Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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PROFILI LETTERARI

RUGGERO BONGHI

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RUGGERO BONGHI

Mi duole assai pel mio amor proprio di pittore, che questo dei ritratti, con tutto lo studio che vi ho messo nello scegliere i colori più sopraffini sulla tavolozza, nel tirar corretto le linee, nel lumeggiarlo con arte, nel farlo il più vistoso che per me si poteva, non piacerà, come non piace l'originale: dico non piace, per significare quel senso indefinibile di antipatia, quasi di repulsione, che egli desta in quanti non lo avvicinano e che qui a Napoli, sua patria, è naturalmente più generale. Un'altra spiegazione richiede questo avverbio che è venuto da a mettersi sotto la penna; non solo esso accenna all'antico e sempre vero nemo propheta, ma anche a questo altro fatto, che qui, benchè si conti una schiera elettissima di uomini insigni per ingegno e per cultura ed un'altra di giovani studiosi e promettenti, il livello intellettuale è assai basso; e si soffre dunque a malincuore una supremazia che si faccia sentir troppo ed abbia aria di volersi imporre. A questo sentimento gretto, che nasce dal connubio incestuoso della mediocrità con l'invidia (appartengono alla stessa famiglia), si aggiunge quella nervosità tutta nostra meridionale, che ci rende così mutevoli negli affetti, che intacca la saldezza dei caratteri, che ci fa soffrire di istintive e profonde simpatie ed antipatie e che ci rende così agevoli, così buoni, così originali, così amati ed ammirati e così insopportabili. Sarebbe affatto contrario cotesto sentimento di repulsione pel grand'uomo, ad onta di questa colpa dell'essere grande, se si potesse francamente avvicinarlo. Ma qui per l'appunto sta il difficile. Lo si crede superbo, scortese, poco espansivo, niente fatto per la conversazione; e pare così veramente, a vederlo con quel capo incassato fra le spalle, con quell'alzarsi della piccola persona, con quel cipiglio tra l'annoiato e il severo, con quel contegno sufficiente. Riconoscono tutti il suo valore, un grande ingegno, vasto, pronto, limpidissimo, aperto a tutte le idee, una erudizione svariata e profonda. Scrive, pochi lo leggono. Quando venne qui a fondare l'Unità Nazionale, si diceva dai partigiani: «la fortuna del giornale è fatta». C'era tutti giorni un articolo del Bonghi. Il giornale dette fondo in un anno alla bella somma di settantacinque mila lire. Il pubblico leggeva con più gusto e levava al cielo gli articoli degli scrittorelli spiccioli, contentandosi di riconoscere la superiorità di chi li dirigeva e torcendo gli occhi da quei grossi caratteri, i quali annunziavano la mano che aveva scritto l'articolo e che parevano gonfiarsi come l'autore e pesare con tutto il peso della sua persona in quelle colonne. Come i lettori, così una volta hanno fatto gli elettori: quelli non lo leggevano, questi non lo elessero; l'ambiente è troppo inferiore a lui, ed egli lo sa, lo dice, lo stampa, non se ne sdegna. Se ne sdegnano gli altri, ch'egli lo dica.

Non conosce riguardi, e se c'è in Italia uomo indipendente, questi è il Bonghi, – meno, s'intende, l'attaccamento al partito, il quale attaccamento, se qualche volta è dipendenza, è pur sempre amore, cioè una servilità nobile e volenterosa, che tempra il carattere, purifica l'animo ed accentra in un oggetto solo tutte le idee e tutti gli affetti. Degli uomini che amano a questo modo si suol dire, e si dice bene, che son tutti di un pezzo. Tale è il Bonghi; non si piega, non concede, non indietreggia. Di questa sua interezza ed indipendenza si direbbe quasi ch'egli si ubbriachi: chiama le cose col nome loro, epperò sembra acre, scortese, violento, quando non è che veritiero. Lo hanno perfino tacciato di scarso amore pel suo paese. Non sa adulare, non ha lenocini di scrittore.

E nondimeno sono pochi oggi in Italia che conoscano così addentro come lui l'arte dello scrivere. Basterebbe leggere per questo quelle sue stupende lettere intorno alla scarsa popolarità della letteratura italiana in Italia, i suoi Ritratti contemporanei, i suoi studi sul Congresso di Berlino, e poi le sue versioni da Aristotile e da Platone e poi i suoi infiniti articoli politici e letterari. C'è nello stile la sua impronta, eppure si adatta quello stile ai vari argomenti che prende a trattare, come un vestito cedevole e attillato ad un corpo robusto e ben fatto. Ora è grave e solenne, col periodo largo e numeroso ora breve, sobrio, tagliente, vivace, tutto francese nell'andatura svelta ed a sbalzi; ora pacato, ragionatore, sicuro nella coscienza della sua forza; ora arguto, colorito, sostituendo la puntura del frizzo alla efficacia del sillogismo; l'impertinenza alla logica, la botta diritta all'avvolgimento della frase. Si direbbe che nelle sue mani la penna abbia il luccichìo di una spada, il sibilo di uno scudiscio e tutte le blandizie di una carezza. La nota costante in tanta varietà di manifestazioni è sempre l'idea, il succo, la sostanza delle cose che dice; visto ch'egli dice delle cose, come oggi è assai raro che se ne dicano da coloro che scrivono. Spesso è così fitto e furioso l'affollarsi di queste cose, e per tanti aspetti gli si presenta la medesima idea, e con tanta abbondanza e fluidità di parole gli esce dal cervello, che lo scrittore non sa più serbar la misura, e vuol tutto dire ed a quel modo ch'egli vede; e così gl'incisi si ficcano a frotte o alla spicciolata nel periodo, le virgole si azzuffano e si rincorrono, le reticenze, le ipotesi, le digressioni, le contraddizioni, i raffronti, fanno da ruote di arresto, e ne nasce una certa confusione che rende oscuro il periodo e faticosa la lettura. Ma questo non avviene quando si tratti di attaccare o di rispondere ad un attacco; poichè allora la concitazione dell'animo nerbo e concisione alle frasi; epperò egli è il più destro, il più terribile polemista che vanti il giornalismo italiano.

Mi è accaduto più volte, quando egli dirigeva l'Unità Nazionale, di vederlo a scrivere. Ha la meditazione pronta come il pensiero; epperò scrive come se parlasse, rapido, con caratteri smozzicati, quasi stenograficamente. Prometteva un pezzo da cinque lire a quello fra i tipografi che riuscisse a comporre senza errori un solo articolo: impresa pressochè impossibile. Eppure qualche nostro bravo operaio cui aguzzava la vista il premio promesso, è riuscito più volte a guadagnarselo. Scrive in piedi, seduto, al caffè, in ferrovia, solo, fra la gente, dovunque e comunque; e così soltanto si può spiegare, con questa mirabile rapidità, che tante cose abbia scritto in soli trent'anni di vita letteraria, e tutte che hanno un valore proprio, reale, pensato, un valore di produzione lungamente elaborata.

Esordì nella repubblica delle lettere in età di venti anni nel 1857 con una traduzione del Filebo e con un Saggio sul Petrarca. Non abbandonò gli studi suoi prediletti, durante l'emigrazione: infierendo la reazione borbonica, egli ch'era mandato a Roma come addetto all'Ambasciata guidata da Pietro Leopardi, riparò in Toscana, poi a Torino. Si guadagnò l'amicizia di uomini eminenti, fra i quali il Rosmini. Nove anni appresso; quando già il suo nome era pronunciato con gran lode, dettò filosofia a Pavia, come l'anno appresso la dettò nell'Università di Napoli. Insegnò letteratura greca a Torino, letteratura latina a Firenze, storia antica a Milano ed a Roma. Nel 1860, venuto in Napoli, si trovò uno dei capi fra quelli che crearono il primo nucleo della parte moderata. Fu allora pubblicista infaticabile; scrisse il Nazionale che precorse l'Unità Nazionale, passò a dirigere La Stampa di Torino, poi La Perseveranza di Milano, scrivendo sempre le sue rassegne politiche, nella Nuova Antologia. Le cure politiche, le passioni di parte, lo distolsero alquanto dagli studi letterari, ai quali va oggi tornando con articoli di critica generale, con uno studio su Spartaco, con la versione platonica, con una Storia Romana in preparazione. Nel 1877 lasciò definitivamente l'insegnamento, si fece mettere al riposo e fu dichiarato emerito. Entrò più volte nel Consiglio superiore di Pubblica Istruzione, e diè prova di larghe vedute, di serietà di propositi, di attività infaticabile nell'aiutare e far prosperare gli studi.

Da deputato e da ministro ha serbato la medesima indipendenza per cui lo scrittore è notevole. Anzi, più che indipendenza è stata la sua una rigidezza tutta spartana. Per un certo rispetto non ha amici, non ha famiglia; vuol dire la verità senza riguardo, anche la verità occasionale e di poco conto; vuole che a tutti gli affetti passi avanti il dovere. Un giorno si recano a fargli visita il Pisanelli, il Nicotera, altri uomini politici. Egli fa loro buon viso, interroga, discorre. Per riceverli ha dovuto lasciare di scrivere; e la conversazione minaccia ora di andare in lungo. S'impazienta, freme, si distrae, non risponde più a tuono. Gli domanda il Pisanelli con la sua voce cavernosa «Forse t'incomodiamo?». «Sì, risponde, ho da fare» e pulitamente li congeda. Un fatto più notevole, più caratteristico, è quest'altro. Un suo stretto parente, ricco proprietario, vien condannato a sborsare una somma rispettabile per non so che titolo di multa in quistione di proprietà. Si rivolge tutto fiducioso al parente ministro, gli espone il fatto, chiede il suo appoggio. Il ministro crolla il capo, arriccia il naso, mette avanti delle difficoltà e conchiude con un rifiuto reciso. «Non è forse giusto che tu paghi questa multa? Sei ricco, pagala. Lo Stato innanzi tutto, e tutti eguali davanti allo Stato. Addio». E lo lascia pieno di scontento e di maraviglia. Il parente ricco narra il fatto alla gente e non sa egli stesso se debba esserne più sorpreso o compiaciuto. Un amico gli dice: «Ne hai parlato all'on. Tale?» (un onorevole di sinistra, molto noto a Napoli per bontà di cuore, autorità di nome e volume di persona, e che, per ragioni dello stesso partito cui apparteneva, era in ottime relazioni co' suoi avversari politici). «No, figurati; se per fino il ministro non ha potuto far nulla!». «Ebbene, non importa; tenta; parlagli». Il parente ricco si lascia muovere, va dall'onorevole, gli espone il suo caso. «Aspettate » dice l'onorevole. Scrive in fretta due righe sopra un foglio, chiama un suo fattorino, manda al telegrafo. Di a due ore arriva la risposta. La multa era assolta. Il ministro di Finanza di destra non avea saputo resistere alle urgenti preghiere dell'onorevole di sinistra.

Sono due uomini in lui ben distinti: l'uomo pubblico e l'uomo privato. Ed è naturale che come da una parte lo accusano i malevoli di poco amore al suo paese, così dall'altra lo si creda sordo agli affetti di famiglia. Non si sta in alto per nulla. Bisognerebbe sorprenderlo nel segreto delle pareti domestiche per coglierne le contraddizioni. L'uomo severo, accigliato, superbo, inflessibile, dalla parola aspra e pungente, si fa dolce, sorride, scherza, rinasce ad altra vita. Ama immensamente i bambini e prende parte alle loro piccole gioie, ai loro spassi, ai loro nonnulla, ridiventando bambino lui stesso. Più di una volta fu sorpreso, lui l'uomo politico, l'uomo così appassionato per ire di parte, il futuro ministro, il polemista arrabbiato, che correva tutto intorno alla camera guidando per le lunghe trecce bionde una sua adorata e bellissima figliuola. Non si vergogna di esser colto in questi momenti di abbandono; è felice di lasciarsi andare a quell'affetto calmo e puro della famiglia, di rinfrancarsi lo spirito nell'intimità, di tenersi ben caro questo suo piccolo mondo, il solo che possa offrire delle consolazioni e dei compensi alle amarezze dell'altro mondo più grande, dove vive irrequieta e manesca la gran famiglia umana.

Un altro amore del Bonghi è l'amore allo studio. Delle sue ventiquattr'ore si direbbe che ne dia venticinque a leggere, a scrivere, a compulsare calepini. Si leva di buonissima ora tutte le mattine, si chiude nel suo scrittoio, lavora indefessamente, senza tradire alcuna stanchezza di persona o di mente, come nessuna stanchezza si tradisce nei suoi tanti e svariati scritti, com'egli stesso non s'è ancora stancato, e non si stancherà mai, di essere politicamente quel che è, il più smoderato fra i moderati italiani, di essere cioè un carattere, una intelligenza, un valore, un uomo.


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