Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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PROFILI LETTERARI

ROCCO DE ZERBI

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ROCCO DE ZERBI

Ed eccone un altro dei nostri letterati che la politica assorbe; non tanto però da togliergli il suo carattere più piccante di scrittore e d'artista. La politica, che è vecchia e conta tra i vecchi i suoi più felici adoratori, non ha saputo con tutti gli artifizi suoi conservare, per vincere l'animo dei giovani, il fascino prepotente della gioventù. Il De Zerbi ha preso parte a tutti i movimenti pagando di persona e d'ingegno, ha percorso tutta la scala del pubblicista, da correttore di bozze a direttore, ha provocato discordie e scismi, ha seduto e siede in Parlamento, e non solo, ma ha anche parlato e parla, si muove, opera, si impone, si fa ascoltare ed ammirare. A Napoli, lo si ammira; anche qui è infaticabile la sua attività; anche qui parla e si muove dalla tribuna del suo Piccolo, tutti i giorni, sempre con la stessa foga, con lo stesso impeto giovanile e nervoso. È moderato; ma per questa medesima abbondanza di vitalità, e per l'ingegno pronto e versatile e per la coscienza che ha del proprio valore, si può dire che faccia molte volte partito da . A Napoli, dove lo spirito di associazione è scarso, il mutuo soccorso, il mutuo incensamento non esercitato come in altre parti d'Italia, regna sovrano l'individualismo, e sono frequenti gli esempi di self-help. Ciascuno per e ciascuno contro tutti. Il De Zerbi di questo individualismo è uno degli esempi più notevoli; battagliando, parando, attaccando, ora cedendo, ora risorgendo, sempre sulla breccia fornito di nuove armi e di novello vigore, ha conquistato il suo posto in arte e nella vita pubblica.

Della politica egli ha più perizia che scienza; in effetto non gli preme così forte ch'ei vi spenda tutto stesso. Scriveva testè in un suo articolo: «preferisco sentire un valzer di Strauss allo scrivere o a leggere un articolo di fondo». Parlategli di partiti, vi risponderà col sorriso dello scettico; parlategli di Fausto o di Amleto, vi starà a sentire tutto intento, o prenderà a parlarne egli stesso con calore, come ha già fatto in due conferenze a Napoli e a Torino, la prima delle quali è stata anche voltata in tedesco.

È artista veramente. Da giovanetto lo sentiva, ora lo sa e lo vuol far vedere. Lo sentiva quando, lasciato fanciullo in Napoli dal padre che per noie politiche partiva da Reggio di Calabria, andava a scuola dal Riccio e non faceva i compiti di scuola e si lasciava punire perdendosi nella lettura di filosofi e poeti e teologi, che non capiva, che gli confondevano il cervello. Curioso particolare, gli insegnava grammatica Giuseppe Lazzaro. Lo sentiva quando, compiuti alla meno peggio quegli studi elementari, si dava a scartabellare san Tommaso, san Bernardo, Hegel, Schelling, Gioberti, s'ingolfava con furore negli studi filosofici e teologici, scriveva e faceva stampare tre insipidi discorsi sul Buono, sul Bello, e sul Vero, presentava alla Pontaniana una monografia su Pier delle Vigne, che non fu classificata fra le ultime, si innamorava del Digesto, si faceva pigliare dalle smanie dell'ascetismo e stringendosi ai fianchi il cilicio voleva vestirsi frate. Lo sentiva, quando tornato in Oppido di Calabria a stare col nonno, si fingeva preso d'amore per una sua cugina, impensieriva il vecchio, si faceva persuadere a tornare a Napoli, partiva per Palmi, s'imbarcava sopra un battelletto, riparava a Milazzo e indossava la camicia rossa del garibaldino.

Aveva allora solo diciassette anni.

Quelle sue grandi opere letterarie e filosofiche le aveva scritte a quindici. Lo sentiva nella irrequietezza, negli studi arruffati, nel desiderio della gloria, nell'ambizione, nell'amore. Da frate che doveva essere fu soldato, passò subito sergente e luogotenente. Entrò poi nella scuola di Ivrea, ne uscì nel 1861 appena compiuti i diciotto anni, sottotenente del 34° fanteria. Volle combattere nel napoletano contro i briganti; si guadagnò la medaglia al valore militare.

E intanto scriveva e studiava, sempre. Stampò un opuscolo di mediocri versi, fece uno schizzo storico dell'assedio di Capua e di Gaeta, imparò il francese, il tedesco, l'inglese, il greco, lesse la Filosofia della rivoluzione del Ferrari, vi perdette ogni sorta di fede; e così studiando febbrilmente, senza metodo, a sbalzi, a lunghi intervalli, s'infarinò di tutto, non approfondì nulla, fu poi obbligato a rifare i suoi studi, e a rifarli da .

È artista, ma a modo suo. Sente più col cervello che col cuore, e così fortemente sente da mettere nell'animo altrui la commozione che egli non ha. Scrive di amore e non ne sente, si scalda di sdegno contro gli avversarii e sorride, tocca la corda della pietà e motteggia, si alza a volo nelle regioni della poesia senza scomporsi dal suo tavolino, sereno in vista, fumando il suo sigaro, scherzando e motteggiando con l'amico che gli sta vicino. Giuoca coi sentimenti, si atteggia allo scetticismo; e l'atteggiamento è quasi diventato in lui una seconda natura.

A conoscerlo da vicino vi pare calmo e docile; è biondo e pallido e di aspetto gentile; se abbia nell'anima delle tempeste, se lo sa lui; vi stringe la mano senza graffiarvi. Nel momento della lotta verranno fuori le unghie; quella mano delicata stringerà la penna come un'arma micidiale. L'educazione tumultuaria, l'aver cominciato a vivere troppo presto, la varietà dei casi, le sventure domestiche e forse, chi sa, segreti dolori e precoci disinganni gli danno questa doppia faccia, hanno fatto di questo agnello un agnello-tigre.

Sopraggiunse la miseria e la necessità del vivere e del dare a vivere. A furia di fare il Don Giovanni, s'innamorò. Tutti i Don Giovanni s'innamorano e scontano con una i peccati commessi con cento. Egli capitò bene: conobbe in Colorno una buona e virtuosa fanciulla, le parlò tre volte, partì per Modena. Si accese allo stile epistolare di lei, la sposò e con lei venne a Napoli. Con lei a fianco e con 500 lire in tasca. Finita la guerra del 1866, aveva chiesto l'aspettativa.

Trovò il padre e la madre in lite: l'uno e l'altra accusavano lui di troppo attaccamento all'altra od all'uno. Mise su casa, dette fondo al suo capitale, soffrì la miseria, accettò l'ufficio modesto di correttore di bozze nel giornale La Patria, dove non lo si credeva capace di altro. Venuta Mentana, temette di un colpo di Stato, chiese ed ottenne la dimissione dal servizio militare. Un giorno dall'ufficio del giornale scomparvero il Turiello ed altri. Erano andati al campo. Il povero correttore si trovò con tutto il peso del giornale sulle braccia. Lo sostenne, lo sollevò, lo rese più vivace, ardito, aggressivo, battagliero. Vennero i duelli, lo si chiamò direttore perchè si battesse. E così uscì dalla sua oscurità ed ebbe 150 lire al mese per schiccherare articoli e rischiare la pelle.

Dalla Patria che gli pareva troppo consorte – e tale era in effettopassò a fondare il Piccolo. Venne fuori un giornale brioso, pieno di fuoco e di gioventù, scritto bene: e questo soprattutto parve nuovo e mirabile, qui dove i giornali, per massima parte di opposizione, erano scritti in lingua giornalistica. Doppia maraviglia: il discepolo dell'onorevole Lazzaro si rilevò di botto forbito e colto scrittore. Fu conosciuto, ricercato, festeggiato. Si scaldò all'opera, s'inebriò delle lodi, diede fuori un romanzo, Poesia e Prosa: poi un Senza Titolo che fu letto con avidità e lodato, e che varii anni dopo si ripresentò al pubblico in veste di Ebrea; poi una Vestilina, dove in mezzo alle più fresche fantasie dell'artista trovò modo di dare sfogo alle sue velleità archeologiche, alla sua matta voglia di parere erudito. E tutto questo senza lasciare il giornale, senza perdere di vista il suo scopo, cioè l'avanzare in fama ed in fortuna, combattendo sempre in prima fila, entrando in associazioni politiche per portarvi la forza o un primo germe di dissoluzione, mescolandosi nei maneggi elettorali, andando al Parlamento, facendosi corteggiare, amare, odiare e soprattutto temere.

Rocco De Zerbi è la sfinge, anche a considerarlo fuori del campo politico per quanto sia possibile la distinzione in uno che milita da pubblicista. Non crede a niente o mostra di non credere; ma pure se c'è una sventura da soccorrere è sempre il primo a sacrificare il suo tempo, la sua opera, il suo denaro. È buon giovane ed ha pessimo carattere. È urbano nei modi e nondimeno a momenti sprezzante e superbo. Epperò come ha amici che gli sono devotissimi così ha nemici accaniti.

Come ha combattuto con le armi così combatte ora nel suo giornale con la penna. Scrive con poco nerbo, quando non discende sul campo della polemica. Si sgrava dell'articolo di fondo come di un gran peso. Dice le impertinenze egregiamente, non essendo vinto in questo che dal Bonghi, il quale, maestro del genere, ha la serenità olimpica dell'impertinenza plateale. È terribile nell'avventare il frizzo, nello scagliare il dardo avvelenato: non c'è polemista che possa reggere ai suoi colpi, che possa seguir con l'occhio quei movimenti svelti, rapidissimi, impreveduti, temerari. Perchè egli ha questo vantaggio che, cacciatosi appena nella zuffa, vi dentro con tutto stesso, si inebria, si accieca, si scalda, fa l'articolo. Poi sorride tutto soddisfatto dell'opera d'arte che gli è uscita dalle mani.

Del giornalista ha tutto lo spolvero oltre l'audacia, ed ha l'attitudine, cioè uno spirito maraviglioso di assimilazione. Scrive di tutto, fa suo anche quel che non ha mai saputo, lo sa mentre scrive, lo dimentica dopo. Gli piace stordire la folla con la varietà infinita delle cognizioni raggranellate, con la scienza delle cose più astruse, con la conoscenza di molte lingue e di molte letterature. Gli piace che il pubblico grosso si domandi tutto ammirato «Come fa costui a sapere tante cose?». Poi, da stesso, a mente riposata e in un altro giornale, fa la caricatura del proprio stile.

Ma il giornalista non guasta il letterato; il quale, rimanendo quel che è, studiando e lavorando con assiduità singolare, trovando modo e tempo di scrivere recensioni artistiche, lavori critici, novelle, romanzi, conserva però del giornalista l'ardire e lo spirito battagliero. Una recente polemica col Carducci a proposito di Tibullo e del mondo romano tenne sospesi gli animi di tutti, e molti ebbero un momento a temere o a sperare che il gigante accoppasse l'audace David. La lotta durò lunga e varia e dei due avversari vinse in ultimo.... Tibullo.

Così non gli togliesse forza e tempo il lavoro quotidiano ed ingrato del giornale! Vero è ch'è maraviglioso com'egli trovi il modo di attendere nel tempo stesso a tante cose: al giornale, alla Camera, agli elettori, all'arte, allo studio, alla famiglia: ha forse il privilegio degli ingegni lucidi e operosi che la sua giornata sia di quarant'otto ore. Ma in somma quanto miglior lavoro sarebbe il suo, se potesse essere egualmente assiduo e meno sparso e saltuario! Si sa che il giornale rovina il libro, e che fra tutte le donne gelose, l'arte è donna per eccellenza.


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