Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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PROFILI LETTERARI

IL DUCA DI MADDALONI

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IL DUCA DI MADDALONI

Non è certo che questo ritratto appena abbozzato del duca di Maddaloni sia del duca di Maddaloni e non di altri; potrebbe anche essere del duca dell'Albaneto o del principe di Colobrano o semplicemente del duca Proto; potrebbe oggi essere somigliante e domani no e tornar domani l'altro somigliantissimo; potrebbe non essere un ritratto, appunto perchè è un ritratto: se l'originale vi si riconosce, sarebbe capace nella sua originalità di trasformarsi subito anima e corpo tanto perchè il pittore ci rimetta dell'arte sua e ci faccia in pubblico una trista figura. È un originale a molte faccie, che ora ve ne mostra una, ora un'altra, ora due o tre in una volta, sicchè a sapere quale sia veramente la sua, a cogliere l'intimo carattere di tutte, è impresa quasi disperata, quando non si voglia ritrarle tutte in una volta mettendole in una sola cornice, e ritenere che questa molteplicità di faccie sia appunto l'unica faccia dell'originale che vi si muove davanti.

Il duca Proto è in effetto un originale. Si compiace della contraddizione ora con gli altri, ora con stesso, esagerando forse una certa sdegnosità di animo che sarebbe indipendenza se non fosse nervosità. Spirito irrequieto, poco saldo, ha sempre quell'opinione che gli altri non hanno, e come gli altri mutano così egli muta. Fu liberale quando il borbonismo era qui rigoglioso; fu anzi – strano a dirsi – uno dei capi del movimento napoletano nel 1846, epperò divise la prigione col marchese di Bella, con Francesco Trinchera, col Poerio, col d'Aiala, col duca di San Donato. Fu deputato al Parlamento napoletano poi ministro plenipotenziario a Roma per la Lega Italiana, e finalmente, esiliato. Sorta la libertà e moltiplicatisi ad un tratto martiri e liberali, egli, che era stato l'uno e l'altro, divenne autonomista, federalista, cattolico sfegatato, borbonico. Non gli consentiva la sua lealtà di rappresentare in Parlamento, dove gli elettori di Casoria lo avevano mandato nel 1860, una nazione che egli non sentiva, tanto più che vivendo tutti ormai di vita politica, bisognava ch'ei si ritraesse nella vita privata, ai suoi studi storici, archeologici, drammatici, grammaticali. Drammaturgo, non gli sta a cuore di ingraziarsi la platea, non è mai della opinione del pubblico. Epperò spesso il pubblico non è dell'opinione sua.

È nato a Napoli nell'anno 1825 di Donato Proto Pallavicino duca dell'Albaneto e di Clorinda Carafa Gallio Trivulzio principessa di Colobrano. Ebbe grandi maestri; Francesco Trinchera, Domenico Simeone Oliva, il marchese Puoti, il barone Galluppi. Ne è venuto fuori da questi maestri l'erudito, il linguista, il filosofo, l'artista, il pedante, un impasto strano. Ma tanto è in lui forte l'ingegno che l'erudizione e la pedanteria non lo affogano. – Ha scritto drammi, tragedie, commedie, novelle, critiche d'arte, storie, satire. Ha avuto trionfi e tonfi, senza che mai l'orgoglio l'abbia vinto o lo scoraggiamento. Conosce il proprio valore, si rispetta, non si scrolla nei suoi convincimenti artistici, anzi nelle sue ostinazioni.

Porta bene i suoi cinquantasei anni, benchè spesso si lamenti brontolando di certi suoi acciacchi. È alto e forte della persona, ha capelli poco folti e grigi; baffi, viso acceso, occhi vivissimi che spesso guardano di sopra o di sotto agli occhiali. Parla con fuoco e con vivacità mirabili, mangiandosi mezzo discorso e non curandosi di essere inteso. Ha sempre la risposta pronta ed arguta, l'epigramma pungente in punta di labbra, benchè gli epigrammi politici sparsi a larga mano nelle sue commedie non pungano veramente nessuno. I suoi modi ed il suo carattere di perfetto gentiluomo, la sua vasta cultura, il suo spirito mordace, le sue originalità lo rendono nelle brigate piacevolissimo e festeggiato.

È singolarissimo quando legge un suo lavoro, come fa sempre prima di darli alla scena, ed è veramente uno dei pochi che sappiano leggere. Il Legouvè, se gli capitasse di assistere ad una di queste sue letture, aggiungerebbe un capitolo al suo bel libro: L'art de la lecture, e certo ai mezzi sospiri e alle pause sapienti della Talma farebbe seguire le modulazioni e le variazioni del nostro autore. Sono modulazioni alte, roche, cupe, stridule, passaggi improvvisi, urli, singhiozzi, lamenti, disperazioni, ruggiti, brontolii, sghignazzamenti infernali, ululati, accompagnati da sudori e rossori, dal tremito di tutta la persona, dai capelli arruffati, dagli occhiali a sghembo, dal gesto disordinato e pittoresco. Si ferma per ripigliar fiato, si commenta, interroga, non aspetta la risposta, torna a leggere. È tutto pieno del suo soggetto, vi comunica la sua febbre, vi fa passare la voglia di ridere, mentre da ridere ci sarebbe tanto. Pare la Pitonessa nel punto dell'invasamento. Si alza, cammina concitato, torna a sedere, se ne va nella camera appresso piantando in asso il suo uditorio, e di ripete da a con voce sempre più bassa e più frettolosa l'ultimo verso che ha letto, e poi l'ultima frase, e poi l'ultima parola. La sua Agrippina in fine del prologo dice superbamente all'oracolo che la minaccia di morte per mano del figlio: «M'uccida e regni!». Ed egli grida: «M'uccida e regni!». Poi più piano: «M'uccida e regni!...» poi voltandovi le spalle se ne va borbottando: «M'uccida e regni!». E dalla camera contigua dove la sua gran furia lo ha trasportato vi sentite giungere all'orecchio una voce cavernosa e stizzosa che ripete in fretta: «E regni!... e regni!....» Uno di noi lo richiama: «Duca, quando vi piaccia, siamo qui per udire il seguito». Egli torna, si rimette a sedere tutto scalmanato, riapre lo scartafaccio; e con una sua rabbia concentrata, va ripetendo a stesso: «Sicuro, e regni! Ah, ah! m'uccida e regni.... regni.... regni....».

Questa medesima febbre lo coglie alla prima rappresentazione di un suo lavoro. Pare un giovinetto che faccia le sue prime prove. Va da una quinta all'altra senza posa, segue con gli occhi e con tutta la persona il gesto degli attori, tende l'orecchio, s'imbestia che non gli recitino la parte a dovere e come sta scritta, viene sulla scena agli applausi della platea, rosso in viso come il fuoco, sorridendo come un bambino, balbettando, incespicando nello strascico della prima attrice, ringraziando il pubblico, gli attori, stesso, completamente felice.

La critica non gli è stata mai troppo benevola: e se questo nostro fosse veramente, come si dice che sia, il paese dove fiorisce la camorra, il duca di Maddaloni non avrebbe oggi invidiato il rumore che si fa intorno al nome del Cossa. Invece i primi e più violenti attacchi ai suoi lavori incominciarono di qua, dove la critica drammatica è fatta con severità forse soverchia da chi non sa guardare a persona. Egli se ne sdegna alquanto, vi si ribella, scocca qualche suo dardo contro il critico impertinente. «Evviva il copiatore di Gibbonesclamava un giorno a proposito di una critica acre stampata sul suo Genesio. Ha i critici in poco conto, come tutti quelli che sanno per prova quanto l'arte sia difficile; ma da quell'uomo d'ingegno che è, sbolliti che siano i primi furori, accoglie un avvertimento, accetta la discussione, si mostra umile e pieghevolissimo.

Incominciò nel 1846, in età di ventun'anno, a scrivere pel teatro; ma stampò, non fece rappresentare il suo lavoro. Era una tragedia intitolata: La congiura dei Baroni, che in grazia dei meriti conseguiti appresso nell'arringo drammatico e del pentimento sincero, il signore Iddio gli avrà perdonato. Egli stesso si avvide di quel che era, e non tornò al teatro che dopo cinque anni nel 1851, facendo intanto stampare dal Lemonnier un racconto: La figlia dello Spagnoletto, che in quel tempo piacque molto, e che oggi nessuno più ricorda. Tornò al teatro con passione, quasi con furore, e pigliò d'assalto la posizione. Il successo della sua Gaspara Stampa, rappresentata sulle scene del teatro dei Fiorentini, fu clamoroso. Il giovane autore fu salutato poeta e n'ebbe versi e corone. Sicuro di , inebbriato da tanti applausi, giovanilmente presuntuoso, tentò impresa più ardua, anzi titanica addirittura, sfidando il principe della tragedia, Guglielmo Shakespeare, con un suo Coriolano, che era in effetto una libera imitazione del testo inglese. Il pubblico lo accolse con molto favore. Il Salvini e il Rossi glielo recitarono in Italia e fuori. A questo successero altre due tragedie ed una commedia storica: Giovanna I, Gioas Re e il Cavaliere Calabrese: tre nuovi trionfi, resi anche maggiori dalla proibizione di cui la polizia borbonica fulminò i tre lavori. Sul teatro del Conte di Siracusa diede un piccolo dramma: La stella di Mantova, recitato da dilettanti, e che naturalmente fu applaudito. Voleva poi dare alle scene dei Fiorentini una sua tragedia cristiana intitolata: Lucilla, ma la revisione accampò i suoi scrupoli, ed egli si contentò di pubblicarla per le stampe. Qui si chiuse la serie non interrotta dei suoi trionfi. Era troppa fortuna, e pare che egli stesso ne avesse paura. Per dieci anni, dal 1860 al 70, mostrò di aver lasciato il teatro; pubblicò una satira: Il conte Durante, della quale, trattandosi in essa con vive allusioni di persone viventi e note, si fecero molte edizioni; ed una storia dei cinque regni d'Italia, in due volumi. Il secondo periodo della sua carriera drammatica si apre appunto col 1870, quando egli, travagliato da gravi dispiaceri di famiglia, tornò all'arte. Ma l'arte, dispettosa del lungo abbandono, non aveva più per lui la facilità affettuosa dei primi sorrisi. Prima aveva trionfato, ora bisognava combattere. Il teatro attraversava anch'esso la sua rivoluzione; gli autori pullulavano, i giovani pigliavano arditamente i primi posti e i più pericolosi. A Napoli era sorto il Torelli e si faceva gran rumore intorno al nome di lui. Con gli autori s'era schiusa naturalmente una covata di critici: e si parlava di scuole, anzi di mode, si discuteva il genere antiquato, e se ne inventavano dei nuovi, si dettavano a diritto ed a rovescio le leggi fisse dell'arte dell'avvenire. Il Duca di Maddaloni si presentò al pubblico con un Segreto di Teresa ed Un nodo gordiano, che caddero con fracasso. I critici gli furono addosso per sbranarlo. Tornò alla carica con un Perin del Vaga e col Genesio. Ebbe applausi dal pubblico, ma non fu più fortunato con la critica. «Il pubblico nostro, fu scritto allora, va al teatro per salutare lui e per fargli festa, e se batte le mani, come sempre avviene che le batta, non è che si commuova al dramma ma piuttosto dimostra l'affetto e la stima e l'ammirazione che ha per l'autore, i quali sentimenti e tutti quegli altri che fanno sicuro il duca di Maddaloni del suo successo, non sono sentimenti di pubblico, ma piuttosto di amici, di ammiratori personali, di società napoletana: epperò accade che, trasportati i suoi lavori in altro ambiente meno simpatico o meno indifferente, e giudicati dal punto di vista dell'arte senza miscuglio di altre considerazioni, cadono miserevolmente fra le alte disapprovazioni».

In questo c'era una gran parte di vero; ma era anche vero che i critici non napoletani giudicavano il nostro autore con un certo pregiudizio; non tolleravano quel suo modo di scrivere contorto, stiracchiato, pesante, oscuro e qualche volta, per soverchio studio di purità, impuro – il che stava bene: non tolleravano il nome – il che stava male. Allora fu che il duca, pensandone una delle sue, diè alle scene il Friedman Bach dramma di Franz Herzog (Francesco duca), autore tedesco. Era il tempo di Sedan; epperò le cose e i nomi tedeschi facevano fortuna presso di noi. Si applaudì, si levò al cielo l'autore, si chiese chi fosse e che altro avesse scritto questo signor Herzog che scoppiava come una bomba nel campo letterario. Fu un tranello alla Stecchetti. I critici dettero nella pania, e l'autore si pigliò così piacevolmente le sue vendette. Scrisse poi Le Sorelle diplomatiche, commedia data alla Filarmonica di Napoli, La Duchessa di Girifalco, Cinzia, Stratonice, Ascanio il Citarista, e tutte ebbero qui buon successo e fecero fuori di Napoli mala prova, per quella medesima ragione della forma. Poi, fatto accorto dell'errore, scrisse l'Agrippina, che di tutti i suoi lavori senza dubbio è il migliore, in uno stile piano ed intelligibile; il che – dice – gli ha costato grandissima fatica. Intanto, lasciato il teatro, ha testè pubblicato una vita di S. Francesco d'Assisi ed una Lady Flora, romanzo intorno alla questione del divorzio, che sono stati dal pubblico è dalla critica accolti con discreto favore. E prepara, frutto di lunghi studi, una storia del teatro greco, latino ed italiano.

Ora il duca Maddaloni, datosi tutto all'arte, lavora con assiduità tedesca e foga giovanile, benchè gli anni e le sventure gli pesino addosso. Accoppia alla nobiltà dei natali quella ancora più nobile dell'ingegno e della coltura; esempio o rimprovero ai giovani della nostra aristocrazia.


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