Gandolin
Ciarle e macchiette
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Cocò.

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Cocò.

 

La duchessa non voleva confessare che moriva di noia e invece andava dicendo che aveva i suoi nervi, che so io!... l'emicrania.

Il duca, almeno, sdraiato in un cantone, con un giornale che gli copriva la faccia, si sfogava schiettamente in lunghi sbadigli, socchiudendo gli occhi.

Per essere alla fine d'agosto, era una giornataccia impossibile, con rovescioni di pioggia che facevan paura, accompagnati da un ventaccio uggioso, che non permetteva neppure di tener le finestre aperte.

Andare allo stabilimento dei bagni, manco a pensarci. Già: non c'era un'anima!

Inoltre, nulla da leggere, tranne due o tre giornali insipidi e infarciti di quei fatti diversi che poi son sempre gli stessi.

Oh, i nervi della duchessa!

Il duca non represse abbastanza un nuovo sbadiglio, che sonoramente echeggiò nel salone.

- Eh, finiscila un po'! - gridò la duchessa infastidita: - non sai far altro!

- E che ho da fare? - gemette il duca, dal fondo della sua poltrona.

- Potresti ben dire quattro parole, mi pare!

- Su che? non saprei.

- Su che, su che! si parla, ecco!

- Eh, non son mica il pappagallo della baronessa, io!

- Così tu lo fossi! è tanto carino!... Sa dire delle coserelle tanto graziose!

Nel suo impeto d'entusiasmo per il pappagallo, la duchessa appoggiò la mano sul campanello a scatto e comparve tosto il domestico.

- Giacomo, andate subito dalla baronessa Collis e pregatela di mandarmi, per un'oretta, il suo Cocò. Badate a portarlo con tutte le precauzioni possibili e presto: avete capito?

Giacomo s'inchinò e sparì, con la faccia non di chi abbia ricevuto un ordine, ma di un credente colpito dalla scomunica. Che idea! fargli fare un'ora di strada, nel fango, con quel tempaccio, per portare un pappagallo.

La baronessa oppose qualche difficoltà, ma Giacomo fu insistentissimo, per paura che la padrona lo avesse da rimandare una seconda volta: tanto che il povero Cocò fu messo nella gabbia, che venne coperta con un panno qualunque e legata con uno spago, attorno attorno.

- Ve lo raccomando! - gridò la baronessa con accento materno.

- Non dubiti!

Appena uscito dal villino, Giacomo sbatacchiò rabbiosamente la gabbia, come faceva Renzo co' suoi capponi; al punto che l'infelice Cocò, sparnazzando le ali, suppose fosse il finimondo e rimase in guardia e sopratutto in ascolto.

Tutte le volte che scivolava in una fangaia e metteva il piede entro le pozze d'acqua, Giacomo bestemmiava come un turco e mandava un sacco d'accidenti all'illustrissima signora duchessa, che per un uccellaccio d'inferno faceva infradiciare un cristiano a quel modo con un tempo simile.

Cocò ascoltava.

Giunto presso il palazzo, Giacomo fece sforzi enormi per cambiare la sua fisonomia scombuiata con quella impassibile e corretta di un servo fedele; si pulì ben bene gli stivali sullo stuoino, indi entrò solennemente nel salone dicendo:

- Signora duchessa, ecco il pappagallo.

Tosto ella fece uscire Cocò dalla sua prigione, accogliendolo con un mondo di carezze e di moinerie, che il pennuto accettava con un grave dimenare della sua testa intelligente e bonaria.

- Come sta la tua padrona, Cocò bello? dimmi qualche cosa, Cocò bello!

E Cocò dopo un momento di aspettativa e di silenzio:

- Son diventato peggio d'una pozzanghera, e tutto per quella vecchia strega di duchessa! accid....

- Ma che dici, Cocò?

E Cocò dopo una nuova pausa:

- Che il diavolo si porti via la duchessa col suo grugno tinto! Guarda mo' se c'è umanità a mandare un povero servitore per un pappagallo. E che ne fa del pappagallo quella brutta birbona? Non le basta quel cornutaccio di suo marito?

La duchessa, verdognola, sonando il campanello:

- Portate via Cocò!

 

 

 

 


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