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PROFILI LETTERARI FRANCESCO DE SANCTIS | «» |
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I giornali nostri, così prodighi e così poveri di aggetivi, sogliono far precedere il suo nome dall'illustre e non c'è caso che lo scordino nella penna. I suoi scolari di un tempo, che sempre ad un modo lo amano, gli danno sempre del professore e lo chiamano il professore come titolo che gli tocchi di diritto, ed ai giovani suol rispondere con un sorriso, con una stretta di mano, con un cenno amichevole del capo, con tutto l'affetto che può contenere il cuore di una fanciulla ingenua ed affettuosa: il suo cuore.
Eppure il vero è ch'egli non è professore e non è illustre: è un brav'uomo. Qui in Napoli lo si conosce troppo da vicino, e ci si fa vincere da quella curiosa legge di ottica morale, che avvicinando rimpicciolisce. Dunque è assai meno illustre di quanto dovrebbe essere, è meno illustre qui che fuori.
Lo sa, lo dice, non se ne duole. Sume superbiam quaesitam meritis. Ma la superbia sua non sarebbe mai tanto grande da potere aggiungere l'altezza dei meriti, e ad ogni modo non è veramente superbia, ma quasi compiacenza infantile, vanità muliebre tenera del solletico, desiderio innocente di ammirazione e di lode. Non offende nè ristucca, tanto è schietta ed ingenua; tutt'al più fa sorridere, facendo vedere questa enormezza che un professore, un deputato al Parlamento, ministro più volte, non sappia infingersi, non possieda l'arte di tener salda sulla faccia la maschera della falsa modestia, e si dia a conoscere alla prima facendosi leggere nell'anima come in un libro aperto. «Illustrai la mia patria con l'insegnamento, e cacciato in esilio, la illustrai con gli scritti, che forse non morranno; e forse un giorno i vostri posteri alzeranno statue a colui, al quale voi contendete i voti». Dice questo egli stesso in un suo discorso agli elettori di Lacedonia, lo dice senza peritarsi, senza giri di frase, con la massima buona fede, come se parlasse di un altro. S'inginocchia egli pel primo innanzi al proprio ingegno, e si figura, distratto com'è, di adorare un altro.
Chi lo conosce da vicino non può non amarlo; e questa qui non è una frase delle solite, non è la lode vuota e comune delle necrologie. Ha una potenza grande di attrazione, non gli si resiste, tanto lo si trova buono, alla mano, originale, primitivo, niente professore nè per gravità cattedratica né per burbanza. Nemici non ne ha e non ne ha avuti mai. È profeta in patria, e in questa patria, dove il Bonghi, lo Spaventa sono mal visti e non hanno che scarso seguito. Come odiarlo e perchè? come desiderargli male o fargliene, a lui che non fa male ad alcuno, che non ha ire, nè asprezze di carattere, nè serba rancori, nè s'è mai tanto cacciato nella politica da far tacere ogni altro affetto, da impegolarvisi dentro con la mente e con l'anima?
Veste dimesso e trascurato. Porta calzoni troppo corti, come il Peruzzi; una cravatta stretta in nodo più che legata in fiocco, un cappello cilindrico di foggia disusata, che ha già varcato di buon tratto «il mezzo del cammin» della sua vita e che gli sta in capo perchè quello è il suo posto, non perchè egli con le mani proprie ve l'abbia messo o sappia di avervelo messo. Porta occhiali. Ha capelli grigi e folti, sopracciglia anche grigie e un po' aggrondate. Gli esce sempre dai peli grigi dei baffi un pezzo di sigaro spento ch'egli riaccende a tutti i momenti. Cammina diritto sulla persona, saluta con la mano, non ha flessibilità di schiena per inchinarsi, si volta tutto d'un pezzo. È astratto, sognatore, rèveur, come a lui piace dire, poco discorsivo. «Mi chiamano distratto, - egli scrive. - La verità è che siccome per me l'importante è spesso quello che medito e non quello che dicono, tutto quel vento di parole che mi soffia all'orecchio, non giunge alla mente, non può distrarmi». E così, senza avvedersene, dimostra appunto di essere quello che non vuol parere. Canticchia un suo motivo che è tutto suo ed è sempre il medesimo e che si ripete con l'insistenza monotona di un ritornello ostinato. Non lo sente, non vi vede, pensa ad altro, si raccoglie dietro i suoi occhiali, ragiona e discute con un altro sè stesso che gli sta dirimpetto e che gli risponde, lo rintuzza, gli scalda il sangue.
Queste distrazioni sono il lato spiccato del suo carattere. Se ne contano delle singolarissime. Una sera a Malta, passeggiando a braccetto del povero Marvasi, suo amicissimo, si lamentava di un gran freddo al piede sinistro che lo faceva andar zoppo. Avesse ad essere podagra? e voleva subito tornare a casa. «Torniamoci - gli disse allora ridendo il Marvasi - così ti metterai lo stivale che hai dimenticato». Egli era andato fuori con uno stivale ed una pantofola. Porta i due stivali della medesima forma, in modo da scambiarli indifferentemente dall'un piede all'altro: come potrebbe fermarsi un momento a distinguere il destro dal sinistro? A Torino, ministro di Cavour, si presentò al Re, il primo giorno dell'anno, con la spada a destra. Quest'altra l'ho veduta io. S'andava tutte le sere ad una bottega di caffè dove convenivano varii giocatori di scacchi, giuoco che egli predilige e conosce assai bene - a parte le distrazioni che lo costringono a volte a rimettere i pezzi di cinque o sei tratti. Io lo aspettava, era d'inverno, prendendo il mio vino caldo. Eccolo che arriva, gira intorno gli occhi, mi vede, si accosta, passa dalla parte del canapè di faccia a me. Poi si leva il soprabito, lo sospende ad un attaccapanni, si mette a sedere in maniche di camicia. La gente guarda e stupisce. Io non ho con lui grande dimestichezza, vorrei parlare e non oso. S'incomincia la partita. Dopo un momento egli accusa un senso di freddo alle braccia. Mi fo lecito richiamare la sua attenzione su quella intempestiva scamiciatura. Egli si tocca, si guarda, mette un oh diavolo! che è la sua esclamazione abituale, spicca il soprabito dal piolo, se lo infila così placidamente come se stesse tutto solo in camera sua. Da una delle tasche una lettera cade per terra. La raccatto, gliela porgo. Egli la guarda e la esamina diligentemente; la volta di sopra e di sotto, si maraviglia di vederla chiusa. Chi sarà che mi scrive? Guarda al timbro postale. Oh oh, è del 18 Dicembre! (s'era alla metà di Gennaio). S'accomodi, professore, dico io, legga pure, non si riguardi. Non importa, la leggerà a casa a tutto suo comodo, ha aspettato tanto, potrà aspettare dell'altro. E se si tratta di cosa urgente?.... Si rimette a giocare e canticchia il suo motivo favorito.
Un'altra sera eravamo in parecchi a far conversazione, quando capitò fra noi il buono e taciturno Toro, l'artista pittore, l'autore del Nifo. Si conoscevano col De Sanctis. Questi credette suo debito fare le presentazioni di uso. Disse a noi: «Vi presento un egregio artista». Disse a lui: «Vi presento questi valentuomini». Aveva dimenticato i nomi di tutti noi.
Sulle prime, quando lo si ha poco in pratica, non si sospetta che uomo egli sia. Parla poco, a sbalzi, scucito, nè dice grandi cose. È questo il grand'uomo? Ci si sente quasi lieti, per quel lievito di malignità che ci sta in fondo all'anima, di non vederlo tanto più alto di noi, quanto la fama ci aveva fatto credere. Non s'ha da pigliare un torcicollo per guardare in su; basta levarsi in punta di piedi per giungergli alla spalla. Poi si rileva di botto quando ve lo pensate meno, quando già cominciate a pigliare animo, anzi ardire ed impertinenza. Un lampo vi scopre tutta l'immensità dell'orizzonte, e voi tornate a farvi piccino ed a sentirvi voi.
Di lui diè una curiosa definizione quel prontissimo ed arguto ingegno di Marvasi. Stavano a Torino, esiliati tutti e due, e il giovine avvocato, che non sospettava allora dover un giorno pigliar la parola come pubblico accusatore dell'ammiraglio della flotta italiana, aveva promesso alla contessa O.... di farle conoscere il De Sanctis, già noto come critico di gran valore per le sue pubbliche letture sulla Divina Commedia. Glielo avrebbe presentato la sera stessa. Grande aspettazione in casa della contessa, molta gente, molte signore. Arriva il De Sanctis, saluta la padrona di casa, non riesce a fare un inchino, va a sedere, tace. Tutti tacciono, aspettando da lui di udire cose maravigliose; lo guardano, stupiscono di quel silenzio. Il Marvasi è sulle spine, gli pare che l'amico faccia fare a lui una brutta figura. Ha presentato un ceppo, un sasso, una comparsa di grand'uomo. Dice alla padrona di casa «Mettetelo sull'argomento della letteratura, parlategli di Shakespeare, dite, per esempio, che siete stata ieri sera al Carignano alla rappresentazione dell'Amleto». «Ma se hanno dato La Signora dalle camelie invece?». «Non importa, fa lo stesso».
La contessa si volge al De Sanctis, recita la sua parte. «Amleto?» esclama il De Sanctis come riscosso dal sonno. E qui comincia a ragionare di Shakespeare, della letteratura inglese, della tedesca, dell'Oreste danese, dell'elemento ideale calato nel reale, dei suoi mondi, di cento diavolerie; si scalda, si alza, alza la voce, versa un diluvio di parole, dice cose mirabili, pensieri vivi, originali, fosforescenti, si figura d'insegnare dalla cattedra. Gli fanno circolo intorno, gli si stringono addosso; pendono dalle sue labbra, sono ammaliati tutti, uomini, donne, ragazze, da quella facondia inesauribile ed infaticabile, da quegli sprazzi di luce vivissima, da quella trasformazione improvvisa. Scoppiano in ultimo applausi frenetici. E il Marvasi corre a stringergli la mano, ed esclama tutto commosso e con un residuo della prima impazienza: «Che talento che ha questa bestia!».
Si fa pigliare di tratto in tratto da velleità politiche; ma sono passeggere e non lasciano traccia. Fantasticava tempo fa di mettersi a capo d'un partito onesto - di sinistra, s'intende, ma rimodernata secondo certi suoi concetti, e tale da abbracciare anche qualche dissidente di destra: fondò questo novello partito, scrivendo degli articoli in un giornale della capitale. Erano splendide visioni platoniche. Nacquero poi, come oggi si vede, molte sinistre, ma non quella. Non è uomo politico, nè tale sarà mai. È troppo onesto. Prima o poi viene in uggia al partito di cui si fa sostenitore, si trova isolato e torna con più foga agli studi suoi. Artista è certamente, benchè nella critica si sia esercitato sempre e si eserciti.
Qui è il suo campo, vasto, senza confini; più che il suo campo si dovrebbe dire il suo regno. Ha creato una scuola della quale vediamo i frutti in molti giovani egregi che non si sono lasciati trascinare, come tanti altri, all'esagerazione, per troppa voglia di farsi pedissequi del maestro. Sviscera i suoi autori fino a strappar loro letteralmente le viscere. Qui, credo, sta il suo difetto: nella soverchia sottigliezza, nel voler trovare il pelo nell'uovo. Trova il pelo, ma per far questo rompe l'uovo e non sempre gli vien fatto di ricomporlo. Incomincia con singolare acume e pazienza a ricostruire l'uomo e lo scrittore; ne cerca i particolari della vita; ne sfoglia pagina per pagina tutti gli scritti; fruga nelle più riposte pieghe dell'anima del morto, lo fa muovere e parlare, gli spira un secondo soffio di vita. Qualche volta questo soffio è micidiale e riammazza un cadavere dopo averlo galvanizzato e risuscitato qualche altra compie il miracolo della vera resurrezione. Leopardi è un esempio del primo caso. Petrarca del secondo.
Negli studi egli ha portato una rivoluzione, ha sparso la luce dov'erano le tenebre. Prima di lui la critica era gretta, pettegola, pedante, o piuttosto non era critica; i grammatici tenevano il campo. Si studiava la forma, si lavorava stupendamente d'imitazione, non si sentiva il bisogno di pensare con idee cavate dalla testa propria, la quale poteva, senza guastare, esser vuota: si scrivevano pagine splendide che, non dicevano nulla. Esempio il Puoti, dalla cui scuola nondimeno - mirabile a dirsi! - è appunto venuto fuori il De Sanctis e tutto il rinnovellamento degli studi nel napoletano. Egli ha portato lo studio del contenuto, cercando determinare la personalità dei soggetti criticati; si è fermato più sull'idea che sulla forma, e più che sull'una e sull'altra, ha cercato di cogliere il punto preciso nel quale esse incontransi e si saldano insieme. Ha levato la critica a dignità di scienza e quel che è più, quel che di lui è caratteristico, ha fatto vedere che anche il critico deve avere un'anima e può e deve essere artista.
Ha pubblicato i tre volumi di Saggi critici, che specialmente hanno fatto la sua fama; una storia della letteratura, molti opuscoli, moltissimi anzi innumerevoli articoli. Ha scritto, su pei giornali, di critica e di politica. Ha una forma viva, spigliata, colorita, qualche volta vaporosa. Una volta gli diedi dello scorretto. Non se n'ebbe a male, e mi ricordò in un suo bigliettino che nella scuola del Puoti lo chiamavano per antonomasia il grammatico. Scolpisce più che non descriva. Si rivela nelle parole e nelle frasi quell'uomo che è con tutta la schiettezza e l'ingenuità sue. Un ritratto di lui lo abbiamo in quel suo Viaggio elettorale, che è un capolavoro di grazia, di stile, di argute osservazioni sugli uomini e sulle cose, e che si legge con tanto diletto.
Nelle relazioni private è affettuoso, aperto, entra subito in dimestichezza e passa dal lei al tu senza transizione. È galantuomo fino allo scrupolo, non sa che si possa offendere le leggi, non che di altro, della delicatezza, perchè come ha forte l'ingegno così ha una gentilezza d'animo virginea. Ama la moglie d'un amore giovane e non si stanca di farne le lodi, e la chiama la mia Marietta così nel discorso familiare come quando gli accade di scriverne.
Il De Sanetis è nato in Morra (non in Marra, come disse la signora Rattazzi) il 1815, di Alessandro ed Agnese Manzi. Esulò giovanissimo. Giunto da poco a Torino, rifiutò sdegnosamente il sussidio e volle vivere del proprio lavoro. Da Domenico Berti ottenne un posticino in un Istituto; diè lezioni private; fece le sue letture su Dante che tanto gli guadagnarono l'animo dei Torinesi. Fu poi professore al Collegio militare, professore al Politecnico di Zurigo, direttore dell'Istruzione pubblica a Napoli sotto Garibaldi, governatore della provincia di Avellino, professore universitario, deputato di Lacedonia, consigliere comunale, ministro dell'Istruzione pubblica. Uscito dal ministero in una delle ultime ricomposizioni, egli era tornato come ai tempi dell'esilio; la Corte dei conti gli aveva liquidato non l'intero stipendio, ma solo dugento quindici lire mensuali. Dovea lavorare per vivere: glorioso e splendido risultamento di tante fatiche, di tanti servigi resi; di tutta una vita dedicata al bene del suo paese. Quella pensione, quelle dugento quindici lire lo cingevano come di un'aureola. Il paese non ne arrossiva, perchè ha troppe cose sulla coscienza. Il paese si sfoga nei suoi giornali a lacerare la fama dei suoi uomini migliori, di quelli che l'hanno amato e lo amano veramente, li sfrutta, li paga, si crede disobbligato. Poi da capo, fu ministro ed ora, tornato alla vita privata, fastidito della pubblica, afflitto da un mal d'occhi che gli rende faticoso il lavoro, vive di grate memorie, di intimi affetti, di quiete. A molti è toccata, a molti altri toccherà ancora la stessa sorte toccata al De Sanctis, senza il peso e il conforto del portafogli. Fortuna che a questo, ministro o professore, rimarrà sempre il conforto di pensare che quello lì non è il vero paese, di sprofondarsi nei suoi studi, nelle sue meditazioni, nei suoi sogni, nelle sue giovani illusioni. Sorriderà ancora di compiacenza udendosi chiamare l'illustre De Sanctis, ma una voce segreta lo farà giustamente orgoglioso dicendogli che egli è soltanto Francesco De Sanctis, senza bisogno di aggettivi.
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