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Quando
le dissero che la casa era cinta da un cordone militare, Amalia fece una grossa
risata, rovesciandosi come una matta sulla seggiola a sdraio: non così Mario,
la cui faccia s'abbuiò, come se un dispaccio della borsa di Parigi gli avesse
annunciato essere la rendita calata di tre punti.
- Accidenti ai cordoni! - borbottò, buttando via, con aria di stizza, la sigaretta.
- Ed io ci ho gusto, invece.
- Bel gusto! già, era meglio che non venissi, questa sera: qualche cosa mi diceva che mi sarebbe successo un guaio.
- Ma sai, caro, che sei d'una sgarberia unica?
- Oh: non mi seccare!
- Quand'è così... ci ho gusto due volte. Domenica scorsa m'avevi promesso di passar due giorni interi con me e invece poi, al solito, ti sei squagliato. Vedi: è l'amore che si vendica.
- Chi sa in che impicci mi vado a trovare adesso!
- Sì, che ora c'è da spaccarsi la testa contro il muro. Affari non ne hai....
- E che ne sai, te?
- Oh, bella! m'hai detto, sì o no, che in borsa non fai più nulla da un mese in qua? Tua moglie è lontana...
- Ma che lontana! in Arenzano: non c'è che un'oretta di ferrovia.
- Insomma: a casa tua sei solo...
- Niente affatto, perchè c'è il servitore.
- È forse tuo zio, tuo suocero, tuo tutore? con cinque lire, dirà quello che vorrai e ciao.
- Sta bene: ma mia moglie può tornare da un momento all'altro... sabato sera m'aspetta.... tutti i giorni le devo mandare un dispaccio sulla mia salute...
- Il cordone non t'impedisce mica di spedire quanti dispacci vuoi.
- Sì, ma io conosco bene Giacinta: se sabato sera non mi vede, sta pur sicura che domenica mattina, alle sette e nove minuti, ecco che arriva a Genova. Eh, la conosco, io.
- Anche a questo c'è rimedio: perchè non fingi una partenza improvvisa? un viaggio?
- Ci avevo pensato: ma lei, se le dico che sono andato, mettiamo il caso, a Milano, aspetterà i miei dispacci quotidiani da Milano; capisci?
- Ma che sei diventato? un mammalucco? e ci vuol tanto a scrivere a un amico a Milano che spedisca dispacci a nome tuo? non ce l'hai un amico a Milano?
- Sicuro, che ce l'ho: per esempio.... il prefetto. Ma ti pare che mi possa rivolgere a una persona così seria, per una faccenda di questo genere? Ci sarebbe Augusto, ma....
- Chi? Augusto Tebaldi? benissimo: sarebbe quello che fa proprio al caso nostro.
- Lo so: ma è un giovanotto sventato, capace di giocarmi un tiro.
- Ah, questo poi no: siete tanto amici!
- Tanto amici! tanto amici! - ciangottò Mario Ricciarelli, aggrottando i sopraccigli: - l'amicizia non gli ha impedito di fare una gran corte a Giacinta!
- Sul serio?
- Tanto sul serio che, confidenzialmente, l'ho pregato di sospendere le sue visite troppo assidue.
- Ah, dunque sei geloso?
- Geloso, no, ma diavolo! appena lui sapeva che stavo fuori, taffete! in casa mia. Capirai che...
- Capisco: quand'è così, pensa un po' te a qualcun altro.
- Eh, ci penso, sì: ma non trovo.
A furia di pensare, Mario Ricciarelli si convinse che non c'era da scegliere e finì col mandare un telegramma all'amico Augusto, per dirgli press'a poco così: - l'autorità, per misure igieniche, che il diavolo se la pigli, mi ha sequestrato in casa d'Amalia; figurati un po' se lo sapesse mia moglie! Tu solo puoi salvarmi, telegrafando a Giacinta, in Arenzano e a nome mio, per dirle che sto presso di te un po' di giorni per affari importantissimi: ogni mattina, poi, fino a nuovo avviso, le manderai un dispaccio sui generis, sempre a nome mio, per dirle che sto bene: apri pure i dispacci suoi che ti arriveranno, sebbene diretti a me; inoltre, siccome sto sulle spine, ti prego di ragguagliarmi di quanto può succedere, per mezzo sempre di dispacci a questo indirizzo: Amalia Trevisan, casa Lambruschini, via Minerva. E non mi fare brutti scherzi, mi raccomando!
Poi, mandò un dispaccio alla moglie in Arenzano per annunciarle la sua partenza improvvisa, e una lettera a Menico, il servitore, per dargli le istruzioni necessarie, casomai.
Così aggiustate alla meglio le proprie faccende, Mario smise un po' il broncio, e disse alla divina Amalia:
- Se, intanto, si cenasse?
Al tocco dopo la mezzanotte arrivò un dispaccio, in cui non si leggeva altro che questo:
Amalia Trevisan, casa Lambruschini, via Minerva, Genova.
- Birbone!
Dopo
tutto, Mario si rassegnò facilmente al suo destino. Giovane, ricco,
spensierato, quella quarantena, insieme con una donnina adorabile, come la
Trevisan, non era poi un supplizio tanto spaventevole. Un demonio,
quell'Amalia! Non la conoscete? Ma che: l'avrete vista cento volte a spasso per
via Roma, con l'ombrellino giallognolo guernito in pizzo di Venezia, o nelle
poltrone del Politeama, sorridente sotto un gran cappellone d'una forma
singolare, che a lei sola sta bene tanto e non può essere portato che da lei.
Tutti dicono che Mario ci abbia speso di gran quattrini e sarà: è giusto che egli faccia dimenticare l'avarizia del padre, che in mezzo ai milioni è morto di miseria. E poi, Mario non è un minchione: sa spendere e sa guadagnare, poichè, a sentire gli amici, nessuno ha come lui un colpo d'occhio sicuro, nei giuochi di borsa.
Così ci avesse pure un po' più di esperienza nei giochi del matrimonio! Invece, ha il torto di trascurare troppo la signora Giacinta, sua moglie; una creatura che, se la vedeste, pare proprio venuta
Di cielo in terra a miracol mostrare.
Le male lingue dicono ch'è un po' civetta, ma quando s'ha un marito scapato come il Ricciarelli, sfido!
Il domani, per tempo, la signora Giacinta, nel suo villino d'Arenzano, ricevette questo dispaccio:
- Sono arrivato ottima salute - Augusto fecemi accoglienza cordialissima. - Spero sbrigare affari prestissimo - mandami tue notizie.
La sera, Mario - o piuttosto Amalia per lui - non ricevette nessun dispaccio dall'amico di Milano, Augusto Tebaldi.
Il dispaccio atteso arrivò invece la mattina appresso, in casa Trevisan, ma non era precisamente quello che Mario aspettava, poichè, non senza un brividìo per le vene, lesse quanto segue:
- Giacinta, impaurita inoltrarsi epidemia, ebbe idea recarsi teco Svizzera. Malgrado molti dispacci firmati nome tuo tentassi dissuaderla, ella venne Milano; trovasi attualmente in casa mia. Dissile tu eri andato Bologna affari urgenti; torneresti presto. Rispose aspetteratti. Come devo regolarmi? Telegrafa. O piuttosto: vieni appena puoi!
Non è possibile descrivere l'effetto psicologico prodotto nell'animo di Mario da quelle due tremende parole: Rispose aspetteratti, quasi eco crudele a quelle anteriori: trovasi attualmente in casa mia!
Amalia gli volgeva le spalle per sorridere con malignità; lui si mordeva i baffi e, bestemmiando sottovoce, dava di gran pugni sulla scrivania.
- Oh, questa è grossa! e come si fa, ora? potessi calarmi da una finestra senza esser visto! ma chi è quel porco che ha inventato i cordoni sanitari?
Telegrafare a quel galeotto d'Augusto? ma che cosa telegrafargli? che il diavolo se lo porti via?
Amalia, tacita, sorrideva nella penombra del saloncino e Mario si torceva furiosamente i baffi. Poi, preso il cappello, se lo ficcò in testa e s'avviò verso l'uscio, borbottando:
- In qualche modo, perdinci, escirò.
Amalia lo lasciò andar via, senza dirgli nulla.
Mario scese le scale e sul portone si trovò davanti a due guardie municipali sì, ma inesorabili.
- Arrivo un momento dal tabaccaio e torno.
- Ma lei scherza: non vede che c'è il cordone?
- E quanto durerà questo cordone maledetto?
- Non si riscaldi: pare che domani saranno messi tutti quanti in libertà.
Mario risalì, sbuffando, le scale e rientrò nel saloncino d'Amalia, buttandosi a sedere, con le gambe accavallate, in un cantone.
- Perchè, - gli disse Amalia con voce di flauto e leggero accento canzonatorio - perchè non telegrafi a Tebaldi?
- Eh, non mi rompere l'anima anche te!
Dopo ventiquattr'ore d'angoscia, finalmente era libero! Il prefetto aveva rintascato il suo cordone sanitario e i casigliani preparavano un po' di luminaria per festeggiare il fausto avvenimento.
Mario
corse a casa sua, diede dell'imbecille e dell'asino a Menico senza un perchè,
fece in fretta e in furia una valigietta e, col primo treno, sebbene fosse omnibus, partì per
Milano. Ne masticò della bile, su quel convoglio! Quando, finalmente, arrivò in
piazza Beccaria, ove abitava quell'amico birbone, era verde a dirittura. Si
fermò mezzo minuto sul portone, quasi a riprendere fiato: poi, col gesto di
Cesare al Rubicone, salì le scale e bussò al terzo piano. Gli aprì una
cameriera belloccia, col naso in su.
- Chi cerca?
- Ah, lei è dunque il signor... come si chiama... di Genova: è vero?
- Sì, son io.
- Una lettera?
Mario rimase lì come la statua d'un viaggiatore con la valigia in mano, mentre la cameriera, svelta svelta, spariva e tornava con una busta verdognola. Mario, macchinalmente, la prese e guardò la soprascritta.
L'infelice strappò l'involucro, coi sudori freddi e lesse:
- Tu m'hai messo in un pasticcio tale che non so come uscirne. Per aver detto a tua moglie che sei all'Hôtel d'Italie, ella ti ha mandato a Bologna tre dispacci, senza avere, naturalmente, risposta. Allora, ha voluto a ogni costo partire per Bologna, e io devo fare il sacrifizio d'accompagnarla, per impedire una tragedia. Vieni subito a Bologna. In qualche modo, vedremo di aggiustarla.
La data era quella del giorno avanti.
- Sacr....
- Eh, ho.... un gran mal di testa!
- S'accomodi.
- Ma che accomodarmi! son già bello e accomodato....
E giù, senz'altro aspettare, giù a precipizio per le scale; un fiacre e via di corsa alla stazione.
Ecco Mario sul treno di Bologna: anche questa volta, naturalmente, un treno omnibus, che non arrivava mai.... mai!
Dall'omnibus ferroviario, lo sciagurato Ricciarelli salì su quello dell'Hôtel d'Italie e - non sapendo dominare le sue smanie - chiese al conduttore:
- Scusate: c'è all'albergo un signore e una signora, così e così?
- Ah, lei è dunque il signor.... come si chiama?... vien da Genova, lei?
- Sì, son io; ma quel signore e quella signora?
- Sono partiti questa mattina.
- Partiti!
- Ma hanno lasciata una lettera per lei.
Povero Mario! gli parve di sentire in sè, più che la collera, i sintomi del colera fulminante.
L'omnibus giunse all'hôtel e il conduttore gridò al segretario:
Quel signore!
Il segretario accorse con una letterina, che Mario appena ebbe forza di leggere:
- Ma che fai? dove sei? appena giunti a Bologna, mi misi d'accordo con l'albergatore, perchè dicesse che tu eri andato a Firenze per ventiquattr'ore. Non abbiamo passato che una notte a Bologna. Spirate le ventiquattr'ore, Giacinta volle partire per Firenze. Vieni, ci troverai alloggiati, all'Hôtel Washington.
- Ci troverai!...
- Vuol riposare? - chiese cortesemente il segretario; - sono ancora libere io camere dei suoi amici: il 14 e il 15. Quale desidera?
- I miei amici! - ripetè Mario, con voce sepolcrale: - no.... non sono stanco e poi devo ripartire adesso, adesso: fate venire un legno.
Questa volta, lo sventurato Mario acchiappò il diretto e giunse a Firenze alle nove e venti di sera; alle dieci, le sue gambe, tremanti sotto un corpo affranto, salivano le scale dell'Hôtel Washington.
Sul
primo ripiano c'era Augusto con le braccia aperte: dalla ringhiera, al secondo
ripiano, si spenzolava Giacinta, che gridava con tenerezza:
Augusto abbracciò fortemente l'amico e gli bisbigliò all'orecchio:
- Bada: che lei crede che tu arrivi da Orvieto.
- Grazie! - mormorò Mario, coi denti stretti, e salì ancora.
Giacinta gli buttò le braccia al collo, baciucchiando quella faccia smunta e intrisa di fuliggine.
- Cattivaccio! - gli disse, poi - ne ho passato delle inquietudini!... se non era per Augusto che cercava distrarmi!... son finiti o no, questi affari benedetti? Io, poi, t'ho da raccontare tante cose....
- Ah, sì?
- Quel che è successo, in questi giorni!... figurati che, quando siamo arrivati a Bologna, ci hanno preso per marito e moglie....
- Ah, questa è graziosa tanto, - esclamò Mario, con un riso cadaverico.