Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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PROFILI LETTERARI

VITTORIO IMBRIANI

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VITTORIO IMBRIANI

Di alcuni scrittori si leggono tutti gli scritti e non si riesce poi a riconoscerne uno che non porti sotto tanto di firma in tutte lettere. Non hanno fisonomia, rassomigliano al primo venuto. Di altri basta una lettera, un biglietto scritto in fretta, per indovinare di colpo la mano che l'ha vergato. Qualche anno fa, un bel mattino, ricevo per la posta una lettera che diceva secco secco: «Signore, ho letto il vostro racconto, il quale mi piace assai». (Avevo pubblicato di fresco l'Amore sbendato). «Siate più studioso della forma, meno scorretto di quel che siete. Vi stringo la mano. - Pomigliano d'Arco, XXI, 3, MDCCCLXXVI. Vittorio Imbriani». Il nome era soverchio; aveva già letto vari suoi scritti, conoscevo lui di persona. L'improvviso, lo strano, il singolare, si trovano come carattere principale in tutti gli scritti di lui e qualche volta negli atti. Stampa un libro di cento pagine a cento esemplari, e sulla copertina vi si legge: Prezzo L. 20. Pubblica un articolo dove si fa a dimostrare e dimostra, per esempio, che Dante non è nato a Firenze; o che il sole tramonta in oriente, o che i Caldei parlavano come le ciane di Borgo S. Frediano. Demolisce in un altro libro Aleardi, Zanella, Maffei, Goethe. Voleva scrivere un romanzo, che poi non scrisse e forse scriverà, nel quale immaginava che certi navigatori fiorentini dei tempi di Dante sbattuti dalla tempesta sopra un'isola deserta ed ignota, vi si fossero stabiliti e moltiplicati fino ai giorni nostri, conservando intatto il tesoro della lingua. Per un caso – non so più quale – alcuni nostri italiani sbarcano nell'isola, o alcuni di questi isolani capitano in Italia. Parlano una lingua che nessuno più intende; i filologi ci studiano intorno, discutono, cercano radicali, si scagliano contro l'un l'altro trattati e monografie. Nel concetto fondamentale del romanzo ci si vede subito lo zampino del pedante. Un po' pedante è certamente, come sono tutti coloro che molto studiano e molte cose fanno e si ricordano. Con tutto questo, anch'egli qua e sdrucciola in qualche scorrezione, la quale con le migliori ragioni di questo mondo e con ogni sorta di autorità sarebbe pronto a provare correttissima. È erudito come una biblioteca di libri rari; ed ha dell'erudito tutta la pazienza fratesca, la passione rabbiosa, la memoria ferrea, la meticolosità fastidiosa, la boria. Ma ha questo di più, che gli eruditi generalmente non hanno, una fantasia fervida, un finissimo gusto artistico, una impetuosità di cuore da poeta.... non elzeviriano. Le quali preziose qualità sono poi saldate insieme da un carattere che si potrebbe chiamare Imbrianescopoichè tutti gli Imbriani, compreso il padre Paolo Emilio, una di quelle nobilissime figure della nostra storia letteraria e politica che ad una ed una se ne vanno, hanno questa impronta di famiglia – un carattere di fermezza, anzi di ostinazione, non meridionale. Questa ostinazione l'ha forse ereditata dal padre; come la gentilezza dell'animo gli deve essere stata inspirata dalla madre, Carlotta Poerio, donna di alto sentire e di coltissimo ingegno. L'educazione e l'ambiente respirato in gioventù completarono l'uomo. Fece i suoi studi a Zurigo e poi a Berlino; e fra i tedeschi, serbandosi italiano, fu tedeschissimo. A diciotto anni facea già maravigliar la gente per la sua erudizione, per la costanza allo studio, per la sua gravità ed irascibilità da dottore.

Ma, naturalmente, non appartenendo alla generazione che vien su adesso, aveva la gioventù dei suoi diciotto anni: e come a diciotto, l'ebbe poi a ventisei, e l'ha ancora oggi e l'avrà sempre. Fu soldato nella guerra del 1859; fu garibaldino in quella del 1866. A Bezzecca fu fatto prigioniero, dopo essersi battuto da leone – o piuttosto da Imbriani, cioè seriamente, italianamente, sfidando la morte. Un altro ImbrianiGiorgiodovea mostrare poi a Digione come si può morire per un'idea. Un altro – Matteo Renato – sarebbe disposto a morire domani, oggi, subito, per la sua Italia irredenta. Vittorio stesso, benchè ammogliato, benchè ridottosi a vivere nella sua piccola Pomigliano, correrebbe alla prima chiamata a battersi e a morire, così per l'Italia, come per la consorteria. Anche in questo porta l'impronta del suo carattere: è moderato, ma arrabbiato; e le sue polemiche le farebbe allo stesso modo con la penna, con lo schioppo, coi morsi, con le unghie, con tutte le armi.

Ogni suo scritto è una polemica; attacca sempre qualcheduno o qualche cosa o «in se medesmo si volge co' denti». Ma è singolare come di questo spirito battagliero si possa spogliare nei suoi studi sulla letteratura popolare. Raccoglie novelle, leggende, canzoni dalla bocca del popolo; le quali hanno sempre per lui la medesima importanza sia che le abbia raccolte a Firenze, sia che a Napoli o a Pomigliano. Poi di questa faticosa calma si riposa in una lotta a corpo a corpo con le più aspre difficoltà della metrica, e fuori un libretto di eccellenti poesie, che vanno avanti per tempo e forse per merito alle barbare del Carducci, e dove è cosi succosa la sostanza, cioè così vero e profondo il sentimento, così limpida e buona l'idea, da non far pensare allo strazio che fa degli orecchi l'azzuffarsi dei metri.

Come scrive così parla, così si muove e così veste. Si studia di parlar bene e di dir cose nuove ed originali: si scalda, attacca, fa la voce grossa, pare che si voglia mangiare il suo interlocutore; dopo di che gli si mette a braccetto, se lo tira dietro, seguita a polemizzare amichevolmente, parlandogli sulla faccia con incomoda prossimità, allungando i passi e facendosi sbattere davanti un nodoso e non pulito bastone che porta sospeso all'occhiello di un non pulito soprabito. Il cappello rassomiglia, in un certo senso, al soprabito e al bastone. Invece, per una curiosa contraddizione, ha gran cura della persona propria., come si vede dalla finissima e pulitissima biancheria, dalle mani e dal viso. Il quale viso, per dire la verità, tra la barba ispida, pei baffi irsuti, pei denti larghi, per gli occhiali, tra per l'espressione abitualmente burbera non è bello, ma è simpatico certamente. Così pure pensano e dicono le donne, alle quali gli uomini vistosi e aggraziati piacciono molto, ma piacciono poi anche gli altri, non essendosi ancora riuscito a sapere dopo tant'anni che è fatto il mondo, che cosa precisamente piaccia alle donne e di che s'innamorino quando s'innamorano.

Il fatto è che di lui poco o punto leggono le donne, un po' a cagione della spinosità dei suoi scritti, un po' della scarsa diffusione. Testè ha pubblicato un libro di preghiere femminili, che è, come al solito, una strampaleria, e sa di cinismo e di moralità accollacciata e non aggiunge novella fronda alla fama dell'autore. Fama volat, e di lui si sente dire e si ripete molto più di quanto si conosca. Non si sa, per esempio, che in materia di letteratura popolare, l'Imbriani ha fatto una ventina di preziosissime pubblicazioni; e che in materia di critica ha discusso se Brunetto Latini fu maestro di Dante, se la Gemma Donati fu buona moglie, in che anno fosse nato Dante, come la letteratura nostra sia deputata a riassumere tutte l'altre letterature, e in che modo la poesia popolare abbia dato all'Epica, alla Lirica, alla Drammatica, forma e contenuto. Non si sa di certe sue stranissime novelle, delle quali per la buona riputazione dell'autore è bene che non si sappia. Non si sa che per due mesi egli ha dettato nella nostra Università lezioni sull'Organismo poetico, dimostrando l'utilità della poesia popolare e l'influenza di questa sulla letteratura critica.

Non si sa che i nostri principali dialetti ei li conosce come conosce l'italiano. E non si sa finalmente quel che si crede di sapere, cioè che Vittorio Imbriani, dotato di uno spirito critico sottilissimo, non è stato, non è, e non sarà mai un critico: ma soltanto un ingegno bizzarro, una fantasia calda, un erudito profondo, un letterato di polso, un simpatico originale.


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