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Se ne parla poco o punto, non si legge nei giornali il suo nome che a tempo di elezioni politiche. Gli elettori unanimi lo mandano alla Camera, tutti si compiacciono dell'attestato di stima profonda dato all'uomo venerando, – e tutto è detto. Allora egli, invece di andare alla Camera, se ne sta chiuso in camera sua. Accetta il nobile mandato come un tributo d'onore; già molto ha fatto in pro del suo paese; già troppo s'è mosso, ha scritto, viaggiato, amato, sofferto; ora non si muove, riposa, dorme. Tutto il mondo è in camera sua: i suoi libri, i suoi uccellini, le sue memorie.
Viaggiando se lo tirava appresso. Gli sapeva male che quei cari uccellini rimanessero tutti soli a casa ad aspettarlo; si sentiva mancar qualche cosa se la mano non trovava subito il libro prediletto, l'amico delle sue veglie, il conforto delle sue ore cattive. Solo mutamento dovea esser questo che la camera sua si muovesse, e in una camera era quasi trasformata la carrozza che lo portava lontano: c'era la gabbia e c'era la piccola biblioteca.
Un altro mondo, assai più vasto e popolato, si chiude ora fra quelle mute pareti: un mondo di affetti e di memorie: affetti profondi e vivi com'erano testè, quando le persone a lui più care vivevano, recenti memorie acerbe e dolorosissime. Tutto questo mondo non è riempito che da due nomi: un poeta e una donna. Basterebbe un solo di questi due esseri a riempire l'universo.
Vive in questo suo passato, in questa soave intimità nella quale non mette gli occhi la gente profana, e gelosamente lo custodisce, e cerca di continuarlo e di tenerlo in piedi, conservandone una linea, un colore, una sfumatura. Le rovine della sua vita gli vivono intorno. Così, lo si vede ora qualche volta in carrozza in compagnia di due monache. Sono due figure di un'altra età, serie, composte, vestite con fogge antiquate, che passano indifferenti e pensose in mezzo all'affaccendarsi della gente. Egli stesso con la sua faccia dai lineamenti puri e sereni, con la folta barba di quel certo grigio trasparente che ricorda il biondo cinereo, con l'occhio sereno ed astratto, pare che si lasci trasportare in regioni lontane e sconosciute piuttosto che all'Accademia archeologica e di Belle Arti di cui è presidente perpetuo. Pingue, complesso, grande di persona, gli si riflette in questa quella luce di serenità spirituale e pare che abbia bisogno di espandersi nelle forme come nella mente. Quelle due monache son poi in effetto due antiche sue cameriere. Come ai suoi uccellini, come ai suoi libri, tiene ai suoi domestici, i quali son tutt'uno con la casa, con le memorie, coi suoi cari che non son più, con tutto il suo passato. Si dice: Ecco il Ranieri – e subito vi corrono quei due nomi alle labbra: Paolina, Leopardi.
La personalità sua si bipartisce e piglia più carattere in questi due esseri, i quali rappresentano tutto il suo cuore, tutto il suo sacrificio, tutta la sua vita, tutta la religione del suo dolore.
Or ora, destatosi, ha dato fuori i Sette anni di sodalizio. È sembrata una voce potente che ci portasse notizie dalla regione dei morti. Da molti anni non scriveva. Dopo la sua Ginevra, storia commoventissima, nella quale non si sa se più debbasi ammirare la profondità del senso morale o la squisitezza del sentimento artistico o la fattura mirabile per eleganza, per colore di verità, per forza drammatica, erano venuti in luce i suoi Primi cinque secoli della Storia d'Italia da Teodosio a Carlomagno, che svelarono un'altra faccia del forte ingegno, facendo scoprire nell'artista lo storico accurato, il filosofo arguto, lo scrittore robusto e severo, e dettero argomento a più larghe e sicure aspettazioni. In effetto non si ebbero che i Discorsi, e dopo questo, un libriccino educativo Frate Rocco dove il fine dell'autore è alquanto annebbiato da esagerazioni di pensiero e lambiccature di forma.
Si noterebbe nei Sette anni lo stesso difetto, se la sostanza dello scritto non volgesse l'animo a considerazioni gravi; se non si fosse tutti compresi dall'ammirazione per quest'uomo singolare, il quale, – quando il Leopardi non era tenuto in quel pregio in cui lo si tiene oggi e non aveva per sè che le lodi del Giordani e la stima di una breve cerchia di gente colta, insieme con molta miseria, molti malanni, molta spinosità di carattere, – lo accoglie in casa sua, gli sta intorno con ogni sorta di cura affettuosa, lo tiene come fratello, gli dedica i giorni migliori della sua vita, gli dà tutto il suo cuore: sublime abnegazione dell'amicizia, della quale ci sentiremmo tutti capaci, oggi che si va studiando e tagliuzzando il Leopardi poeta, il Leopardi filosofo, il Leopardi amante, il Leopardi politico, e non so più quanti altri Leopardi che fanno ogni loro sforzo per farci perdere a dirittura ogni idea del Leopardi vero. Di tutti questi nuovi Leopardi il buon Ranieri sorride, egli che ne ha conosciuto uno migliore.... e peggiore. In quel tempo lì, il poeta, non avendo sul capo l'aureola messagli dal tempo e dalla morte, era un uomo che bisognava tenersi in casa, non già un nome. La gente volgare sogghigna di questa abnegazione, e vi cerca dentro riposte cagioni letterarie, delle quali si vorrebbero veder gli effetti negli scritti del Ranieri; e che veramente non si può dire se siano più sciocche o ridicole. Fra le molte amarezze che sogliono germogliare da una buona e nobile azione, questa è però la minore pel Ranieri ed anzi giova in qualche maniera a temperargli le altre. «Ma egli s'è beato e ciò non ode».
A parte la beatitudine, le sole voci ch'egli oda e che gli scendano al cuore son quelle di un'altra età. Lo fastidia spesso il presente. Adombra con l'affetto la sua angelica Paolina, se la rivede accanto, le parla, l'ha sempre compagna dei suoi studii, dei suoi dolori, ne ammira la mente eletta, l'animo nobilissimo, forse con calore giovanile arriva un momento a dar corpo di realtà alla cara illusione del cuore. Ci sono cuori che battono a ottant'anni come a venti; – ci sono, e forse non ce ne saranno più. Il Ranieri, benchè sereno, è triste ed è raro che sorrida.