgermi ciò essere impossibile; che cosa sarei andato ancora a far colà peggio disprezzato di prima, e forse in sospetto ancora dei più? Alquanto mi allettava pure il soggiorno nella popolosa città, dove avrei trovato forse di meglio impiego alla mia attività. Se io fossi stato padrone del mio destino, forse non sarei venuto in questo viavai agitato e pericoloso, comecchè il segreto desiderio mi vi spingesse, ma poichè era il caso che mi ci aveva a forza trascinato, pensavo rimanerci. In che modo e con quali opere non sapevo ancora, ma speravo trovare occasione e compenso a lavorare, come ne avevo volontà.
«Don Venanzio, prima di rispondermi, stette un poco a pensarci su; poscia mi disse che non avevo affatto il torto, e che una parte di quelle cose che gli avevo espresse, aveva pensato ancor egli. Suo primo proposito, a mio riguardo, era stato quello, appena vistomi dotato d'una certa intelligenza, di allevarmi al sacerdozio; vestito della rispettata cotta pretesca, mi avrebb'egli ottenuto d'esser maestro al suo villaggio, diventato anche mio. La mia qualità di trovatello sarebbe così stata riscattata agli occhi dei contadini dalla dignità dell'abito sacerdotale, e i padri di famiglia non avrebbero avuto scrupolo nè ripugnanza più ad affidarmi i loro figliuoli da educare, cosa che forse e senza forse sarebbe accaduta conservando io le vesti da secolare. A vedermi insignito degli ordini sacri, aveva egli rinunciato già da un poco, e non senza pena, me lo confessava, quando ebbe visto in me cedere sventuratamente, coll'aumentar dell'istruzione, la fede. Ora nè a vestir io la cotta talare, nè a farmi maestro del villaggio, nè pel momento a tornar neppure in quest'ultimo non era da pensarsi più. Dopo quanto era intravvenuto, quella popolazione rurale mi avrebbe peggio riguardato di prima, e mettermi ad educare la prole di essa era impossibile impresa anzi tutto, e tale ancora di poi, cui egli nemmanco non avrebbe più voluto affidarmi, perocchè fosse sua ferma persuasione, il maestro dell'infanzia dovere agli allievi, coi primi rudimenti del sapere, istillare quella preziosa e doverosa cosa che io non aveva più, il tesoro delle credenze religiose ortodosse; creder egli quindi necessario cercassi qualche modo di ricavarmela a Torino stessa dove mi trovavo. Io abbisognava d'un impiego dove avessi potuto guadagnar subito, imperocchè non avessi modo alcuno di sparagni nè d'altro da sostentarmi, e la cosa era difficile assai a trovare, perchè, sapendo pur io molte cose in paragone del mio stato, in sostanza poi, che cosa per allora ero buono a fare? Ma egli aveva conoscenza con certe famiglie ricche e potenti, fra cui principale quella all'intromissione del cui capo io andava debitore della mia liberazione dal carcere; avrebbe parlato a questo ed a quest'altro ed avrebbe senza fallo trovato ad allogarmi o qua o colà per fare qualche servizio che mi potesse convenire e che mi guadagnasse onestamente il pane.
«Lo ringraziai con effusione, e ci lasciammo con questo fermato proposito. Si trattava insomma di entrare a far da servo in qualche famiglia signorile. La cosa a tutta prima mi tornò la meglio conveniente che mi si parasse dinanzi. Non ero io servitore poc'anzi di Menico e di Giovanna? Ma essi mi avevano preso fanciullo, mi avevano allevato, ero come cosa loro; entrare non conosciuto in una famiglia ignota per sottostare alle volontà di chi sa chi, più ci pensavo e vieppiù mi appariva di poi cosa diversa. Mi ricordai ad un tratto del bottone di livrea che tenevo sempre meco del pari che il rosario, come cosa preziosissima. Questi oggetti mi erano stati tolti all'entrare nel carcere, ma me n'era stata fatta la restituzione all'uscire di colà, ed ora all'ospedale, appena tornato in me, li avevo ridomandati e li tenevo sotto il guanciale ove posavo la testa. Trassi fuori quel bottone e lo stetti contemplando per un poco. Era forse un indizio della condizione a cui apparteneva mio padre. Ancor egli probabilmente aveva servito; nulla era più naturale che il figliuolo altresì mangiasse di quel pane. Eppure, a seconda che mi ingolfavo in questi pensieri, mi nasceva in cuore e si faceva sempre più viva una ripugnanza contro siffatta condizione, la quale mi pareva un umiliarsi, cui finivo per apprezzare come una vergogna alla mia personalità. Guardando quel bottone vedevo il soprabito a cui doveva essere attaccato, e vedevo me vestito del medesimo ai cenni d'un padrone capriccioso. A codesto doveva far capo quella intelligenza che sentivo in me? Nient'altro di meglio dovevano conseguire il tumulto de' miei pensieri, le mie audaci aspirazioni, quello che avevo imparato e la capacità, onde avevo coscienza, di imparare assai più?
«Ad un tratto una subita idea mi assalse. Qui a Torino era Gian-Luigi; perchè non sarei ricorso a lui? La memoria dell'infanzia passata insieme, la promessa ch'egli stesso mi aveva fatta di ciò, lo avrebbero sicuro spinto a darsi alcuna briga per me. Non avevo bisogno di cercar molto affine di rintracciarlo, perchè in quell'ospedale ov'egli veniva - quantunque frequenti fossero le mancanze - avrebbero saputo dirmi di certo dove lo avrei potuto rinvenire. Mi parve quella la più felice ispirazione che fosse, e me ne sentii tutto lieto e quasi sollevato dell'animo.
«Ed ecco, quasi che la fortuna mi volesse in codesto assecondar proprio del tutto, ecco che io non aveva nemmanco finito di pensare ciò, quando vidi spuntare nel camerone la brigata degli studenti di medicina per la solita visita, col professore in capo, e nella schiera, aitante e sempre più per distinzione sopra ogni altro notevole, Gian-Luigi medesimo.
«Quando i visitatori furono al mio letto, siccome ero già in piena convalescenza, non si fermarono neppure; passandomi innanzi il medico volse verso me la testa e mi domandò:
«- La va sempre bene, giovinotto?
«E siccome io risposi di sì, continuò il suo cammino senz'altro.
«Gian-Luigi passava ancor egli, senza badare a me più questa che le altre volte. Io radunai tutto il mio coraggio, e lo chiamai per nome ad alta voce, ma un pochino tremante. Egli si riscosse, mi guardò fiso e mi riconobbe: parve un po' conturbato, o per dir meglio contrariato; esitò un istante e credetti fosse per tirar diritto cogli altri senza darmi punto retta; siccome assolutamente mi premeva il parlargli, benchè sentissi più tremante ancora farsi la mia voce, imperocchè il cuore mi battesse concitato, mi apprestavo a ripeter l'appello, quand'egli, come accortosi di quella mia intenzione, sembrò ravvisarsi e venne a me sollecitamente.
«- Sei tu? mi disse affrettato senza lasciarmi aprir bocca. Ed io non t'ho mai visto, o per dir meglio non riconosciuto? In fede mia non mi sarei mai più aspettato di trovarti qui.
«Nella sua premura, nell'accento delle sue parole non sentii caldezza nessuna d'affetto od interesse di sorta; ma piuttosto la fretta di sbrigarsi da colloquio che non molto gli andasse a grado, l'impazienza di trarsi fuori da cosa che lo contrariasse.
«Gli dissi del gran bisogno che avevo di parlargli.
«- Va bene: mi rispose interrompendomi; ma adesso no; adesso non posso. Bisogna ch'io segua la visita. Continuo i miei studi da medico, ed è perciò che tu mi vedi qui. Tornerò per udirti e parlarti in ora più opportuna, quando lo potremo con più comodo. A rivederci.
«Non mi strinse neanche la mano e mi lasciò per raggiungere in fretta i compagni.
«Quel suo contegno mi diede una tristezza che potrei chiamare un dolore. Ricordai la freddezza dell'addio nella sua partenza, e mi dissi che questo accoglimento nel rivedermi era peggio ancora scevro d'ogni affezione. Entro il suo cuore io dunque non ci aveva proprio più posto, e non sapevo capirne il perchè. Ero troppo inavvezzo ancora per indovinare che in presenza de' suoi attuali compagni, egli - il mio compagno d'infanzia, un trovatello al pari di me - si vergognasse di conoscere un cencioso villanello malato all'ospedale.
«Egli però mantenne la sua parola e quel giorno stesso venne a vedermi da solo. Il suo contegno fu tutt'altro da quello della mattina. Mi serrò con effusione tuttedue le mani, mi prese fra le sue braccia e mi strinse al suo seno, baciandomi e ribaciandomi; sedette presso il mio letto, e tenendo fra le sue mani la mia destra ascoltò con viva attenzione il racconto dei fatti miei.
«Innanzi a quei suoi modi gentilmente affettuosi tutta quell'amarezza che era nata in me contro di lui pel trattamento usatomi quel mattino medesimo si dileguò ratto come la prima neve sottile ai raggi caldi d'un bel sole. Mi sentii l'animo riconfortato; e la irresistibile seduzione che quel giovane esercita sopra ognuno quando voglia, riprese tutto il suo impero su me.
«Egli mostrò caldamente interessarsi ai miei casi cui compatì, si mostrò spiacente assai di ciò sopratutto che io fossi stato in prigione, e vivamente disse e ripetè insistendo che anzi ogni cosa io aveva da mettere tutte le mie cure nel nascondere ad ognuno e sempre questa circostanza. Le sue parole a tal proposito mi ricordarono quelle di Graffigna.
«- Il carcere, vedi, così mi diss'egli, nella nostra stupida società che vive di pregiudizi e di pecorili usanze, imprime a chi lo subisce una specie di marchio indelebile che lo addita al sospetto ed alla disistima di tutti - specialmente degli sciocchi che sono l'immenso maggior numero - e ciò qualunque sia la causa, fosse pure un errore, per cui questo carcere fu subìto. Codesto di certo non accade con me. Prima di tutto io ti conosco per bene; e poi sono superiore al volgo d'ogni fatta - anche a quello che calza guanti e va in carrozza, il quale in molte cose è più crassamente volgo dell'altro. Ma faremo bene in modo che niuno abbia mai da saperne un'acca. Per presentarsi nel mondo bisogna avere un nome ed una famiglia ed un passato che si possa raccontare francamente a tutti. Nè tu, nè io non abbiamo nulla di codesto; ebbene faremo per te ciò che ho già fatto per mio uso; ti fabbricheremo un passato, una famiglia ed un nome. Dimmi frattanto se tu hai qualche progetto sul tuo avvenire.
«Gli contai ciò che s'era detto e deciso fra Don Venanzio e me, e gli confessai la mia ripugnanza ad acconciarmi come servo. Gian-Luigi crollò il capo e levò le spalle.
«- Quel Don Venanzio è il miglior prete del mondo, diss'egli, ma il più disadatto ad immischiarsi in queste cose. Eppoi ti ho detto che bisognava fabbricarsi un passato acconcio, ed il vecchio parroco è la realtà vivente del passato che occorre nascondere. M'incarico io del tuo avvenire; ho già in vista quello che fa per te; manda a spasso il parroco e lasciami fare.
«Mi affidai tutto in esso, e promisi avrei fatto a suo modo. Quindi lo richiesi di lui, della sua vita e delle sue condizioni.
«Egli mi rispose con una leggerezza spensierata e piena di allegro brio:
«- Io? Sono niente ancora, ma tendo le fila per diventare..... che cosa? Non so bene, ma pur tale che conti..... Vivo tuttavia sulla somma pagatami dagli eredi del mio protettore. Il giuoco, in cui la fortuna mi seconda, accresce i miei proventi ed allunga la vita a quel capitale che faccio correre al gran trotto a tiro a quattro sullo stradone delle spese e del lusso, lasciandone un lembo ad ogni segnacolo della via. È una vita turbinosa che inebria. Prima che quel capitale sia finito, qualche cosa avrò trovato. Seguito gli studii di medicina pro forma; e poi perchè la fisiologia, oltre all'essere curiosissima scienza, mi può diventar utile; ma intanto studio più profondamente il mondo e la società, questo gran libro in cui tutto è scritto e in pochi sanno leggere, questo malato cui la cancrena travaglia e il medico da saperlo curare non è ancora nato. Tu studierai meco; e ci aiuteremo a vicenda. La tua potenza d'osservazione e la mia nativa acutezza di scetticismo diffidente sono fatte apposta. Comincieremo per mettere a nudo questo mondo mascherato e imbellettato; lo sviscereremo come fa l'oste che aggiusta un pollo per farlo arrostire; poi lo domineremo. L'anatomia d'un cadavere è cosa interessantissima: è tale a mille doppi quella d'un organismo vivo, quella d'una personalità immensa quale si è la società umana. Siamo dunque intesi. Di quest'oggi stesso mi occuperò de' fatti tuoi, e non tarderò molto a venirtene a dire i buoni risultamenti. Addio.
«Si partì così, lasciandomi nel cuore un poco di quella vivacità, di quelle speranze, di quell'ambizione fors'anco che davano al suo carattere ed ai suoi modi animazione cotanta; e con ansia stetti aspettando il suo ritorno.
«Non tardò infatti gran tempo. Il domani stesso, non essendosi lasciato vedere alla visita, venne da me all'ora stessa in cui avevamo avuto il colloquio che t'ho detto, e mi apparve tutto raggiante.
«- È cosa fatta, mi diss'egli senza indugio, sedendosi presso il mio letto. Tu sei bello ed allogato. Lo stipendio non è dei più grassi: sessanta lire al mese, alloggio, tavola, bucato..... e qualche incerto guadagno che vedrai venire fuori e di cui imparerai ad approfittarti. Non è uno stipendio da ministro, ma per cominciare!..... I grassi stipendii verranno poi. Hai tu mai sentito a nominare il sig. Nariccia?... No? - È giusto. Laggiù nel villaggio nessuno lo conosce. Ma qui in Torino è cosa diversa. Ei tiene mezza la città nei suoi artigli - artigli è il vero termine - e tutta la gente lo conosce e nutre per lui un'osservanza!.... l'osservanza che si merita un Rotschild acconciato alle proporzioni del nostro paese! Questo personaggio, in apparenza umile, vestito come un vecchio usciere, maneggia i milioni come tu non hai potuto ancora fare coi centesimi. Ha denari da tutte parti. La banca Bancone lavora a suo conto; tutti gl'impresari di lavori pubblici vanno avanti co' suoi capitali; è il segreto padrone di tutti i pubblicani delle gabelle. Ti ricordi del bastone di Bruto? Una verga d'oro in una corteccia di ramo di sambuco. Questo è un milionario nei panni d'un usuraio. Ma un usuraio che sa fare ammodo; di quanti pela, nessuno ha gettato ancora mai un grido che lo compromettesse. Io l'ho conosciuto per azzardo, e ne ho coltivata la conoscenza per progetto. Ho acquistato presso di lui una domestichezza cui non accorda a chicchessia. C'è molto da imparare praticandolo, e mi sono fatto promessa solenne che avrei imparato tutto e per bene. Ha bisogno d'un cotale che gli scriva le sue lettere senza errori di grammatica e con buona ortografia, e che gli rediga con sintassi i discorsi che ha da pronunziare nelle congregazioni religiose e di carità di cui è membro zelantissimo e nelle società commerciali in cui abbindola pulitamente soci ed azionisti. Aveva offerto a me questo impiego: ma io sono già troppo innanzi negli occhi del mondo per accettarlo. Tu cominci appena, ed è questo il miglior principio e più vantaggioso economicamente che ti si possa presentare. Mi sono fatto dar parola che avrebbe accolto il mio raccomandato. Inventeremo una storiella apposita che ti intrometta colla più naturale verosimiglianza. Ponendo il piede sulla soglia di quella casa, tu entrerai nella strada che mena alla ricchezza. Mi dirai un bel giorno che mi devi la tua fortuna. Guarisci adunque sollecitamente perchè io possa presentarti a messer Nariccia. Le cose più presto si fanno e meglio è per ogni verso.
«La proposizione di Gian-Luigi, a dire schiettamente il vero, non mi lasciava del tutto soddisfatto; c'era anzi qualche segreta cosa che me ne allontanava; ma la foga delle parole e la sicurezza di Gian-Luigi mi stordivano quasi, e non mi permettevano il coraggio di pur manifestare quella specie di mia malavoglia. Accettai e ringraziai. Se non altro avevo un pane assicurato ed avevo i piedi fitti in questa folla agitata della capitale che mi attirava e spaventava nello stesso tempo.
«Gian-Luigi mi aveva lasciato da pochi minuti, quando mi si presentò sollecita la faccia ilare e improntata di tanta benevolenza di Don Venanzio.
«- Il Signore ci ha aiutati: cominciò senz'altro il buon prete, tutto giulivo: ti ho trovato il miglior posto che si potesse desiderare. Ho parlato di te al marchese di Baldissero medesimo, e quel generoso ha consentito a prenderti seco egli stesso e provarti per sapere quale ufficio ti possa competere e debba quindi assegnarti. Gli ho detto tutto di te; non hai perciò nulla da nascondergli, nulla da dissimulare; come nulla del pari verrà più a farti ricordare le traversie passate. Il marchese sa che il labbro di questo vecchio servo di Dio non si è macchiato mai d'una menzogna, ed affermandogli io la tua innocenza, egli crede ad essa come ad una verità di cui avesse la prova: per la medesima ragione crede al tuo ingegno ed alla tua istruzione. Volentieri egli si presta per salvare dalla miseria e da ogni pericolo di male una creatura di Dio, i cui mezzi non comuni furono forse dalla Provvidenza concessi ad ottenere un gran bene. Se vi è uomo che possa coll'esempio, coll'autorità, cogli ammaestramenti indirizzare un'anima umana sulla buona strada, ispirarle i più sani principii e le più maschie e cristiane virtù; se v'è uomo che meriti rispetto, quello è il marchese. Tu, ne son certo, benedirai la benignità della Provvidenza, e me che fui di essa stromento, per averne ottenuto un tanto favore.
«Io rimasi imbarazzatissimo e non seppi di botto che cosa dire. Se il parroco fosse venuto a propormi d'entrar precisamente da domestico, avrei avuto il coraggio di manifestargli senza esitazione la mia ripugnanza e il mio rifiuto; ma ora le parole di lui mi adombravano una condizione ben diversa da quella che io aveva supposta, e in tal caso, posto in bilancia la fiducia che si meritava la prudenza affettuosa del buon vecchio e quella che l'avventatezza egoistica di Gian-Luigi, le qualità di gentiluomo presso cui voleva allogarmi Don Venanzio e quelle del trafficatore di denaro, al quale aveva promesso l'opera mia il giovane mio amico, non c'era da esitare un momentino nella scelta, anche per la mia inesperienza d'allora. Oltre ciò al marchese di Baldissero non doveva io già una certa riconoscenza per essere egli stato l'autore della mia sollecita liberazione? Quindi se alcun valore era in me, non mi toccava forse l'obbligo di questo impiegare in servizio di lui piuttosto che d'altri? Di più, senza che io me ne sapessi spiegare la cagione menomamente, il nome solo di quella famiglia - di Baldissero - fin dalla prima volta che io l'aveva udito, forse perchè il capo di essa m'era apparso come un genio tutelare che mi avesse protetto, m'aveva ispirato un certo non so che d'indefinito che era simpatia, che era reverenza, un misto confuso di sentimenti il cui effetto era di farmi sembrare che a quella famiglia io non fossi affatto affatto estraneo, che alcun legame segreto mi vi avvincesse, non so come; onde alle parole di Don Venanzio fortissimo di colpo mi si era destato il desiderio di entrare in essa.
«Era forse già un presentimento d'un venturo legame che doveva stringere il mio cuore.... Ah! più tardi mi domandai con profondo fremito di tutte le fibre, che cosa sarebbe avvenuto di me se io allora fossi stato intromesso in quella casa; e più vivo e doloroso ebbi il rammarico che ciò non fosse avvenuto, e d'altra parte per contro quasi benedissi l'error mio, perocchè più acuto sarebbe stato il tremendo dolore che mi aspettava, che mi ha raggiunto, che mi travaglia quest'anima combattuta.
«Ma tu non puoi ancora comprendere queste parole, che presto verrò a spiegarti, quantunque contengano il mio più caro e più tremendo segreto: - ma non ho io deciso di svelarti tutto? - tutto l'esser mio?
«Avrei dunque voluto a quelle parole di D. Venanzio poter rispondere con una sollecita accettazione; ma come, se avevo impegnata la mia parola con Gian-Luigi?
«Il parroco s'accorse della mia esitazione e del mio imbarazzo, e volle saperne la ragione. Tentennai alquanto; mi passò perfino nella mente il pensiero di tacer tutto a D. Venanzio, e di accettare subitamente come se nulla fossevi stato con Gian-Luigi. Però alla verità non sapevo ancora, e non lo so nemmanco adesso, fallire; avevo poi per quel vecchio sacerdote troppa reverenza perchè mi potesse durare a lungo il pensiero di ingannarlo, di pur dissimulargli alcun che. Alla seconda volta ch'egli inquieto e sollecito mi fece richiesta di che cosa avessi, gli dissi tutto.
«Se ne mostrò molto contrariato, mi rampognò amorosamente perchè, avendo egli promesso torsi briga de' fatti miei ed essendomi io affidato in lui, avessi poi, senz'aspettare una sua risposta, disposto delle cose mie; era quasi un mancar di parola verso di esso, era un mancar di fiducia in lui, cose che in me lo affliggevano e l'una e l'altra.
«Proposi vivamente di non tener conto nessuno della promessa data a Gian-Luigi; ed egli me ne ripigliò con severe parole. Avrei fatto maggiore ancora il mio fallo; creder egli di certo che la condizione da lui procacciatami sarebbe stata migliore sotto ogni riguardo, ma ora mio obbligo esser quello di mantenere la data parola; imparassi da ciò ad andar cauto a prendere impegni, ma allorquando ne avessi assunti, mi facessi una legge ad adempirli.
«Mi lasciò con queste parole non offeso, chè troppo buono è il suo cuore per offendersi mai, ma disgustato; ed io da mia parte, nell'animo sentii una malavoglia, una scontentezza che era come il presentimento delle poco liete cose che mi aspettavano.
«Ciò però non tolse che una settimana dopo, guarito, ma debolissimo ancora, io non fossi insediato nel mio ufficio in casa di messer Nariccia.
«Messer Nariccia aveva allora intorno a cinquant'anni. Un ometto piccolo e grassotto a collo torto, a mani rozze e grossolane, a piedi enormi, con ventre proeminente e voce fessa che mi ricordava quella del ladro Graffigna. La faccia piena, la carnagione di color terreo, un'aria sommessa e da buonuomo, un sorriso improntato sulle labbra, troppo costante per essere sincero; i capelli grigi gli venivano giù bassi sulla fronte piccola; gli occhi piccini e birci guizzavano via, per dir così, innanzi allo sguardo degli altri, come timidi vergognosi. Portava un po' di barba d'un biondiccio slavato alle gote, la quale sembrava ancora lanugine; la cravatta bianca, pantaloni, panciotto e soprabito scuri di panno sempre logoro; orologio d'argento con grossa catena d'acciaio, scarponi da montagna, cappello a larga tesa da quacchero, e, suo fido compagno, un grosso bastone.
«Mi accolse con quel suo sorriso che mi parve ghiacciato; mi fece un discorso impacciato in cui le parole si affoltavano senza troppo senso e senza nessun ordine, mentre uno dei suoi occhi guardava la punta delle sue scarpe e l'altro il luciore degli stivalini di vernicato di Gian-Luigi. Trovò la maniera di ficcare in tutti i periodi la Madonna, i Santi, le piaghe di Gesù, il timor di Dio e il gesuita padre Bonaventura del Carmine, suo confessore.
- Buono! Interruppe Giovanni Selva. Gli è anche il confessore di mia madre; e conosco che pollo è.
«- Mi disse in sostanza, continuò Maurilio, che, giovane com'ero, col lavoro e coll'ingegno, avrei potuto arrivare ai favori della fortuna se avessi saputo guadagnarmi colla religione gli aiuti del Cielo. Prendessi ad esempio lui; venticinque anni prima egli era venuto a Torino dalle sue montagne di V... più povero e più solo di quello che fossi in allora, sapendo appena appena leggere e scrivere e già presso ai 25 anni. Ma egli aveva coraggio, buona voglia di lavorare e il santo timor di Dio. Egli entrò come servitore - vero servitore, a spazzar camere e lavar anche i piatti di cucina, e non se ne vergognava, perchè Iddio gli aveva fatta la grazia di non lasciargli perdere mai la umiltà, - entrò dunque come servitore nel collegio-convitto tenuto dai PP. Gesuiti al Carmine, dove tutte le principali famiglie torinesi della nobiltà e della borghesia facevano educare i loro figliuoli. Era appunto allora il 1815, quando colla ristaurazione in Piemonte dell'antico Principato Sabaudo, tornavano a regnare, secondo ch'egli diceva, i buoni principii e la vera religione; ed egli diede prove serie, costanti e solenni ai suoi superiori di essere il meglio pensante e il più zeloso e fedel servo della buona causa, onde si cominciò a distinguerlo e ben volergli, e poichè la Madonna dei sette dolori e quella della Consolata e S. Luigi Gonzaga di cui era specialmente devoto, lo aiutavano per loro bontà celeste, più che non fossero i poveri meriti suoi, ebbe campo di avere al suo zelo sì buona riuscita che quei santi uomini dei PP. Gesuiti lo elevarono a poco a poco di grado e di uffici, e giunse ad essere il dispensiere del collegio.
«Sempre aiutandolo Iddio, secondo la sua espressione, e la più severa economia, era già riuscito a mettersi in disparte un piccolo nucleo di capitale cui si guardava bene dal lasciare inoperoso, ma faceva senza riposo lavorare come lavorava instancabilmente egli stesso. I superiori del collegio, incantati delle sue virtù e della sua abilità, ne parlavano tanto bene che il marchese di Baldissero, avendo avuto bisogno d'un intendente, non volle saperne d'altri che di lui, e benchè assai gli rincrescesse abbandonare i buoni Padri del Carmine, tuttavia dietro le istanti sollecitazioni del marchese, animato a cedere anche dai Reverendi i quali contavano fra i primi loro protettori e amici il marchese medesimo, egli finì per acconsentire.
«Questo marchese di Baldissero non era mica l'attuale padre del marchesino, ma quello che Nariccia chiamava il vecchio marchese, padre al capo presente della famiglia ed avolo di quel tracotante insultatore di Benda. Ah quello era un uomo! esclamava pieno di compunzione e di ammirazione il sig. Nariccia. Il marchese attuale, soggiungeva egli, è certo un degno signore pieno di mille meriti; oh non era egli che ne volesse dire il menomo male; era ben pensante ancor egli, certo, ma il padre suo!... Che fermezza! che rigore! che testa e che mano d'acciaio contro i liberali! Che zelo per la buona causa, la religione, la monarchia legittima, i privilegi della nobiltà! Era un piacerone, per uomini della stampa di cui Nariccia si vantava di essere, lo aver da fare con lui.
«Egli era entrato al servizio del marchese nel 1821, quando, dopo il ridicolo tentativo dei Costituzionali, diceva il buon messer Nariccia, quel capo duro di Carlo Felice era venuto a metterli alla ragione. Il figliuolo - l'attuale marchese - aveva in quell'occasione dato qualche dispiacere al vecchio gentiluomo. Trentenne allora, il padre del marchesino erasi intromesso in quella schiera che si radunava intorno al principe di Carignano, nobili con velleità liberali, e benchè non fosse stato veramente compromesso nella rivoluzione, il partito dei puri lo guardava con occhio sospettoso. Il padre lo aveva fatto partire per un viaggio, e quindi lo aveva fatto nominare addetto all'ambasciata in Ispagna, così che durante quasi tutto il tempo in cui Nariccia fu al servizio della famiglia, egli era stato assente dal paese.
«Quando poi il vecchio marchese, nel 1825, morì e fu capo della famiglia l'attuale, Nariccia già da un anno era uscito di quella casa. Iddio aveva continuato, diceva egli, a favorirlo, e con quel poco di ben di Dio che aveva potuto raggranellare coi suoi risparmi, s'era posto più definitivamente in certi traffichi che già aveva intrapresi, e colla benedizione del Cielo, colla protezione della Beata Vergine e dei Santi a cui lo legava una particolare divozione, i suoi affari avevano prosperato. Dunque accogliessi buona speranza anche pel mio avvenire, se avevo la ferma intenzione di seguitare il suo esempio e di adottare le sue umili virtù da buon cristiano. Egli, da canto suo, avrebbe fatto di tutto per tenermi nella buona via del Signore e rendermi degno dei favori del Cielo.
«- Amen! Disse a questo punto Gian-Luigi, il quale aveva già sbadigliato più volte durante quel lungo ed indigesto e scomposto discorso.
«Io mi sentiva invadere l'anima da un freddo morale, che era uguale e fors'anche conseguenza a quello fisico onde avevo tutte oramai ingranchite le membra, per lo star fermo in piedi in quel freddo salotto dove il sig. Nariccia ne aveva accolti. La casa in cui egli abitava ed abita tuttavia, di sua proprietà, è posta in via **, una delle più anguste di Torino. Tutto era grigio colà dentro; il color delle pareti, la vernice delle intelaiature delle porte, il pavimento, il soffitto, il colore del legno e della stoffa dei mobili, le cortine delle finestre sopraccariche di polvere, la poca luce che si stacciava traverso ai vetri sporchi in quella nuvolosa giornata d'inverno. Non c'era pure una favilla di fuoco, e il camino ornato d'un marmo grigio, con un po' di cenere rammucchiata nel focolare pareva, invece di calore, com'è suo ufficio, mandare anzi nella camera un freddo maggiore. Con quella freddolosità che ci entrava nel corpo per tutti i pori veniva compagna una mestizia, quasi un abbattimento che ti ammortava ogni vigore dell'anima. Ascoltai tutta la lunga diceria del mio nuovo padrone a capo basso; e sentivo una stanchezza, una malavoglia, quasi un'antipatia per quest'uomo, una impressione sgradevole insomma, che era forse accresciuta in me dalla debolezza in cui mi trovavo ancora per la recente malattia.
«Gian-Luigi, che era impaziente di finirla, fece osservare a Nariccia che io aveva bisogno di due cose: di riposarmi, perchè ero ancora in convalescenza, di venir vestito un po' convenientemente, perchè portavo tuttavia gli abiti rozzi e laceri che avevo nel villaggio.
«Nariccia mi guardò alla sfuggita con un occhio, mentre coll'altro pareva sbirciare Gian-Luigi, e poi mi disse:
«- Vi condurrò nella vostra camera. Vi permetto anche di andare a letto, se ne avete bisogno... D'ordinario io mi alzo alla mattina alle cinque - anche d'inverno - e occorrerà che siate in piedi a quell'ora anche voi, ma pei primi giorni potrete stare in letto a crogiolarvi anche sino alle sei... Quanto agli abiti, cercherò fra i miei vecchi panni se qualche cosa potrà adattarvisi, e ve lo manderò dalla Dorotea. Venite.
«Gian-Luigi si partì, ed io seguii messer Nariccia nella camera che mi aveva assegnata.
«Era un camerino stretto ed alto, posto verso il cortile, non illuminato che da un finestruolo così elevato da non poterci arrivare senza una scala, più nudo, più grigio, più uggioso del salotto che avevamo lasciato. In un angolo stavano per terra due grandi casse di quelle che si usano pel trasporto delle mercatanzie e sopravi gettato un pagliericcio che mi aveva da servire per letto; al disopra di esso tendeva le braccia, appesa al muro, una gran croce di legno nero; li presso, da una parte, un vecchio baule di cui la pelle, liberatasi dalle bullette, si rivolgeva contorta allo insù con volute che avresti detto rabbiose, dall'altra parte un tavolino che aveva perduto la vernice ed aveva acquistato una ricca crosta di polvere accumulata, zoppo e reggentesi a stento contro la parete; compieva il novero di quelle masserizie una seggiola che perdeva l'impagliatura del suo piano ed aveva perduto affatto la traversa della sua spalliera.
«Non era a me, avvezzo al fenile di Menico ed uscito allor allora di prigione e dell'ospedale, che la povertà di quella stanza e di quelle robe potesse parer soverchia o produrre soltanto alcun effetto; ma pure, entrando colà dentro, io sentii rinnovarsi e più forte quella specie di freddo onde avevo provato l'impressione sensibilissima al primo porre il piede in quella casa. Parvemi che una voce interna mi dicesse che la vita che avrei dovuto passare colà dentro sarebbe stata la più ingrata del mondo; feci girare intorno l'occhio quasi atterrito, come per cercare un mezzo di fuggire, e poichè l'uscio spesso e grossolano di abete si serrò con fracasso dietro di noi, e il mio sguardo non corse più che sulle pareti nude e scuramente grigiastre, mi sembrò d'essere entrato in una nuova carcere.
«- Suvvia, mettetevi a letto, mi disse il mio nuovo padrone, riposatevi, dormite, e domani stesso comincierete le vostre funzioni.
«Si avviò per uscire, ma quando fu alla porta si fermò per soggiungere:
«- Forse avete bisogno di qualche cosa; or ora che venga Dorotea da voi, le direte ciò che v'occorre. Qui già non si mangia mai fuori pasto, ma per voi che siete ancora convalescente, credo bene che vi sarà un po' di brodo. Intanto dite le vostre orazioni e se aggiungerete un pater e una ave alla mia intenzione, mi farete piacere. Io da mia parte non vi dimenticherò nelle mie.
«Strinse le mani come uomo che prega, storse il collo e borbottò fra le labbra con aria compunta come chi dice una giaculatoria, quindi uscì. Io stetti un poco li piantato al luogo in cui mi trovavo, senza quasi sapermi render conto esattamente delle mie condizioni, di quello che succedeva e di me stesso. Una nuova vita incominciava per me, ciò era certo. Il passato cadeva irrevocabilmente nel baratro delle cose distrutte per sempre e che non tornano più. Questo passato ben era stato abbastanza infelice perchè io non avessi a rimpiangerlo: eppure sentivo un'esitazione, quasi una paura nell'affacciarmi all'oscurità di quel futuro che stava per incominciare.
«Mi riscossi sentendo invadermi sempre più le membra da quel freddo fisico a cui andava compagno un freddo morale che mi veniva avvolgendo l'anima. Tutto intirizzito mi affrettai a pormi a letto, il quale trovai ben diverso, quanto a comodità ed agiatezza, da quello che avevo all'ospedale. Ero inoltre non coperto abbastanza e per quanto rammontassi addosso a me quei pochi panni mezzo laceri che avevo allor allora svestito, sentivo tuttavia crescermi lo intirizzimento che mi faceva battere i denti come a chi è assalito dalla terzana.
«Poco stante entrò una vecchia trascinando le pianelle entro cui teneva i piedi, burbera d'aspetto, grossa e robusta della persona, con qualche cosa di virile nelle sembianze, che mi fece il più scontroso effetto del mondo. Come certe volte si è mai ingiusti nell'apprezzamento fatto dietro la prima impressione! Per quella creatura brutta e grossolana, io provai di botto una viva ripugnanza che mi fece sembrare di vedermi davanti risuscitata la Giovanna, più niquitosa che mai. Ella portava sopra il suo braccio in un fascio alcune vestimenta, destinatemi da messer Nariccia.
«- Ebbene, giovinotto, mi diss'ella coll'accento con cui si parla colle persone che si vogliono strapazzare, di che cosa avete bisogno? Orsù parlate.
«Io levai timidamente lo sguardo verso quella megera e il suo viso scuro colle sopracciglia aggrottate mi fece una vera paura. Mi parve che se domandassi alcuna cosa a quella donna, avrei incorso chi sa qual pericolo: risposi tremando e di freddo e di suggezione:
«- Non ho bisogno di nulla, non voglio nulla.
«La vecchia Dorotea mi guardò con aria più feroce di prima.
«- Che storie sono queste? Come, non avete bisogno di nulla? Avete mangiato? Non vedete che avete l'aria d'un pulcino colla pipita? E se monsù mi ha detto di venirvi a domandare se volete qualche cosa, bisogna prendere qualche cosa. È già un fatto straordinario che monsù offra una goccia d'acqua; andate là, che se fate delle cerimonie siete uno stolido.
«La verità era che io mi sentiva proprio un gran bisogno di ristoro; ma pure non osavo muovere la menoma domanda. Tacqui non osando pur levare più lo sguardo sulla faccia per me terribile di quella vecchia colossale.
«Dorotea stette un poco, gettò sopra il baule le vesti che aveva recate, poi crollò le spalle con impazienza soggiungendo colla sua voce più aspra ed ingrata:
«- E tal sia di voi! E così non avrò da pigliarmi altri incomodi, che se credete ch'io vi avessi da servire anche voi, la sbagliereste di grosso. Ne ho già di soverchio a servire monsù, che non c'era nessun bisogno che venisse a ficcarsi in casa un terzo che sarà buon da niente e che mi accrescerà lavoro, alla mia età!..... Eccovi intanto i panni che monsù vi manda. Li vestirete domani. Oh ci starete proprio bene dentro, come un bastone in un sacco.
«Mi pareva sempre più di riaver dinanzi viva e tal quale la moglie di Menico; onde la mia ripugnanza e il mio disagio crescevano sempre più.
«Ad un punto Dorotea s'accorse che battevo i denti.
«- Sì, un poco: risposi con voce mozzicata, appena da potersi udire.
«Mi cacciò bruscamente le mani sotto le coltri a soppesarle.
«- Parevami pure che queste coperte dovessero bastare.
«Toccò le mie guancie e le braccia e le mani.
«- Questo babbuino è freddo come una manciata di neve. E' non ha niente affatto sangue nelle vene. Bel coso che monsù s'è andato a caricare! Egli ci basirà qui come un pippione da imbeccare tolto troppo presto dal nido.
«Stette un momentino in silenzio, poi mi disse ruvidamente, colla guisa che altri avrebbe fatta una minaccia o scaraventata in faccia un'ingiuria:
«- E vostra madre? Dove l'avete vostra madre?
«Queste parole mi scesero profondo nell'anima come una punta di lama che mi ferisse. A quell'essere sconosciuto che era stato mia madre pensavo cotanto e sentivo verso di essa tante e sì forti aspirazioni! Il rammentarmi ad un tratto in quelle condizioni che non avevo, nè mai avevo avuto intorno a me una madre, mi fece sentire più doloroso, più disperante il mio isolamento, così che, senza potermi in nessun modo frenare, ruppi in un subito pianto.
«Dorotea stette un poco a guardarmi come stupita, poi mi disse collo stesso accento, senza che la sua voce avesse pure il menomo cenno di pietà:
«Mi rasciugai le lagrime, soffocai a forza i singhiozzi, e risposi con più ferma voce che potei:
«- Non la ho mai conosciuta.
«E poi, come sentivo l'emozione vincermi nuovamente, nascosi la faccia sotto le coltri e mi premetti coi pugni chiusi gli occhi che a forza volevano piangere. Dopo un poco, non avendo udito più alcun rumore, alzai la testa, e non vidi più nessuno. Dorotea, forse infastidita di quelle mie lagrime, avevami lasciato lì, senza tentar pure una parola di consolazione. Provai quasi un sentimento di sollievo a trovarmi solo; ma il bisogno di ristoro si faceva sempre più forte, aumentava quel freddo che m'intirizziva e cominciava a darmi un vero tormento. Eppure domandare non osavo; avevo rifiutato un minuto prima ciò che mi si era offerto; ed ancora, se avessi pur domandato, non ero sicuro che alcuno sarebbe venuto al mio appello.
«Il bisogno divenuto incomportabile era lì lì per farmi superare la mia timidità e spingermi ad un tentativo di chiamar per aiuto, quando udii nello andito che conduceva al mio stambugio lo strascico delle pianelle di Dorotea, e tosto dopo vidi l'uscio aprirsi e quella vecchia con faccia da megera comparirmi dinanzi più burbera e stizzosa che mai, tenendo sopra un braccio una coperta e in una mano una scodella fumante.
«Non disse una parola ned io parlai. Io guardava quella benedetta scodella coll'occhio intentamente desioso d'un affamato. Dorotea s'avanzò, pose la scodella sul tavolino, e poi di mala grazia mi gettò addosso la coperta, cui non si diede punto cura di aggiustarmi intorno, ma lasciò spiegazzata come volle stare; poi ripigliata in mano la scodella me la pose innanzi a farmi venire alle nari l'odore riconfortante di un sugoso brodo di carne.
«Presi avidamente la ciotola con ambe le mani che mi tremavano.
«- Grazie! Mormorai osando levare lo sguardo su quella terribile faccia di donna.
«Ella nè rispose, nè parve tocca in alcun modo dal sentimento di riconoscenza che pur c'era nell'accento della mia voce. Mi volse le spalle ed uscì col suo passo lento e pesante, trascinando quelle sue ciabatte come aveva fatto venendo.
«Quella scodella di buon brodo mi riconfortò tutto; mi ravviluppai poscia per bene colla coperta stata aggiunta alle mie coltri e tornando nelle mie membra per ciò un benefico calore, io sentii un certo benessere invadermi il quale mi condusse senza ritardo un tranquillissimo sonno.
«E in quello stato incerto di dormiveglia che precede l'addormentarsi mi apparve annebbiato, ma non più spaventoso il sembiante di Dorotea che ora mi pareva confondersi con quello della Giovanna, ed ora mi pareva pigliare una tinta di benignità, facendomi oscillare fra la prima, istintiva ripugnanza che quella donna mi aveva ispirata, e quel certo sentimento di gratitudine che quel suo ultimo tratto mi aveva lasciato nell'animo.
«Il domattina dormivo ancora della grossa, quando una mano venne a scuotermi per una spalla ed una voce sottile e strillante mi gridò:
«- Ehi là giovinetto! Svegliatevi su! Altro che le sei, sono le sette.
«Mi destai in sussulto. A tutta prima non ebbi coscienza di dove mi trovassi. La mia stanza era tuttavia oscura ed appena se dall'alto finestrino discendeva un incerto albore in essa. Mi fregai gli occhi, guardai intorno, pensai in un attimo al fenile di Menico, alla prigione, all'ospedale, vidi che non ero in nessuno di questi luoghi, mi ricordai ad un tratto di ciò che era avvenuto il giorno prima, sorsi a sedere sul letto e riconobbi nell'uomo che mi aveva svegliato il signor Nariccia.
«- Orsù è più che il tempo di levarsi, soggiunse messer Nariccia. Avete dormito oltre il bisogno, Tognino.
- Tognino! Esclamò a questo punto Selva, stupito d'udir così chiamato Maurilio. Avevi tu cambiato di nome?
«- Era stato Nariccia medesimo, rispose Maurilio, a volere che così mi chiamassi. Appunto, mi sono dimenticato di narrartelo. Gian-Luigi aveva inventata una storiella sui fatti miei che si prese incarico egli stesso di narrare a Nariccia per farmene accettare. Io era figliuolo di certi negozianti che, avendo visto andare a male i loro affari, n'eran morti di crepacuore, lasciandomi orfano in tenerissima età alle cure d'uno zio prete, il quale mi aveva preso con sè, allevato ed istrutto in quel modo di cui non avrei tardato a dargli prova. Che adesso, morto essendo, e poverissimo ancor egli, lo zio, m'ero trovato affatto solo al mondo e nella massima miseria, ch'egli, Gian-Luigi, statomi compagno di scuola, s'interessava vivamente a me e perciò gli premeva vedermi allogato così bene ecc. ecc.
«Nariccia aveva egli creduto a codesto? Io non so; il fatto è ch'egli non se ne diede altra briga e forse, perchè io gli servissi all'uopo, niente gli importava donde venissi e che cosa fossi: soltanto, al dire di Gian-Luigi, poichè io a quel colloquio tra di loro non fui presente, soltanto gli dispiacque assai il mio nome di battesimo, e qualunque ne fosse la ragione, che io mal saprei indovinare, Gian-Luigi mi disse come all'udire ch'io mi chiamava Maurilio, Nariccia avesse dato in un trasalto, avesse corrugato la fronte e sclamato con una emozione che invano avea cercato dissimulare:
«- Si chiama Maurilio?... Che razza di nome!... Ma ci sono dei Maurilii qui in Piemonte? Non ho mai sentito nessuno del nostro paese che fosse battezzato così.... Di che paese è egli mai?
«- Di Pinerolo, rispose francamente Gian-Luigi che non si lasciava punto imbarazzare da nulla al mondo.
«Questa risposta parve acquetarlo.
«- È un nome che non mi piace: riprese egli poi. Un nome che appena è se ha l'apparenza di esser cristiano. Non è un santo che abbiamo scritto nel calendario della nostra diocesi. Ditegli che si chiamerà Antonio. È il mio santo protettore; e sarà bene anche per lui l'essere sotto la sua protezione.
«Io dunque doveva rassegnarmi a diventar Tognino per quanto tempo sarei rimasto in casa di messer Nariccia, e benchè mi rincrescesse non poco abbandonare il mio nome cui posso credere postomi da mia madre medesima, Gian-Luigi facilmente mi persuase che sarei stato pazzo a rinunciare a quel posto per sì futile ragione, protestando ch'egli in caso simile si sarebbe acconciato a lasciarsi chiamare anche Bernardone.
«Per continuare adunque, Nariccia, quella prima mattina mi svegliò come io ti ho detto, e fattomi levare e vestire in fretta di que' suoi panni, che secondo l'espressione di Dorotea mi stavano proprio come un sacco ad un bastone, mi condusse poscia in un suo studiòlo che era mille volte ancora più triste del melanconico salotto in cui mi aveva accolto il giorno prima, e del tetro stambugio che mi era dato per istanza da dormire.
«Figurati una camera più lunga che larga, illuminata da una sola finestra, la quale, munita d'una grossa inferriata, poi d'una fitta graticola di ferro lasciava passare a stento la luce traverso i vetri sporchi tanto da esser ridotti poco meno che opachi. Pareva che quella benedetta luce si avesse in odio nella casa di messer Nariccia e le si misurasse a stento il passaggio e si premunisse contro di lei l'accesso come contro un nemico. Verso la finestra in questo freddo studiòlo senza camino, nè stufa, eravi una scrivania con sopravi una piccola scancia divisa in caselle da riporvi delle carte. La scrivania era del tutto adattata al resto della casa; vecchia, sverniciata, polverosa, il panno verde tirato sul piano dove scrivere frusto con larghe macchie d'olio e d'inchiostro, scollato da una parte, ed a chiamarlo verde ancora era un adularlo, tanto n'era misto di mille tinte sporche il colore. In faccia, presso l'altra parete, un semplice tavolino. Verso la parte più scura un cancello di sbarre di ferro con una fitta grata separava dal resto un angolo della stanza: in questo cancello s'aprivano un usciòlo per entrarvi ed uno sportello come quello che si trova presso i cambiamonete, per cui dare e ricevere il denaro, sportello che si chiudeva con una specie di cateratta che scorreva fra due scanalature da sottinsù e viceversa. Perchè non si vedesse entro questo cancello per i fori della grata, dietro di questa era tirata tutt'intorno una cortina di tela verde. Nessuno penetrava mai in quel sacrario, ma quando lo sportello ora aperto, chi vi gettasse dentro un'occhiata poteva sorgere nell'angolo una voluminosa e pesante cassa-forte di ferro, irta di grosse capocchie di chiodi piantati nelle lastre.
«Dietro la scrivania era un seggiolone frusto, di cuoio spellato, a spalliera altissima; sopra questa spalliera pendeva appeso al muro un almanacco, e lì vicino appiccata alla parete per quattro bullette una tavola di riduzione delle antiche misure, pesi e monete del Piemonte in monete, pesi e misure decimali. In prospetto a quel seggiolone e quindi al disopra del tavolino stava attaccato per un chiodo al muro un'incisione grossolana, grossolanamente colorita della Santa Vergine, inquadrata in una cornice di legno inverniciato a color naturale. Nel mezzo della stanza un braciere di ferro a tre piedi conteneva molta cenere ed un poco di carboncina mezzo spenta.
«Nariccia mi menò innanzi al tavolino sotto il quadro della Vergine e mi disse:
«- Questo è il luogo in cui lavorerete, in cui lavoreremo insieme, poichè io starò là (e mi additava la scrivania); e coll'aiuto del Signore e della Madonna della Consolata, spero che sarà benedetto il nostro lavoro.
«In quella fredda, oscura stanza, seduto a quel tavolino, passai poco meno di un anno, quasi incatenato, scrivendo lettere, facendo conti, compilando discorsi per conto del mio padrone, del quale non tardai molto a conoscere ed a prendere in disprezzo profondo l'industria scellerata. Quell'uomo, sotto la sua volgare ipocrisia religiosa, non ha altro sentimento, altro affetto, altra guida alle sue azioni che l'amor del guadagno, che la smania di far denaro. Colla sua impostura cerca di gettar polvere negli occhi alla gente, colla sua prudenza s'industria di fare il peggio male possibile che gli frutti, senza dar di cozzo nel Codice penale. Nello scrivere molte delle sue lettere, delle sue memorie, di cui egli mi dava una traccia confusa perchè le mettessi in netto, essendo che nè lingua, nè grammatica, nè sintassi egli non sapeva affatto che si fossero; nello scrivere certe di quelle infamie, la mia mano fremeva con ripugnanza e l'onestà che era in me si ribellava con disdegno. Più volte fui lì lì per andar a gettar in volto all'ipocrita quelle carte che conchiudevano la rovina di un onest'uomo, che stavano per recar la disperazione in una povera famiglia; ma me ne trattenevano la soggezione che quell'uomo mi aveva saputo ispirare, il non saper di poi come avrei potuto guadagnarmi un tozzo di pane quando egli mi avesse scacciato, e poi ancora un allettamento potente che avevo trovato in quella dimora.....
- Ah ah! Interruppe Giovanni Selva, sorridendo, una sottana ci scommetto.
Maurilio arrossò sino sulla fronte e rispose vivamente:
«- No. Di donne colà non c'erano altre che la vecchia Dorotea. Io poi non aveva che diciasette anni, e ti assicuro che mai ancora il mio pensiero si era a quest'argomento rivolto. Per una stranezza della mia natura, in me s'era desto prima lo spirito che il cuore, e mentre quello s'affannava precocemente in quelle peste ch'io t'ho detto, questo ancora taceva per l'affatto. Era appunto un vivo allettamento pel mio spirito quello di cui ti voglio parlare, ed era il seguente.
«Ti ho detto che per giaciglio avevo un pagliericcio gettato sopra certe grandi casse in quello scuro stanzino che mi era stato assegnato. Un giorno, rifacendomi il letto, mi venne la curiosità di sapere che cosa fossevi colà dentro. Il coperchio inchiodato tutt'intorno, si sollevava un po' da una parte, dove mancava uno dei chiodi. Tirai con tutte le mie forze insù per allargare quell'apertura, e ci riuscii tanto da poterci ficcare la mano. Rimasi tutto sorpreso di quel che ci rinvenni, ch'io difatti non avrei mai immaginato di trovarci. Erano libri. Il primo volume ch'io ne trassi era un volume dell'Enciclopedia francese del secolo scorso. Figurati il mio disappunto! A sentire sotto la mia mano un libro, io che da tanto tempo non avevo più potuto averne neppur uno, il mio cuore aveva palpitato come all'incontro d'un amico da troppo lungo non più visto; l'avevo preso con una desiosa sollecitudine, quasi tremando, e i miei occhi s'erano spuntati, per così dire, contro pagine scritte in una lingua che ben conoscevo essere la francese, ma non sapevo leggere nè capire.
«Fui preso da una specie di furore che mi diede la forza di strappar via tutto quel coperchio, e mi posi a frugare in quella cassa con una ardenza quasi febbrile. Erano quasi tutti francesi i libri che vi si contenevano. Libri di storia, di economia politica, di filosofia. Una sola opera trovai in italiano e su quella mi gettai sto per dire rabbiosamente. Erano i primi volumi, usciti non era guari, della prima edizione della Storia Universale di Cesare Cantù.
«Questo titolo mi ricordò quel libro che primo aveva dischiuso la mia mente a più vasti e profondi pensieri e fattomi concepire l'idea dell'umanità come un complesso armonico e solidario svolgentesi nella storia traverso i secoli; il discorso del Bossuet, che Don Venanzio m'aveva dato da leggere tradotto, e senz'altro indugio cominciai la lettura del primo volume a quella fioca luce che in quell'ora mattutina pioveva stentatamente dall'alto finestruolo della mia stanza.
«Non potei continuare a lungo questa lettura che messer Nariccia venne a disturbarmene. Ero in ritardo a recarmi allo studiòlo, ed egli se ne veniva a vedere che cosa mi fosse capitato. Per fortuna io ne udii il passo nell'andito che conduceva alla mia stanza, e m'affrettai a gettare il libro e saltar fuori, così ch'egli non potè cogliermi intento alla lettura. Temevo che se ciò fosse avvenuto, Nariccia mi avrebbe proibito di toccare quei libri, e forse toltili dalla mia stanza; ed io pensava e sperava che avrei avuto in quelle casse un bel tesoro di ore di sollievo e di diletto da godere.
«Lasciai tutto in disordine per uscir presto: la cassa scoperchiata, i libri sparsi sul pavimento, pagliericcio, lenzuola e coperte gettate a casaccio; ma ero certo che Dorotea non ficcava mai il piede nella mia camera per ripulire, riordinare od altro, e se non era impossibile che ci andasse Nariccia, il quale soleva spesso visitare ogni parte della casa scrupolosamente, pure speravo di poter tornare a rimettere ogni cosa in sesto prima ch'egli ci venisse.
«- Che cos'è ciò? Mi domandò severamente messer Nariccia guardandomi con l'occhio destro incollerito, mentre il sinistro fulminava l'oscurità del corridoio in cui ci trovavamo. Cominciate già a fare il negligente? Questo non mi piace e non lo tollero. Siete in ritardo stamattina quasi di mezz'ora.
«Non tentai neppure di scusarmi, come non facevo mai, e perchè non è nella mia indole il raumiliarmi ne il difendermi innanzi ai rimbrotti, e perchè Nariccia - come ben presto ebbi scoperto - sotto la sua falsa arrendevolezza, affettatamente dolcereccia, è uomo a volere assoluto e di carattere imperioso che non ammette contrasti ai suoi desiderii, nè osservazioni alle sue parole.
«Lo seguii nello studiòlo, e lavorai tutto il giorno, come se di nulla fosse; ma la mia mente era sempre e tutta là, in mezzo a que' libri. Appena potei, corsi nella mia stanza e riposi i volumi entro la cassa e vi rifeci su il letto, lasciando però fuori, nascosto sotto le lenzuola, quel primo volume del Cantù che avevo già incominciato.
«Ma un gran desìo mi pungeva: quello di poter leggere in que' libri francesi che erano lettera chiusa per me. Mi pareva che avrei dato non so che cosa per poter possedere un libro di grammatica francese da imparar quella lingua.
«Come fare a comprarmela? Nariccia non mi aveva ancora dato neppure un soldo dello stipendio promessomi; inoltre io non usciva quasi mai: prima perchè il mio padrone non me lo consentiva che raramente alla festa soltanto per andare alle funzioni di chiesa, e poi perchè, vestito sempre degli abiti frusti di messer Nariccia, facevo la più ridicola e brutta figura di questo mondo, e tutti i biricchini delle strade, vedendomi, mi correvan dietro facendomi le beffe.
«A levarmi d'impiccio venne giusto in quel torno di tempo il mio buon Don Venanzio. Lui pregai di provvedermi di quel libro onde avevo desiderio, ed a lui dissi averne anche bisogno per ragione del mio impiego, e quell'eccellente sacerdote, senza pure la menoma obbiezione, s'acconciò a fare la mia volontà. Al parroco, la faccia e i modi del mio nuovo padrone, benchè questi torcesse il collo e invocasse Dio e i Santi più che mai, non erano andati molto a sangue, e da parte sua messer Nariccia se aveva in sua presenza fatto mille esagerate dimostrazioni di riverenza a Don Venanzio, costui partito mi aveva detto bruscamente:
«- Chi è quel prete? In che modo vi appartiene? Che cosa è di voi?
«Io fui lì per ismentire tutta la storiella inventata da Gian-Luigi, dicendo la verità; ma me ne trattenni a tempo, e risposi, esser quello un amico di quel mio zio che mi aveva allevato, avermi visto bambino e perciò postomi un certo affetto paterno; però siccome a mentire non avevo l'abitudine e forte mi ripugnava, come anche oggidì mi ripugna, divenni rosso sino alla radice dei capelli e non potei pronunciare quelle parole che balbettando impacciatamente.
«Nariccia mi guardò ben fiso coll'uno e poi coll'altro di que' suoi occhi birci, e poi disse colla sua voce più acuta:
«In somma, non vi è nulla di nulla, e non saprei perchè avesse da venire a ficcare il naso in casa mia.
«Per fortuna Don Venanzio, tra che le sue gite a Torino si facevan sempre più rade per gli anni crescenti, tra perchè l'istintivo suo sentimento di profonda onestà lo respingeva dal cercare la presenza di messer Nariccia, più non venne a vedermi in tutto quel tempo che rimasi ancora nella casa di quest'ultimo.
«Io intanto ero in possesso della mia grammatica francese, e la studiavo con ardore. Il tempo che mi rimaneva per ciò era poco in verità, perchè appena alzato, e m'alzavo sempre prima che fosse giorno, mi toccava andar nello studiolo a lavorar pel padrone, in quella fredda, triste atmosfera, al melanconico chiaror d'una lampada mezzo moribonda; e colà seduto a quel tavolino stavo la giornata intiera con pochissimo riposo per l'ora dei pasti soverchiamente parchi e troppo scarsamente misurati. Ma quel libro portavo meco sempre, e quando Nariccia non era là, affrettatomi più che potevo a finire il lavoro affidatomi, studiavo la mia grammatica con tanta intensità di volere che il tempo pei risultamenti poteva contarci pel doppio. Ma ciò non mi bastava ancora. Volevo leggere eziandio i volumi del Cantù, volevo giungere il più presto possibile a poter divorare quegli altri che tanto mi facevan gola. Non c'era altro mezzo fuor quello di rubar delle ore al mio sonno e trar profitto della notte, in cui almeno ero libero dello sguardo inquisitore di Nariccia e di Dorotea. Ma qui c'era un altro guaio: bisognava procacciarsi del lume, e come giungere a tanto?
«Per andare a coricarmi non mi si dava mai altro che un piccolo moccolino di candela e guai ancora se il mattino seguente Dorotea avesse trovato che il consumo n'era stato soverchio! Pensai di raccomandarmi alla fante e di ottenere da lei un tanto favore; ma sempre quando fui sul punto di aprirmene con esso lei, il coraggio mi venne meno, e poscia la prudenza medesima me ne trattenne. Dorotea avrebbe voluto sapere che cosa ne avrei fatto, non l'avrebbe taciuto al padrone a cui le toccava pure di rendere strettissimo conto di tutto. Che scusa avrei allegato? Il mio segreto sarebbe stato scoperto e toltomi in conseguenza quell'unico sollievo che avessi. Denari da comprarmi ciò che mi occorreva non possedevo a niun modo. Un giorno, entrato per qualche bisogna nella cucina, vidi la serva, che giustamente approntava i lumi per la sera, aprire un certo cassettino riposto in un armadio ordinariamente chiuso a chiave e in tal momento aperto, e da quel cassettino trar fuori una candela. Gettai là dentro uno sguardo, dirò così di ardente cupidigia; quel cassettino era quasi pieno di candele. La vista di tutti i tesori del mondo non avrebbe esercitato una sì irresistibile tentazione sull'animo mio quale mi destò la vista di quei bastoncini di sego. Sentii come una fiamma invadermi tutto; delle stille di sudore mi spuntarono sulla fronte. La sorte voleva proprio farmi sostenere per intiero e in tutta la sua forza la prova tentatrice. La voce di Nariccia chiamò in quel punto Dorotea, e con quella insistenza e con quell'accento che esigevano di prontamente obbedire.
«La serva se ne partì lasciando aperto l'armadio, lasciando aperto il cassetto e me innanzi a quelle candele, per prender le quali non avevo che da allungare la mano. Ciò che provai in un attimo allora, mi occorrerebbe non so quanto tempo a spiegartelo, tanti e sì diversi e sì complessi sentimenti contenne un solo minuto secondo. Per prima cosa mi precipitai sulla cassetta per afferrare una di quelle desiate candele, e tosto poi mi rigettai indietro vivamente, come se respinto con forza da una invisibil mano. Una voce mi aveva gridato nell'anima: «Disgraziato! questo è rubare!» Volli fuggire quel luogo, e non potei. Si fecero riudire le pianelle trascinanti di Dorotea che ritornava; l'occasione - se io tardava ancora un minuto - era persa, e chi sa se sarebbe tornata più! Mi trovai di nuovo presso presso alla cassetta senza pure essermi accorto d'avere fatto il passo, e la mia mano abbrancò una candela. Il passo di Dorotea era lì, proprio sulla soglia dell'uscio. Nascosi la candela sotto a' miei panni e corsi via senza dir parola, senz'alzar lo sguardo; corsi a riparare nella mia stanza, dove nascosi in fretta entro il pagliericcio il conquistato oggetto del mio desiderio.
«Ma appena ebbi ciò fatto, io fui assalito da paura, da rimorso, da vergogna de' fatti miei. Se Dorotea se ne fosse accorta! E come non accorgersene? La mia stessa fuga non mi accusava ella? Cielo! Quello che io aveva commesso era un latrocinio. Ero dunque degno compagno di que' tali con cui avevo divisa la carcere? Le parole di Graffigna mi tornarono alla mente. Egli aveva dunque avuto ragione nell'affermarmi predestinato al delitto, nell'assicurarmi che sarei caduto necessariamente in esso? Mi venne in pensiero di andarmi ad accusar tosto io stesso da Dorotea e restituire senza ritardo il mal tolto oggetto.
«Nariccia mi chiamò in quella per nome, ed io allibii; tremai tutto; prima un brivido mi assalse, poi una vampa di calore; mi credetti scoperto. Ripetendosi la chiamata, andai con passo vacillante dov'era il padrone, certo d'udire la mia condanna. Nulla era scoperto, Nariccia non mi chiamava che per darmi nuovo lavoro.
«La notte seguente, quando tutto fu quieto, saltai giù del mio giaciglio, accesi la candela e quasi tutte quelle silenziose ore impiegai nello studio e nella lettura. Ma la candela non istette gran tempo ad essere consumata, e oramai che il primo passo era fatto, oramai che il bisogno di quelle nottate era divenuto ancora più imperioso in me, gli scrupoli cedevano affatto innanzi al mio desiderio, che come tutte le passioni, ricorreva al sofisma per legittimare il suo soddisfacimento.
«Nariccia, mi dicevo, aveva promesso pagarmi uno stipendio, e di esso in parecchi mesi che già lavoravo da lui non avevo ancora visto neppure un centesimo. Non era che una piccolissima parte di ciò ch'egli mi doveva, ch'io veniva prendendomi sotto forma di candele, e quando il padrone mi avesse totalmente pagato del fatto mio, allora avrei trovato il modo di restituirgli quello che avevo preso per anticipazione. E così con mille industrie ed accortezze, di cui prima mi sarei creduto affatto incapace, io giunsi a provvedermi continuatamente di lume per la notte.
«Ma intanto, lavorando tutto il giorno, vegliando a studio la notte, non uscendo quasi mai, dormendo troppo poco, nutrito troppo male, pensati come se ne dovesse avvantaggiare la mia salute! Io diventava allampanato che era una compassione il vedermi, cotanto che ne fu tocca quella rozza, grossolana e burbera Dorotea.
«Costei aveva una certa influenza su messer Nariccia: era anzi l'unica persona ch'io mi accorgessi mai che avesse alcun potere su quell'uomo che non sentiva nulla, che non si preoccupava di nulla che non fosse l'oro e l'amor del guadagno. La sua ipocrisia medesima, la smania che sembrava avere di conseguire stima ed osservanza presso il pubblico non erano altro per lui che un mezzo maggiore con cui, ingannando la gente, aumentarsi gli spedienti e le probabilità degl'illeciti profitti. Ebbene a quest'uomo, quella vecchia donnaccia, sempre aspra ed incollerita, pareva incutere quasi direi una certa paura, e fosse abitudine presa da lungo tempo (erano di begli anni che que' due stavano insieme), fosse una dipendenza stabilita per qualche segreta ragione, il fatto è che Nariccia, per tutto quello che non toccava i suoi traffichi impuri e scellerati, in certa proporzione sottostava alle volontà della Dorotea.
«Or bene, questa donna che in fatto fin dal primo giorno, come ti ho narrato, non era stata senza pietà a mio riguardo, una bella volta manifestò più spiccatamente la sua compassione per me.
«Messer Nariccia era il più incontentabile uomo del mondo. Per quanto uno si industriasse a far con zelo il dover suo, non solamente egli non trovava mai una parola di lode per esso, ma non desisteva pur mai, ciò nulla meno, dal brontolare e rampognarlo. Con me gli era un rimprovero continuo, e il quale aumentava di intensità in due occasioni: quando veniva alcuno in istudio, e non si trattava d'affari segreti che io non dovessi ascoltare, perchè in tal caso ero sempre mandato in altra stanza, e quando ci sedevamo al desco per mangiare quello scarso cibo che ci era ammanito. Nel primo caso egli pigliava qualunque pretesto per entrare a dire della gran pazienza che io gli faceva esercitare, della croce che per causa mia gli toccava portare, della grandissima carità che egli usava a mio riguardo tenendo seco un buon da nulla ed un ingrato; e torceva il collo più che mai, e giungeva le mani, e diceva le più infervorate giaculatorie del mondo. Nel secondo caso, cioè a tavola, egli mi rivolgeva per punta, come dice Dante, quella lama che già di taglio mi tornava troppo acre, e siccome s'era accorto, io credo, che per la commozione ond'era preso non potevo più mandar giù che pochi bocconi, sono persuaso che lo faceva apposta, avarissimo secondo che egli è, a cominciare quei discorsi appena ci trovavamo seduti a tavola.
«E se avesse almeno prorotto in una sfuriata, e poi smesso, pazienza! Per quanto frequenti fossero quelle sfuriate ci sarebbe sempre stato frammezzo un po' di tempo di riposo; ma no, il suo era un continuo tatamellare colle più untuose sembianze e colle esclamazioni della più afflitta anima del mondo. Non era un temporale che passa e cessa, e lascia venire il sole a rasciugare; era una piova continua che immolla senza riparo e senza interruzione.
«Una volta adunque ch'egli aveva incominciato all'ora del pranzo la sua solita tiritera contro di me, ed io, rimasto lì col groppo nella gola, non potevo più mandar giù il boccone, Dorotea interrompendo colla sua voce grossa quella esile e sottile del padrone, disse in quel tono di collera che le era abituale:
«- Eh! lasci un po' stare tranquillo un momento questo povero scempiatello, che la vede bene non ha più tanto fegato da tirar nemmanco il fiato. Certo che la non lo ingrassa, che lo manda pasciuto di rimbrotti e di trafitture.
«Nariccia alzò verso la serva il suo volto flosciamente paffuto, ed una fiamma di sdegno lampeggiò ne' suoi occhi balusanti.
«- Che temerità è questa vostra, Dorotea? Diss'egli. Voi abusate stranamente, mi pare, della bontà con cui tollero le vostre impertinenze.
«Dorotea mise le mani in sui fianchi nell'attitudine battagliera d'una treccona che si appresta a mandare ed a ricevere una bordata di ingiurie nella lotta con una sua compagna.
«- Abuso? Gridò essa con voce più sonora che mai. Le mie impertinenze? Ella tollera?... Un corno! Oh! non mi guardi pure di cattiv'occhio che a me la sa che non mi fa paura... Nè lei ned altri musi più brutti del suo. E le mie buone verità glie le ho sempre dette e voglio continuare a dirgliele.... Ah! Ed a me di questo cazzatello me ne importa tanto quanto delle prime scarpette che ho frustato, va benissimo; ed ella poteva far benissimo senza d'una nuova bocca da alimentare, e se avesse dato retta a me non si sarebbe caricato d'un impiastrino che non so a qual cosa le possa servire. Ma poichè le è piaciuto far di sua testa e condursi in casa questo tristanzuolo, io le dico che bisogna almanco trattarlo come un cristianello e non farlo morire a pizzichi ed a piccol fuoco.
«La fiamma di sdegno balenò più intensa e più viva negli occhietti di messer Nariccia, ed io credetti vicino il momento in cui fra quei due avvenisse un aspro battibecco; invece di botto quel lampo nel padrone passò, gli occhi suoi ed anche il volto si chinarono verso terra, le mani si congiunsero e le labbra mormorarono col solito tuono di giaculatoria:
«- Sant'Antonio, mio protettore, datemi voi pazienza, e che io possa sopportar tutto di buon animo, in espiazione de' miei peccati.
«- Sì, bravo, continuava più fiera la fante, intanto la espiazione de' suoi peccati la fa sostenere agli altri.
«E rivolgendosi a me, con aspetto ed accento così grazioso come un cane che voglia mordere:
«- E voi, povero martuffino che siete, non lasciate sgomentarvi così e fatevi un po' più di animo. Mangiate, sostentatevi, mettete un po' di carne addosso; non vedete che non avete altro che un po' di pelle tirata su quattro ossa mal giunte insieme?.... To', prendete, nutritevi, e non date retta più alle malignità di questo pilastro d'acquasantino.
«Nel dir così aveva afferrato il piatto di mezzo al desco e mi aveva fatto cadere nel tondo che avevo dinanzi una enorme porzione della pietanza.
«Nariccia si drizzò in piedi, levò gli occhi al soffitto, torse il collo, mandò un sospiro e poi a schiena curva, con quei suoi passi riguardosi che non facevan rumore, uscì dalla stanza senza più aggiunger nemmanco una parola.
«- Oh oh! Sì ch'io so tenergli il bacino alla barba: esclamò con tono di trionfo Dorotea colle mani nuovamente in su' fianchi guardando dietro al padrone che partiva.
«Anch'io mi levai di tavola e mi disposi ad uscire.
«- Ebbene, che cosa fate? Mi disse Dorotea. Suvvia mangiate quella roba.
«Io aveva sempre più stretto il groppo nella gola.
«- Grazie: risposi: non posso, non mi sento.
«La donna mi guardò con espressione tra di collera e di disprezzo.
«- Andate là che siete proprio un povero baggiano voi!
«Questa era la sola persona che mi manifestasse alcun interesse, e questo il modo in cui me lo dimostrava.
«Messer Nariccia aveva sofferto in tal occasione una vera sconfitta, ma i danni di questa toccò sopportarli tutti a me, il quale se prima non poteva vantarmi d'avere l'affetto del padrone, di poi dovetti accorgermi che ero divenuto oggetto speciale della sua antipatia. Nell'ora dei pasti, ei non mi diceva più nulla; ostentava anzi di non badar più menomamente a me e faceva proprio come se io non esistessi, ma come se ne ricattava durante le lunghe ore che mi toccava passare con lui in quel tristissimo studio!
«Per mia fortuna mi rimaneva il compenso dei miei19 diletti studi, delle mie care letture la notte.
«Ti ho già detto come la grande soggezione che avevo per Nariccia, fosse ancora superata in ampiezza dalla grandissima disistima che avevo dovuto acquistare di lui.
«Diffatti non passò molto tempo che io dai lavori che venivo facendo e dai colloquii che udivo di coloro che venivano nel suo studio, avevo dovuto esser chiaro di tutta la scelleraggine che quell'uomo nascondeva sotto la sua schifosa ipocrisia. Ciò che peggio mi sdegnava era lo spietato rigore ch'egli, padrone di casa, usava verso i poveretti che avevano tolto da lui in affitto e non potevano pagare la pigione. Mentre ostentava di far parte di non so quante congregazioni di carità, egli toglieva a povere famiglie le ultime loro masserizie, mettendole sul lastrico, affine di esser pagato di ogni aver suo; e tutto ciò sempre invocando al suo solito Dio, la Madonna e tutti i Santi del calendario.
«Quelli poi che ricorrevano a lui per imprestito di denaro non potevano trovare altrove un peggiore usuraio. Fra questi vidi anche venire Gian-Luigi, e fu l'unica volta che lo vedessi dappoi che egli mi aveva allogato in quella casa. Nariccia trovavasi assente in quel momento, ma per tornare fra poco, e Gian-Luigi volle aspettarlo, stando meco in istudio a discorrere.
«Mi disse: che la somma avuta come legato del suo protettore era tutta consumata; che, avendo impreso a vivere con una certa eleganza non poteva nè voleva smetter più; che la professione della medicina avrebbe ancora tardato troppo assai a rendergli qualche cosa e i guadagni di essa non sarebbero pure stati mai tali da bastargli all'uopo; ch'egli perciò aveva rinunciato al proposito di farsi medico non sentendosi acconcio per istentar la vita ad arrampicar sulle soffitte a visitare degl'infelici che crepano di miseria, come deve fare ogni medico principiante, oppure per andarsi a seppellire in qualche paesucolo remoto, felice di avere uno scarso tozzo di pane in quello che si suol chiamare una condotta, non potendo aspirare a un po' di agiatezza e un po' di fama, anche avendo e mostrando molto talento, se non quando i capelli fossero brizzolati e la bella età tutta trascorsa. Egli aveva però, soggiunse, trovato il modo di pure strappare a questa nefasta matrigna che è per noi la società, i mezzi onde soddisfare ai suoi desiderii imperiosi. Il mondo era secondo lui un paese nemico da conquistare, e vi occorrevano forza, ingegno e tenacità di propositi. Egli possedeva tutto questo, e avrei dovuto vedere come sarebbe riuscito. Ma frattanto, durante il tempo della lotta, egli veniva a cercare munizioni di guerra anche all'usura di messer Nariccia e di altri suoi pari.
«Poichè il mio padrone tardava, discorremmo a lungo su tali argomenti: Gian-Luigi trascurava un poco le ragioni e le necessità d'ordine morale; nel suo materialismo scettico ed egoistico, egli veniva abituandosi a non discernere altro più che il suo vantaggio, inteso a modo suo. Dimenticava, anzi non curava appositamente, e quasi direi disdegnava tutti gli argomenti d'una filosofia superiore al sensismo epicureo, che in ogni fatta di quistioni pone per base e per norma il solo soddisfacimento dell'individuo. In me i libri avevano istillato qualche insegnamento superiore; gli amorosi ammonimenti della religione di Don Venanzio avevano lasciato tuttavia un tipo più elevato, un ideale più sublime della vita e del compito dell'uomo anche nell'ordine sociale come nel morale e nell'intellettivo. Abbracciavo col pensiero vedute e concetti più generali, e il motto del nostro destino mi pareva più grandioso che non quello cui affermava la smania di godimenti personali onde era travagliato Gian-Luigi.
«Fu quella la prima volta che io, contro il fascino seducente della persona e della parola ornata ed attraente del mio compagno d'infanzia, ebbi la fermezza di proclamare i miei diversi principii. Gian-Luigi se ne stupì. Volle ribattere, e il calore della disputa unita colla convinzione dovette darmi alcuna maggiore efficacia di discorso, di quella ond'egli mi credesse capace, perchè tutto attonito esclamò ad un punto:
«- Dove hai tu appreso cotante cose? Onde il tuo ingegno ha egli attinto tanta forza e tanto sviluppo? Se queste tue qualità tu impiegassi al conseguimento d'uno scopo preciso e definito, alla croce di Dio, che tu riusciresti senza fallo nell'intento.
«Nariccia sopraggiunse, ed entrato con Gian-Luigi dietro il cancello, discorsero abbastanza lungamente a voce bassa, senza ch'io potessi capire pure una parola, ma in tal modo che sembrommi l'usuraio opporre molte difficoltà alle domande del giovane, e finire per arrendersi poi sotto condizioni che udii Gian-Luigi in un momento in cui alzò la voce, chiamare enormi.
«Partendo, il mio compagno d'infanzia mi disse che sarebbe tornato a vedermi e che avremmo ripreso il nostro discorso, ma non lo vidi più in quella casa per quel poco tempo durante cui ancora ci rimasi.
«Chi ci veniva sovente era quel gesuita che Nariccia diceva suo confessore, padre Bonaventura....
- Quello è uno scellerato di frate, interruppe Giovanni Selva. In quante famiglie egli ha cacciato la dissensione e seminato l'odio! La mia è una di quelle. Quante eredità ha captate! Quante intelligenze ha castrate per farne ciechi stromenti alle voglie ed alle ambizioni del suo ordine! Un povero giovane che caschi in quelle mani, ne viene impastato, maneggiato, plasmato al modello di quel menno San Luigi che i gesuiti han creato per ideale della gioventù educata da loro. Ho visto ciò che hanno fatto di mio fratello. Un automa a cui essi tirano i fili. Non ci hanno lasciato nemmanco più il posto per un po' di cuore.
- Quando veniva costui, così riprese la sua narrazione Maurilio, io era inevitabilmente mandato fuor della camera, e lunghe lunghe ore passavano prima che il gesuita partisse, ed io fossi richiamato al mio tavolino. Approfittavo di questo tempo, che avrei voluto si rinnovasse anche più spesso, per correre ai miei libri nella mia stanza.
- Ma come mai messer Nariccia, il quale non mi pare molto amante di libri e d'istruzione, aveva egli in suo potere quelle tali casse?
Così domandò Selva; e Maurilio rispose:
- Avevo pensato ancor io a codesto e mi ero immaginato che ciò fosse in dipendenza di qualcheduno di quei suoi prestiti da usuraio cui lo vedevo fare tutti i giorni agli infelici che gliene capitavano tra mano. E mi ero diffatti bene apposto come un giorno mi venne chiarito.
«Vidi entrare un uomo di età matura, vestito di poveri panni, ma pulitissimo, con aspetto di onestà e di dignità modesta insieme, che lo rendeva affatto rispettabile.
«Dal colloquio che ebbe con Nariccia appresi chi fosse e quali rapporti avesse con codestui.
«Egli era un libraio, il quale, volgendo a male i suoi affari, era stato costretto a ricorrere a quell'arpia affino di averne danari in imprestito. A poco per volta il debito del povero libraio si era cresciuto talmente, che non potendo bastar più a pagare nonchè il capitale, ma gli interessi enormi che erano pattuiti per Nariccia, questi avealo minacciato di fargli vendere ogni cosa sua per giustizia e il povero libraio pregando e strapregando aveva ottenuto un po' di respiro col patto di dare in pegno al creditore tutto quel meglio che aveva della mercanzia del suo fondaco. Si era egli obbligato a pagare in certe rate a dati tempi il suo debito a Nariccia, il quale credendosi che mai più il debitore sarebbe a ciò riuscito aveva già intanto in sua mano il più prezioso di quanto avesse mai potuto prendere al suo debitore, e ne sarebbe stato padrone senza intromissione di tribunali o d'altro e senza ulteriori spese di sorta.
«Il buon libraio aveva ristretto il suo negozio ad un modesto baraccone sotto i portici, e vivendo con ogni fatta di privazioni egli e la sua famiglia, coll'aiuto, com'egli diceva, di qualche caritatevole persona, era giunto a tale da poter mettere insieme i denari occorrenti per la prima rata, e si era affrettato a venirli portare. Pregava intanto Nariccia a volergli restituire se non tutti quei libri che avevagli dato in pegno, almanco una parte; ciò, soggiungeva, sarebbegli stato di gran vantaggio, perchè avrebbe potuto così dare nuovamente maggiore sviluppo al suo commercio che ora pareva volersi ravviare, e così porsi in grado eziandio di più sicuramente adempire a tempo agli obblighi assunti verso il creditore.
«Ma per quanto egli dicesse e pregasse e scongiurasse, Nariccia fu incrollabile. Il pegno doveva stare presso di lui fino a totale estinzione del debito; egli non voleva privarsi dell'unica guarentigia che avesse, e quindi non avrebbe consentito a nulla di codesto, finchè non avesse ricevuto sino all'ultimo centesimo il pagamento dell'aver suo.
«Durante questa discussione il mio animo era combattuto da diversi sentimenti. La pietà mi faceva desiderare che Nariccia cedesse alle domande del libraio; ma l'idea che sarei privato dei miei libri diletti mi era pur dolorosissima. Senza quell'unico conforto qual vita sarebbe stata la mia in quella casa? Mi dicevo fra me che certo, ove ciò avvenisse, non avrei resistito più e sarei partitomi di là. Ma per andar dove? Per far che?
«Frattanto l'idea che il libraio avrebbe potuto pagar quanto prima tutto il suo debito e riavere i suoi libri, mi pungeva continuamente e mi dava nuovo ardore a studiare. Non dormivo più che un'ora appena per notte, la mia salute se ne stremava sempre più, e le candele consumavano in fretta, così che la sottrazione ch'io ne faceva doveva pur finalmente apparire alla Dorotea. Ben lo pensavo alcuna volta, e un gran spavento mi occupava, ma come fare altrimenti?
«In questo frattempo ecco un giorno avvenire tal cosa che tutto mi conturbò più che non ti possa dire.
«Ero, secondo il solito, nello studiolo con Nariccia. Entra un uomo piccolo, mal in arnese, sottile, con faccia di faina, il quale interpella con una strana domestichezza il mio padrone:
«- Eh buon giorno, messer Nariccia. Come va? Mi riconoscete ancora? Gli amici non si debbono dimenticar mai.
«Quella voce non mi era ignota. Alzo gli occhi e figurati come io mi rimanessi nel vedermi innanzi il naso affilato di Graffigna, il mio compagno di carcere!
«La presenza di codestui non parve andar molto a sangue neppure a messer Nariccia. La bassa di lui fronte s'intorbidò, gli occhi rotarono inquieti intorno, come a cercar uno scampo.
«- Chi siete voi? Che volete? Diss'egli, volendo assumere un aspetto imponente ed altezzoso.
«Graffigna s'inchinava umilmente, ma ad un tratto drizzando la persona, mettendo il suo muso volpino sotto il naso di Nariccia e piantandogli in faccia gli occhi, rispose con una certa sicurezza che toccava l'impertinenza:
«- Chi sono? Possibile che abbiate perduto siffattamente la memoria, messer Antonio, o che io mi sia tanto cambiato da non riconoscere più in me un antico amico?
«A questa parola Nariccia diede in un soprassalto, e uno de' suoi occhi fece scivolare uno sguardo verso di me, che tutto stupito di codesto stavo a guardare a bocca larga colla penna in mano.
«- Sono Graffigna, continuava quell'altro con accento e con sorriso ironici, e se volete che aiuti un poco la vostra memoria...
«- No, no: interruppe affrettatamente Nariccia, dando alla sua fisionomia l'ipocrita mansuetudine che soleva portarvi stampata su per maschera. Non vi avevo di subito ravvisato. È tanto tempo che non vi ho visto!...
«- Ma! Esclamò Graffigna con un dolentissimo sospiro. Non è la mia volontà che m'abbia tenuto lontano da voi sì a lungo. Sono le circostanze; è quel maledetto destino che non cessa di perseguitarmi, sapete. La calunnia si accanisce dietro di me e la persecuzione non si stanca mai contro questo povero diavolo. Ultimamente ancora, figuratevi che venni accusato....
«Nariccia lo interruppe di nuovo con sollecita premura:
«- Aspettate, venite qui, sedete, discorreremo più a bell'agio delle cose vostre.
«Poi si rivolse a me e mi disse con insolita dolcezza:
«- Andate da Dorotea, Tognino; può essere ch'ell'abbia bisogno di venire aiutata in qualche cosa. E vi riposerete anche un poco dal lavorare al tavolino.
«Uscii molto volentieri, perchè, oltre il resto, la presenza di Graffigna mi era supremamente impacciosa; invece di recarmi in cucina da Dorotea, fui nella mia cameretta intorno ai miei libri.
«Graffigna mi aveva egli riconosciuto? Avrei detto di no, avrei detto ch'egli non mi avesse neppur scorto, o quanto meno dato non mi avesse alcuna attenzione, se nel momento appunto in cui uscivo dalla stanza non mi avesse scoccato ratto e di sottecchi uno sguardo in cui c'era come un saluto, come una segreta intelligenza, come un segno di convenzione.
«Per un poco non potei attendere alla mia diletta lettura a cagione dell'ansietà in cui ero posto dal timore che Graffigna dicesse al mio padrone chi fossi e dove mi avesse conosciuto; poi, secondo il solito, lo studio prese tutta l'anima mia, e non badai più e non pensai più ad altro.
«Quando cessai, già stanco dallo studiare, mi stupii che tanto tempo di libertà mi fosse stato lasciato, senza venirmi ad interrompere, ed uscii dal mio stanzino assai peritoso. Nariccia era andato fuor di casa ned era ancora tornato. Dorotea impaziente ed inquieta, brontolava che il pranzo pel troppo ritardo andava a male.
«Il padrone rientrò con faccia evidentemente preoccupata, non mangiò nulla, non aprì bocca neppure per rispondere alle interrogazioni di Dorotea, e fu sollecito a ritrarsi nella sua camera.
«Due giorni dopo ricorreva la domenica. Nella mattina io aveva un'ora di libertà per andare a messa, e ne profittavo sempre per recarmi fuori porta a respirare un po' d'aria libera.
«Quel giorno appena fui sotto i viali di porta Susa, udii dietro me il passo d'un uomo che pareva affrettarsi sulle mie peste; mi rivolsi a guardare, e vidi con isgradita sorpresa Graffigna, il quale mi fece segno lo attendessi e camminava ratto per raggiungermi. Lo avrei evitato molto volentieri; mi venne in mente di correr via per isfuggirlo; ma in un attimo egli mi fu accosto e mi prese famigliarmente pel braccio.
«- Buon giorno, caro figliuolo, mi disse. Ho tanto piacere di vedervi; il diavolo mi porti, che sono stato più di un'ora stamattina alla porta della casa di Nariccia, aspettando che ne usciste. Non vi ho voluto fermare per le strade e per non darvi suggezione, e per prudenza; ma quando vi ho visto venir fuori di città, ho detto: bene! Giusto quello che ci vuole. Qui si può discorrere senza che vi sia un orecchio di troppo ad ascoltare.
«Prese a camminarmi accosto, avviandoci giù per lo stradale di Rivoli.
«- Misericordia! Come siete gramo, mio povero Maurilio; riprese egli a dire. Pare che viviate di lucertole e di brodo di malva. Quel caro messer Nariccia, birbone matricolato, brav'uomo d'un avaro degno della galera, che leverebbe la pelle ad una pulce, vi fa patir della fame, ci scommetto. Eh! lo conosco da un pezzo io. Sono sicuro che questa mattina non avete ancora fatto colazione. Lo si vede chiaro su quella vostra bella faccia verde da minchione intisichito. Buono! Graffigna è un amico, sapete! C'è in questi dintorni una spelonca di bettolaccia20 che è la migliore del mondo, in cui uno scellerato di taverniere, mio buon amico, avvelena la gente nel modo più squisito del mondo. Venite meco che ci mangieremo una fetta di eccellente salame e due peperoni coll'olio che vi dico io!...
«Me ne scusai a gran pena. Quando vide che non poteva trarmi dov'egli voleva, Graffigna disse:
«- Ebbene, pazienza, discorreremo all'aria aperta. Si tratta del vostro interesse. Io sento, in fede di galantuomo, che il boia mi strozzi, una viva sollecitudine de' fatti vostri. Che bella vita è quella che vi tocca con quell'animale d'un usuraio, mio buon amico, ladro, impostore che vorrei vedere affogato nella pece bollente! Vi fa lavorare da un'alba all'altra quel cane e vi mantien magro come siete, e vi veste di questa bella guisa da farvi suonar le tabelle dietro, e sono più di certo che non vi lascia veder mai la croce d'una mezza muta. Ditemi un po' se la sbaglio.
«Non potei a meno di consentire che tutto codesto era vero.
«Graffigna strinse il pugno e lo levò con atto di minaccia verso il cielo.
«- Uh! appenderlo per la gola e poi dargli da bere. Gli è proprio un ingrataccio scellerato quel caro uomo che merita non so che cosa. E a me sapete che cosa ha fatto, a me che sono suo amico da vent'anni, a me che, non fo per dire, ma gli ho resi dei bei servigi, e sono stato causa ch'ei guadagnasse delle rotonde sommette di denaro? A me che, come sapete anche voi, ho avuto delle disgrazie, a me che esco di carcere pulito e liscio come un soldo frusto, egli ha il coraggio di rispondere che non può dare nè far nulla a mio vantaggio, e poichè io mi credo in diritto di ricordargliene alcune delle cagioni per cui mi dovrebbe essere riconoscente, sto birbone va dal commissario Tofi e mi denunzia come un individuo pericoloso che gli ha fatto delle minacce e che merita di essere sorvegliato da quella p.... invenzione che è la polizia. A me Graffigna se ne fanno di queste! Buono! Me la sono appiccata qui all'orecchia e tosto o tardi glie la farò pagare. Se fosse tosto mi piacerebbe tanto di meglio, ma se avessi ad aspettare ei non ci perderebbe21 nulla per questo, che vorrei dargliene il capitale coll'usura, usuraio che egli è appunto! Or dunque voi, giovinotto, potreste servirmi appuntino nei miei disegni, e fareste con un colpo un fatto e due servizi, perchè contentereste me ed aggiustereste nello stesso tempo i fatti vostri di guisa che non avreste mai più freddo ai piedi e vi impipereste di quanti sono al mondo.
«- Io? Che cosa c'entro io? Domandai, non comprendendo affatto le intenzioni di Graffigna.
«- Voi, sicuro. Egli rispose. Prima di tutto, mio caro ragazzo, se non siete proprio quel babbuino di cui avete l'aria, dovete rendervi conto della condizione in cui vi trovate. Nariccia vi tiene a rosicchiar le croste del suo pane, perchè non sa che siete stato in prigione. Lo sappia stassera, e domani voi siete messo bravamente sul lastrico con un caritatevole calcio dove m'intendo io. Vi converrebbe imbrogliar qualchedun altro perchè vi prendesse seco, per vedervene mandato via con quel medesimo garbo il primo momento ch'egli apprendesse il vostro passato. Ad un miseruzzo che si presenta colla vostra figura, coi vostri panni per guadagnarsi un tozzo di pane, tutti domandano donde viene, che ha fatto, che cos'è, e via dicendo. Ad un messere che comparisca vestito da milorde, colla borsa piena d'oro, nessuno cerca altro più per inchinarlo, riverirlo e stimarlo il più rispettabile uomo del mondo. Perchè dunque vorreste ostinarvi a far la brutta figura e crepar di miseria, mentre non avreste che ad allungar la mano e procacciarvi la più agiata esistenza?
«Io feci un movimento di stupore, e fors'anco di curiosità. Egli mi strinse forte il braccio e continuò, abbassando la voce, ma con molta forza nell'accento:
«- Sì, carissimo amico, stupido come un orciuolo, che il fistolo vi colga. Niente altro che allungar la mano. Ma non sapete voi che dietro quel cancello di ferro, in quella cassa-forte, in presenza della quale voi poverino, tòcco d'imbecille che Dio vi benedica, vi state sciupando gli occhi e la vita per guadagnarvi tanto da non morire di fame, colà vi stanno rammontati a centinaia di migliaia i marenghini? Or bene, è la cosa più semplice del mondo. Io vi do quattro pezzetti di cera: voi, un bel momento che vi trovate solo in quell'antro, applicate discretamente questi pezzi di cera alle serrature dell'uscio del cancello di ferro.... non dico alla cassa-forte, perchè avrei alcuni bravi amici, fior di gente, che verrebbero ad aiutarmi e senza tanti discorsi, per guadagnar tempo, se la porterebbero via in ispalla come un cuscino di piume! Poi date a me le impronte, ed io in pochi giorni ho le mie brave chiavi, per cui entro, e faccio, e dispongo, e porto a cambiar aria il tesoro di Nariccia...
«Io feci a liberarmi dalla mano di quel scellerato che mi teneva ancora pel braccio, e volli allontanarmi da lui.
«- Oh non c'è da aver pure un'ombra di paura: egli soggiunse interpretando in un altro senso il mio movimento di disgusto e d'orrore. Graffigna è prudente: sa disporre le cose, e non lascia nessuno de' suoi amici nelle peste. Voi, mio bell'angioletto da f..., dopo che ci avreste aiutati nell'opera, verreste con noi, piglieremmo tutti il volo che nessuno dei segugi della polizia, per quanto di naso fino, potrebbe averne pure il minimo sentore; avreste la vostra buona porzione da vivere da signore in altro paese, e chi s'è visto si è visto.
«Io lo respinsi da me con disdegno.
«- Sciagurato, esclamai, per chi mi prendete? Ringraziate che qui non c'è anima viva; se fossimo in città, griderei al ladro per farvi arrestare.
«- Oh oh! Diss'egli con ironia. Che virtù delle mie ciabatte, caro il mio santino d'un maccherone! Ne ho sentito dei panegirici di santi meravigliosi, ma un tanto esempio di virtù non ci fu ancora mai! Bravo! Pensate che il vostro rifiuto vi può far mettere alla porta da Nariccia senza che abbiate più altro mezzo di sussistenza.
«- Come?
«- Una lettera anonima che dicesse a Nariccia: badate che quel vostro miseruzzo di segretario è un galantuomo di ladroncello uscito dalle carceri....
«- E voi scriverete questa lettera?
«- Se rifiutate di assecondarmi, certo che sì.
«Stetti un momento in silenzio, non perchè fossi dubbioso o perplesso, ma perchè la tristizia di quell'uomo mi gettava in una dolorosa attonitaggine.
«- Fate pure quello che credete contro di me: gli dissi poscia fermandomi sui due piedi; ma qualunque minaccia anche più terribile di questa, non m'indurrà mai a fallire all'onestà.
«Egli accennò voler parlare, ma io non gli lasciai pronunziare parola.
«- Ora basta. Esclamai con forza. Vi ho già dato retta di troppo; di troppo già ho tollerato la vostra compagnia. Lasciatemi, lo voglio, ve l'impongo!
«L'aspetto e l'accento dovettero avere in me una certa nuova autorevolezza onde quello sciagurato fu come sovraccolto. Mi guardò un poco ma fu costretto a chinare innanzi ai miei quei suoi piccoli occhi affondati; esitò un istante, e poi si decise ad allontanarsi.
«- Come volete: diss'egli: eccelso stupido che siete, caro figliuolo che la peste vi affoghi! Il colpo si farà lo stesso e voi avrete il gran merito di non avere neppure un da due denari. Così la vostra eroica virtù sarà contenta... Ma andate pur là che un giorno o l'altro la fame e il bisogno di ogni cosa vi faranno cascare, e invece di aver per primo un bel colpo, come quello che vi propongo io, mercè cui sareste colla pignatta provveduta per tanto tempo, sarete costretto a qualche miserabile ladroncelleria che vi manderà a marcire in prigione in causa di un tozzo di pane. Fate a vostro modo: vi lascio e non vi dico più nulla: ma vi pentirete, ne sono certo, e vi rincrescerà all'anima di avermi oggi risposto a questo modo.
«Dopo tali parole si allontanò a passo lento, e fermandosi tratto tratto, quasi nell'attesa ch'io lo richiamassi.
«Io guardava dietro lui con animo turbatissimo, le sue parole mi avevano richiamato alla mente che già pur troppo ero cascato là dov'egli diceva, e quello delle candele era un vero furto da me commesso.
«Tornando a casa ero agitato e perplesso. Graffigna mi aveva detto che, non ostante il mio rifiuto d'entrar complice, quel delitto si sarebbe compito la stessa cosa. Era certo il mio dovere farne avvisato il mio padrone. Parevami che se il fatto avvenisse e ch'io non avessi posto in sulle guardie Nariccia, anche su me avesse da ricadere parte della colpa. Ma come governarmi affine di renderne avvertito il padrone? Dirglielo io stesso non avrei osato mai; e come spiegargli il modo onde ero venuto in cognizione di codesto? Ad un tratto mi ricordai la minaccia di Graffigna, di svelare il mio passato a Nariccia per mezzo d'una lettera anonima.
«- Ecco il mezzo! Esclamai tra me stesso, e camminai di buon passo verso casa per mettere in esecuzione quel disegno, ed affrettandomi a scrivere la lettera falsando più che mi fosse possibile la mia scrittura, non fui tranquillo finchè ebbi visto ingoiata quella carta dalla buca della posta.
«Quella stessa sera Dorotea mi apparve assai sopra pensiero. Si sarebbe detto che alcuna cosa stava sulle sue labbra per venir fuori, e ch'ella tuttavia si studiava di trattenere. Due o tre volte colsi il suo sguardo fisso su di me con una certa acutezza osservativa che mi faceva intimamente tremare. Sentivo come una incognita minaccia incombermi sopra. Ero inquieto di tutto e ad ogni momento il cuore mi balzava con palpito quasi doloroso.
«La sera non potei addormentarmi che a stento; mi svegliai all'ora solita della notte, ed acceso il lume, secondo l'usato, mi posi allo studio. Non era gran tempo che io mi trovava tutto assorto in esso, quando mi sembrò udire uno strascico di pianelle nel corridoio. Sorsi di scatto, coll'idea di spegnere il lume, nascondere il libro e gettarmi sul pagliericcio: non era più tempo, l'uscio s'aprì e comparve la grossa faccia di Dorotea più burbera e più brutta del solito.
«A quella vista io stetti come annientato. La donna guardò me, guardò il lume acceso, e i suoi occhi mandarono lampi e faville; poi con uno scoppio di quella sua terribil voce da omaccione:
«- Ah! Sei dunque tu, gridò, lo scellerato di ladro che mi ruba le candele! Da un po' di tempo mi pareva e non mi pareva che le consumassero troppo più che non per l'addietro; ma stamattina poi mi sono convinta che le mi sfumavano proprio dalla cassetta, e quantunque non ci sia altri che te in questa casa, tristanzuolo, non volevo credere che tu fossi capace di tal birbonata. Non ho voluto dir nulla ancora al padrone...
«Io la interruppi pregandola, scongiurandola a tacere la cosa. La paura mi aveva ridonata un po' di energia, cui dapprima tutta mi aveva tolta la vergogna. Le dissi il perchè di quel mio fallo, le affermai essere mio intendimento pagare tutte le prese candele, coi primi denari che avrei esatti dal padrone pel dovutomi stipendio; non volesse perdermi, non volesse precipitarmi per l'affatto, svelando la cosa a Nariccia che io prevedeva, che sapeva inesorabile.
«Non so se Dorotea si sarebbe acconciata ad accondiscendere alle mie preghiere; ma la cosa fu ridotta ad ogni modo impossibile, perchè Nariccia medesimo, il quale non dormiva che il sonno leggiero degli avari, sveglio dagli scoppi di voce della donna, accorreva sollecito a vedere che cosa fosse.
«Ti lascio immaginare il suo furore nell'apprendere la verità. Mi investì colle più atroci ingiurie. Le galere, che? il capestro erano poca pena al mio delitto. Egli non voleva tenere neppure un'ora, nemmeno un momento di più sotto il suo tetto un simil birbante: partissi in sull'atto e senz'altro; ma poi tosto si ravvisava e decideva serbarmi a peggior sorte. Gli era ai R. carabinieri che mi si doveva consegnare, affinchè pagassi del mio delitto il meritato fio.
«Se colla Dorotea avevo pregato, innanzi alla collera di Nariccia ero stato fermo, immobile e silenzioso; e quella mia calma pareva aizzarlo ancora di vantaggio. Ma quando udii minacciatami di nuovo la carcere, innanzi allo spavento di ritornare in quella bolgia infernale, la mia fierezza cedette.
«- Oh no, per carità! Esclamai, congiungendo le mani con ineffabile supplicazione.
«Ma Nariccia non era uomo a intenerirsi così per poco; ond'egli riprese le sue minaccie ed i suoi oltraggi, finchè Dorotea, quasi impazientita, lo interruppe col suo brusco parlare:
«- Per ora lasciamola un po' lì, e torniamo a dormire. Domani mattina discorreremo.
«Nariccia seguì la serva borbottando, ma non prima che avesse frugato in ogni dove nella mia stanzuccia per vedere se qualche cosa avessi di nascosto, e non senza portarmi via quella malaugurata candela. Uscendo chiuse a doppia mandata colla chiave la serratura dell'uscio, affinchè non me ne potessi fuggire.
«Il domani le determinazioni di messer Nariccia erano ancora più severe a mio riguardo. Egli aveva ricevute due lettere anonime; quella con cui Graffigna manteneva la sua parola e gli svelava l'esser mio; e quella che io gli aveva scritta per farlo avvisato del pericolo di latrocinio tramato a suo danno. L'usuraio si persuase tostamente che colui del quale gli si denunziavano le cattive intenzioni verso di lui, senza scriverne il nome, non poteva esser altri che io stesso già uscito di prigione, già côlto in flagrante di una ruberia. Gettò, come si suol dire, fuoco e fiamme; e la sua volontà di pormi in mano alla giustizia parve più irrevocabile che mai.
«Fui allora ad un pelo d'essere perduto. Alla vecchia Dorotea dovetti la mia salvezza, e glie ne consacrai perciò una riconoscenza eterna. Ella in quel frangente tolse dall'abisso in cui tutto congiurava precipitarla, un'anima umana, e per quanto quella donna sia stata cattiva, di quella buona opera, spero che glie ne sarà tenuto conto. Come conviene andare a rilento nel condannare i colpevoli! Soltanto chi non è stato nelle occasioni della tentazione, chi non ebbe nemica alla sua onestà la fortuna, colui soltanto può avere un disdegnoso disprezzo per l'infelice che soccombette. Quei che conosce la vita, quegli che ebbe da lottare colle difficoltà del destino, se impara a stimar tanto più l'uomo che si è serbato incolume, impara eziandio a sentir meno orrore e più compassione per chi ha fallito. Dove io fossi stato allora incarcerato per la seconda volta con un vero reato, come i giudici non avrebbero mancato di sentenziare che era il mio; quando parecchi mesi ancora avessi dovuto passare in quella orrida e scellerata compagnia che si trova in prigione, quale ne sarei venuto fuori?
«Dorotea ebbe pietà di me. Per sua intercessione Nariccia si contentò di mettermi alla porta riprendendomi financo i suoi logori panni e tornando a farmi vestire quei villerecci che pareva aver conservato in previsione d'una simile circostanza; ed io mi trovai sul lastrico della strada, senza un soldo, senza un tozzo di pane, senza sapere che far di me, nè dove rivolgere i passi.