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Ieri, tutta Roma pareva immersa in un doloroso stupore, a cagione d'una tragedia che ha privato l'elegante società di uno tra i più brillanti giovanotti dell'aristocrazia.
Per fortuna, la tragedia è successa ieri; se, Dio liberi, fosse accaduta, per colmo di iettatura, domani, la città avrebbe dovuto immergersi contemporaneamente nella gioia, per lo Statuto, e nel dolore.
Non dirò i nomi veri, perchè il dramma è dei più comuni, ma i protagonisti sono parenti prossimi dell'almanacco di Gotha; anzi l'eroina, quand'era ancora ragazza, amoreggiò a lungo con un principe ereditario e forse l'avrebbe anche sposato, se all'ultim'ora non si fosse scoperto che egli era un commesso viaggiatore in articoli di guttaperca.
Da un mese, i bottegai di via del Babuino, nei momenti d'ozio (c'è un negoziante di pietre dure la cui vita è tutta composta di momenti d'ozio) notarono che un giovanotto assai conosciuto, che io chiamerò il duchino di Zagarolo, passeggiava su e giù, per un tratto di marciapiede, nell'atteggiamento del pizzardone in servizio, levando ogni tanto sguardi teneri a una loggetta, su cui stava affacciata una creatura deliziosa, un profilo incantevole, una silfide, una personcina ideale, la contessa Tomacelli.
La
contessa sarebbe una donna perfetta, se fosse riescita a farsi estirpare il
marito, conte Ignazio Tomacelli, uomo brutale che, non avendo più nulla da
perdere, perde le notti al banco del faraone, giocando sempre sulla parola, per
cui, di parola in parola, ha un debito che ascende a parecchi vocabolari.
Giovedì alle quattro, nel tornare al palazzo, il conte Tomacelli vide il duchino di Zagarolo, che passeggiava sotto le finestre, tenendo una rosa in mano, nella posa classica d'una Primavera di gesso.
Il conte Tomacelli, il quale è un uomo che non ischerza, entrò in casa e disse alla contessa:
- Vogliamo andare a far due passi?
La
contessa non capì che il marito voleva portarla a passeggiare sull'orlo
dell'abisso e accettò, nella dolce speranza di vedersi, un po' più da vicino,
col giovane duca di Zagarolo. Ella indossò in furia un'elegantissima veste di foulard delle Indie,
mentre il marito pareva indiano quanto il foulard; si mise in
testa un cappellino di Parigi ch'era un amore, una galanteria; e uscì per via
del Babuino, a braccetto del conte.
L'imprudente duchino di Zagarolo li seguì a breve distanza, odorando la rosa e baciandola ogni tanto, con certe occhiate languidissime, che parevano dire:
- Questa rosa è il più bel marciapiede della mia vita!
Il marito, intanto, mormorava fra sè:
- La rosa l'è un bel fiore, come la gioventù; passa, bastona e muore.... e non ritorna più!
La coppia infelice, pedinata dal duchino, arrivò a piazza del Popolo e salì al Pincio. Arrivati dinanzi al busto di Venturoli (ah! finalmente ho saputo ch'egli è un.... un coso.... come si dice?) il conte, con perfido e soave accento, disse alla contessa:
- Ti lascio un momento sola: vado a vedere l'orologio ad acqua.
Ma
l'acqua non era che un vile pretesto come l'orologio. Il conte si ritirò bensì
dietro una siepe, ma in atto vigilante, con un occhio alla moglie, un occhio al
duchino e un occhio nello spazio intermedio.
Il tranello riescì perfettamente. Il duchino si gettò ai piedi della contessa dicendole:
- Oh! darei la mia vita.... per avere la vostra!
Al domani, il marchese A. B.... e il cavaliere G. D...., rappresentanti del conte Tomacelli, decisero un duello a oltranza, insieme con l'onorevole E. F.... e il principe russo G. H...., padrini del duchino di Zagarolo.
Il combattimento doveva cessare soltanto quando i dottori, commendator I. K.... e cavaliere L. M.... avrebbero dichiarato impossibile continuare il combattimento.
Il marito e l'amante si trovarono di fronte armati, sui prati dell'Acquacetosa.
Un po' in distanza, sopra un rialzo di terreno, stavano i signori A. B. C. D. E. F. G. H. I. K. L. M.
Al primo assalto, la testa del duchino fu divisa in due come una persica spaccarella: metà cadde sopra una spalla e metà sull'altra.
I medici, dopo lunga e matura discussione, dichiararono che sarebbe pericoloso continuare il combattimento.
Rientrato nel suo palazzo, il conte disse alla contessa:
- Vi ho da dare una notizia che ignorate: il duchino di Zagarolo.... ha perduto la testa per voi!
La contessa, sorridendo:
- È più d'un mese, che me n'ero accorta!
Questo mercato degli stracci, per quanto un po' degenerato, ancora è una delle scene più caratteristiche di Roma. Un tempo era il ghetto, quando ancora esisteva, che una volta la settimana, il mercoledì, rovesciava al sole, sulla piazza della Cancelleria, traendoli dai fondachi saturi di muffa e sudiciume, tutti i rifiuti, tutti gli avanzi, tutti i rimasugli della capitale cristiana. Un'alluvione strana di cenci e di miseria si spingeva fin contro il superbo palazzo del Bramante, ch'è la sintesi pura e maravigliosa del gusto estetico del Rinascimento: e da quei cumuli di straccerie, quasi impelagati danteschi, sporgevano il busto lercio, troppo intonato con la merce loro, i mercanti di tutte quelle sozzure pittoresche, con certi tipi astuti, insinuanti, con quelle impronte secolari della stirpe semitica, che ricordavano le acqueforti del Rembrandt.
Allora il mercato degli stracci non era frequentato che da due categorie: i poveri diavoli e gli antiquari. Il povero diavolo andava a comprarsi una camicia che l'antico proprietario non aveva creduto degna neppur delle funzioni di strofinacciolo di cucina, oppure scampoletti per toppe: l'antiquario, con un coraggio non comune, si sprofondava in quei cumuli di pulci e ragnateli, per cavarne qualche bel velluto stratagliato del Quattrocento, qualche cortinaggio di broccatello trapunto in oro, qualche prezioso arazzo fiammingo. Poichè c'è stato, non son neppure trent'anni, tale periodo d'ignoranza, di vera barbarie, che, nelle case più signorili, un vecchio arazzo magari serviva di scendiletto, e un bel cuoio cordovano istoriato andava a foderare il tendone della loggetta.
In un palazzo gentilizio, una cameriera coltivava le sue piantine di basilico dentro una gran coppa di Urbino che fu venduta, non è molto, per dodicimila lire.
Allora, di buon mattino, era una processione di gentuccia che andava a depositare, sulla piazza della Cancelleria, tutti gli ingombri domestici: e tra un paiolo sfondato e un tegame incrinato, si dava il caso di veder arrivare un bel piatto di Gubbio a riflessi dorati, una brocca ispano-moresca dai sottili meandri purpurei, un codice miniato, un bronzo del Pollaiolo o anche un gruppetto di vecchia di Sassonia.
Ora, non c'è più quella sincerità di stracciaroli incoscienti. La malizia ha prodotto la degenerazione. Alle baracche dei ghettaroli autentici si sono sostituite quelle dei ghettaroli falsi. Il finto stracciarolo è invece un modesto, ma esperto trafficante d'antichità, che ha bottega all'Orso o al Babuino, e che, il mercoledì, sfodera nella baracca, tutti i meno pregevoli fondi di negozio e sopratutto le imitazioni, che nel gergo degli antiquagliari, si chiamano musica.
- È musica.
È detto tutto.
La
finzione è una trappola per il forastiero. L'indigeno conosce e tira via. In
aprile e maggio, è largo e proficuo il concorso dei merli esotici, la più parte
signore, inglesi e tedesche. A vederle, sono divertentissime. Girano e guardano
con avidità, quasi in procinto di scovare una statua di Prassitele per dieci
baiocchi. Appena s'accostano a una baracca, mettono subito la mano sopra le
cose brutte o false. Hanno una passione speciale per quelle vecchie lampade a
olio, che non facevan luce, ma che in compenso mandavano un delizioso puzzo di
moccolaia. E son capaci di pagarle una somma, mentre è roba che non val neppure
il prezzo del metallo. La forma del contratto è ingenua. La forastiera sta
sulle sue, perchè l'hanno avvisata.
- Non si confonda: offra sempre la metà.
L'uomo della baracca conosce questo debole e domanda il triplo. Ecco, la signora ha preso il famoso lume a olio che, trent'anni fa, quand'era nuovo, era brutto come adesso, lo guarda sopra e sotto, quasi volesse scoprire la firma dell'autore, poi chiede invariabilmente:
- Si figuri! è una lampada cristiana.
- Quanto costare?
- Per lei, non lo posso dare a meno di trenta lire.
La signora, con sorriso ironico, ma arrossendo della propria audacia:
- Creda, mi costa di più alla fabbrica.
La signora, malizia suprema, finge allontanarsi, ripetendo:
Il mercante l'afferra per la veste:
- Gliela do perchè è lei, e voglio fare la prima vendita della giornata, ma ci rimetto!
La signora sborsa e va via contenta, più che se avesse comprato una coppa di Benvenuto Cellini.
L'indigeno
passa indifferente davanti a queste baracche e va invece a frugacchiare in
quelle due o tre d'antico stampo, tra cui primeggia quella dell'ottimo Jandolo.
È un vecchietto arzillo e bonario, che ha una botteguccia presso il Foro
Traiano. È così piena degli oggetti più fantastici che, a entrare, c'è quasi
pericolo di vita. Prendete un libraccio e vi casca addosso un'alabarda;
staccate un quadro e v'arriva sulle spalle un busto di Caracalla.
La bancarella di Jandolo rispecchia ancora le vecchie tradizioni: vi si trova di tutto: una miniatura accanto a un bottone d'osso nero, una lama di Toledo sopra una sega di pompiere, una pergamena alluminata presso un mazzo di tarocchi, un niello fiorentino e una posata di stagno, una gemma incisa e una pallina della tombola.
I suoi prezzi sono cervellotici, ma se ne rimette al compratore, purchè sia un cliente. Gli si chiede il prezzo d'un oggetto, e lui è capace di rispondere:
Poco
più lontano, c'è una piazzetta riservata ai libri vecchi. Sopratutto è
frequentata dai preti, essendovi abbondanza spaventosa d'opere teologiche. C'è
pure gran concorso di studenti, ma non si tratta di bouquinistes. Ci vanno per
economia, sopratutto alla ricerca di traduzioni bell'e fatte dal latino o dal
greco, o anche di qualche cattivo romanzo. Poi si vedono due o tre librai
grossi e dieci o dodici amatori, che cercano le edizioni rare, o sperano
comprare il Poliphilo d'Aldo Manuzio
per quindici soldi.
Qua e là,
s'incontrano pure tipi singolari di stracciarole autentiche, le
quali mettono in mostra certi capi di vestiario che vi consigliano,
istintivamente, di rimanere a rispettosa distanza.
Pure, con due o tre lire, c'è modo d'acquistare un abito di stoffe molto varie, ma che, col tempo, la polvere e la miseria, è diventato un tout-de-même. Villici e manuali guardano con cupidigia quei panni indefinibili e vale la pena di assistere alla scenetta, quando si decidono a provarne qualcuno. La donna li veste con rapidità, li sbalordisce, a furia di cicalecci, tira da una parte, alza il bavero, rimbocca le maniche, e quando un nano è seppellito nel palamidone d'un gigante, gli dice, senza batter ciglio:
- È proprio fatto a tuo dosso: ti va come un guanto.
I prezzi, poi, son fuori del credibile. Ho visto un muratore contrattare un bel paio di calzoni di fustagno, tutti pieni di frittelle e con una gran pezza dietro d'altro colore.
- E quanti ne vuoi?
- Son nuovi, sai! te li lascio per diciotto soldi!
La donna, con l'occhiata del perito:
- Allora.... diciassette!
Un'ultima
categoria è quella degli ambulanti che vanno attorno con uno o due oggetti e
soffrono stoicamente le persecuzioni delle guardie municipali. Questi zingari
non hanno specialità: ora portano orologi sconquassati, ora scarpe vecchie e
cappelli acciaccati: certe volte hanno ferracci di mestiere, certe altre degli
strumenti idroterapici: ora offrono un ombrello, ora un quadro. S'intende, che
il quadro è sempre d'autore. Per molti anni
l'autore preferito fu il Guido Reni. Si aggiungeva, anzi:
- È un pagadebiti.
Perchè nel popolo c'è la leggenda che il Guido avesse l'abitudine d'improvvisare un quadro al giorno, per pagare i suoi debiti.
L'altro ieri vidi uno di questi ambulanti, che portava gravemente una sacra, ma orrenda imagine, su cui aveva appiccicato questo cartellino:
Guercino da Cento.
- Dà retta a me: quello è un Guercino.... da cinque!