Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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PROFILI LETTERARI

GIUSEPPE DE BLASIIS

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GIUSEPPE DE BLASIIS

Senta, caro professore, io non ci ho colpa se son tirato pei capelli, proprio a proposito di uno storico, del segretario di una società storica, di uno che viene fuori fresco fresco dalla più seria ricerca intorno ad un punto storico controverso, non ci ho colpa, dico, se son tirato ad inventare. O che nuova modestia è la sua d'incaponirsi nel silenzio? sa invece quante brave e rispettabili persone - nessuna di quelle che figurano fra i miei profili - mi hanno fatto la posta, mi hanno scritto, mi hanno pregato, hanno insinuato, mi hanno fatto la ruota davanti, e in tutt'i modi non mi hanno dato pace, perchè l'amico persuadesse il biografo a pigliare in mano la penna? A lei ho scritto una e due volte: non m'ha risposto: per via vedendomi da lontano, ha scantonato in gran fretta. Un giorno l'ho colto alla sprovvista, le son venuto sopra come un malfattore pigliandola alle spalle, ho interrogato, pregato, scongiurato, ed ella, professore mio, con tutta la gravità dei suoi occhiali e della sua barba nera, m'ha fatto lo schivo come una verginella; tanto che io, in quel primo momento di confusione e di mortificazione, ho dovuto scambiare per verecondia quel rossore costante di tutto il viso che le un aspetto così pieno di simpatica allegria e che mostra chiaro quanto poco riguardo - vivendo turco fra i turchi - s'impara ad avere pel Corano di Maometto. Che ella non abbia voluto metter bocca nella presente questione Maramaldesca1, sta bene; non le conveniva: era stato primo di tutti a muoverla: aveva illustrato con documenti preziosi e pazienza ed acume mirabili il Maramaldo e la sua famiglia; aveva contribuito, senza deliberato proposito, a quella qualunque riabilitazione della quale altri poco dopo si dovea far bello; e naturalmente le dava noia - e non poca ne avrebbe dato anche a me trovandomi nei panni suoi - che i giornalisti discutessero a gara intorno al libretto dell'Alvisi e del suo lavoro precedente, tanto più grave, non si dessero per intesi, come generalmente sogliono quando si tratta di lavori napoletani; il che per giornalisti è un mal vezzo, e per letterati com'è l'amico Martini, è a dirittura una colpa. Tutto questo, ripeto, sta benissimo; ma che a me poi, estraneo a queste dispute e tutto volenteroso a parlar bene dei fatti suoi, non volesse e non voglia dire

.... chi lei sie, per che modo
Venuto sia quaggiù....

non tenendo conto della mia minaccia di scrivere di lei in tutti i modi ed a qualunque costo, questa, mi scusi, è tale ostinazione che offende nella parte più squisita il carattere dello storico.

Da un'altra parte, pensandoci sopra, può anche darsi che un delicato rispetto l'abbia trattenuto di non costringere uno scrittore leggiero e capriccioso a impolverarsi fra i documenti e a registrar date. A questa sorta di lavori non può aver fatto la mano chi si diletta di novellare, abbandonandosi ai comodi ghiribizzi della fantasia. Che cosa sa la fantasia e con che gravità e precisione potrebbe narrare della sollevazione greca, della guerra coi Turchi, della politica delle potenze occidentali e della civiltà? La fantasia, che di natura sua è giovane, è meno corriva a studiare che a rompersi il collo, e testè abbiamo udito tutti negli esami liceali un giovane repubblicano, che più di una volta ha preso le armi per la santa causa della libertà, affermare che Abramo Lincoln fu primo presidente degli Stati Uniti ed iniziatore della riscossa americana. Così dovette accadere anche a lei, giovanissimo nel 1855, quando le pigliò l'estro di correre in soccorso degli insorti greci. Era ignoto, poco studioso, impertinente, fastidioso alla famiglia, ed in somma quel che si dice un poco di buono. Si accordò con un capo scarico suo compagno per partire, armarsi, piombare sui Turchi e dar loro una buona lezione. Di ottenere un passaporto non si discorreva neppure; bisognò corrompere con dieci piastre un capitano di legno mercantile perchè li pigliasse a bordo tutti e due: e il capitano, che era greco, si lasciò corrompere con le dieci piastre, che erano dell'amico. Si partì, lieti ed impazienti, sognando le battaglie e la gloria. La nave veleggiava con vento propizio; le famiglie, non avvertite di questa fuga, si davano attorno per far ricerche e vivevano in grande ansietà: i Turchi, non sospettosi nemmeno alla lontana del nembo che stava per iscoppiare loro sul capo, se ne stavano accoccolati sui loro cuscini fumando oppio: i Greci aspettavano.... ed aspettano ancora.

Non le pare, caro professore, che questa storia abbia tutto il fare di un romanzo? Bene, io non la so scrivere altrimenti, e ad ogni modo ho in mente, con tutto il rispetto dovuto alla storia, che il pubblico ci troverà gusto. Ai Dardanelli, una prima fermata memorabile. Sbarcano, pigliano paese, si presenta ai due giovani uno di quei tali Turchi che poco fa fumavano oppio e che essi son venuti a sterminare. È un pascià, più meno. Lo risparmiano per questa volta, entrano a discorrere con esso lui.

Dove andate? – domanda il Turco.

– In Grecia, – rispondono i due giovani animosi.

– A che fare?

– Ad aiutare gli insorti.

Si narra che a questa risposta, il pascià fumatore avesse sbattuto in terra il suo chiboco ed attaccato un moccolo poderoso; che per essere stato pronunciato in turco, non si può qui registrare. Poi si calmò, si fece portare un'altra pipa, riappiccò il filo del discorso, e tanto seppe dire e insinuare e tanto fece valere il fatto che le potenze occidentali s'erano finalmente decise ad aiutare la Turchia, che parve ai due giovani stare tutta in Turchia, e non altrove, la causa della civiltà. Sicchè, detto fatto, si abbracciarono col pascià, tornarono ad imbarcarsi ed arrivarono sani e salvi a Costantinopoli, dove ella, caro professore, fu nominato issofatto - mi par di vederla! - capitano dei bascibuzuh e mandato sulla frontiera asiatica per battersi coi russi. Dell'amico suo non so che grado avesse avuto; ma è certo che venne con lei; e che con lei si trovava alla battaglia di Bayazid, dove la cavalleria russa ruppe e sgominò i Turchi, che avevano avuto la bella idea di formarsi in quadrati.... senza aver baionette.

Allora fu – mi corregga se sbaglio, professore – che, senza più Greci da soccorrere, senza Turchi da comandare, senza danari e con poca speranza di farne, ella e l'amico suo si andarono arrampicando per le montagne dell'Armenia. Quando le capitava, esercitava, alla meglio, o alla peggio, – ahimè, quei poveri Armeni! – la salutare arte di Ippocrate. Via facendo e infermi curando, si accozzarono a lei altri sei o sette Italiani, e tutti insieme pensarono di passare in Persia, dove un altro nostro napoletano, il generale Materazzo, era comandante della cavalleria dello Scià. Ma facevano i conti senza l'oste; cioè senza un'altra cavalleria, la russa, uno squadrone della quale li colse al passaggio della frontiera, li circondò, li menò prigioni. Ed ecco, dopo tanta varietà di casi che paiono inventati per servire ad una novella orientale, ecco un primo documento storico. Da Erivan nel Caucaso, ella scrisse, professore, la sua prima lettera alla famiglia, con questa biblica data: Dalle falde del monte Ararat.

Le falde del monte erano però una figura rettorica. In effetto, ella stava sempre in prigione coi suoi compagni di sventura, e quando di a poco fu trasferito a Tiflis, mutò di aria, non di stato.

Qui poi, a Tiflis, venne il bello, perchè poco mancò che il futuro professore di storia non si presentasse al pubblico da tenore. Mancava appunto il tenore al teatro italiano di ; e il governatore della città, sapendo di questi Italiani prigionieri facendosi capace che tutti gli Italiani non cantassero, ordinò che un di loro – lei precisamente, professore! – fosse tratto sul palcoscenico e desse prova della bravura della sua laringe. Non ci volle poca fatica per persuadere quella bizzarra autorità che si può essere Italiano senza cantar da tenore; e forse l'ostinato rifiuto contribuì la sua buona parte ad accrescere i rigori della prigionia e la persecuzione. Da Tiflis, per ordine imperiale, furono i prigionieri trasportati a Pietroburgo; ed ella, professore, ebbe a traversare la Russia nel cuore dell'inverno, sopra un carro, tra due cosacchi, senza morir di freddo. A Pietroburgo, da capo in prigione; fino a che, l'ambasciatore napoletano, ottenuto dal padre di lei, presidente del Tribunale di Teramo, le spese del viaggio, la fece finalmente tornare in patria ed ai cari abbracciamenti della famiglia.

Qui ha termine la novella orientale, e incomincia una storia più viva e vicina, della quale si può scrivere con una certa esattezza senza chiederne a lei, professore, i documenti. C'è ancora dell'altra guerra, ma c'è già lo studio, e s'incomincia a vedere che il ragazzo impertinente è anche un ingegno sodo, un carattere, una volontà. La Pontaniana bandisce un concorso intorno alla vita e le opere di Pier delle Vigne; ed ella, professore, si guadagna il premio. Subito dopo, fuori uno studio sul Veltro allegorico, che fu molto lodato e contese il primato al giovane e già chiaro Pessina.

Arriva il 1860; vanno all'aria gli studi; si corre all'armi; lo spirito guerriero ripiglia il sopravvento nell'animo dello scrittore. Dallo Spaventa, mi pare, ottiene di poter formare una legione insurrezionale in provincia di Terra di Lavoro. Riesce intanto a trafugare i fucili sbarcati nottetempo dalla Monzambano nel porto di Napoli. Coi denari di Beniamino Caso, ex deputato di Piedimonte d'Alife, forma, una banda che fu poi quella che entrò a Benevento il due di settembre e della quale faceva anche parte il comm. Martorelli. Dopo la famosa battaglia del primo Ottobre – se ne rammenta, professore? – ella raccolse finalmente i frutti di tante onorate fatiche. Posò le armi, non ebbe niente; cariche, onori, assegni. Era scritto che tutto avrebbe dovuto a stesso, all'ingegno gagliardo, allo studio assiduo, a nuove e meno manesche fatiche. Vacava nella nostra università la cattedra di professore di storia; dal Fornari, che non avea potuto, per riguardo alle opinioni correnti, accettare una domanda del Cantù, invitare altri professori troppo vecchi, fu proposto il giovane capobanda e scrittore; lei, professore, che ebbe subito la nomina di pareggiato e a stesso e al proponente non mancò di fare grandissimo onore.

Quel che ha fatto da quel tempo in qua lo sanno tutti, checchè ella faccia per nasconderlo, e basterebbe per darle fama il solo suo studio sulla rivoluzione pugliese e la conquista normanna. Tutti sanno altresì che, come storico, ella ha questa rara ed invidiabile qualità, di essere più innamorato di narrare i fatti che di cacciarvi in mezzo la personalità propria, e che alla narrazione accoppiando una critica sottile e dottissima, espone le cose con serenità, con lucidezza, con perfetta coscienza, – quasi con sicurezza matematica. Tutti sanno che due volte ella ha tenuto con lode l'ufficio di direttore delle nostre scuole municipali.

E tutti sanno che da lei verranno altri ed altri lavori degni di lei e del nostro paese, che si pregia di contarla fra i suoi più chiari scrittori, fra i suoi migliori cittadini.

Ma non tutti sanno, perchè non tutti possono averla conosciuta da vicino, certe altre particolarità di persona: che la sua faccia aperta ed allegra e rubiconda non ha del professorato la gravità; che quel suo risolino costante annunzia il brav'uomo, mens sana in corpore sano, sempre amico, sempre galantuomo, sempre di buon cuore: che le piace di vestire con una accuratezza quasi elegante, la quale non tradisce punto il rivoltoso greco-turco e il garibaldino; che cammina frettoloso, col mento elevato e con le gambe un po' in fuori; che ama di pari amore.... (questa non so se la debbo dire, tanto più che molti critici spiccioli mi hanno tacciato di essere troppo minuto e indiscreto; ma mi conforta l'autorità di un critico grosso, il quale scrive che «on ne saurait s'y prendre de trop de façons et par trop de bouts pour connaître un homme, c'est-a-dire autre chose qu'un pur esprit.... Ces diables de biographes ont eu la pluspart jusqu'ici la manie de rester dans les termes génèraux. Ils trouvent que c'est plus noble. Ces genslà masquent et suppriment la nature....») che ama dunque di pari amore la storia e il generoso sugo del grappolo.





1 La «questione maramaldesca » si accese in Italia tra il 1875 e il 1880, nel tempo in cui erano venute di moda le «demolizioni» e le «riabilitazioni» dei personaggi storici e, nel caso del Maramaldo e del Ferruccio, fu dimostrato che il primo non era un malvivente, ma un nobile di antica famiglia napoletana, prode capitano, fedele all'imperatore, e del secondo si misero in luce i vizi privati e le violazioni di usi di guerra. Il De Blasiis aveva pubblicato nel 1876-78 una dotta e serena monografia sul Maramaldo; l'Alvisi un libro sulla Battaglia di Gavinana (1881), e Vittorio Imbriani un vivace articolo su Maramaldo e Ferruccio.



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