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Si dirà: perchè fate questo ritratto?
Il Torelli lo conosciamo tutti; le sue commedie le sappiamo a mente; lo abbiamo incontrato per la via, al caffè, nelle conversazioni, lo abbiamo visto mille volte venir sulla scena, da autore drammatico, a farci i suoi inchini, lo abbiamo letto stampato sui giornali da poeta lirico. Ma no, voi non conoscete i due Torelli, o almeno non gli avete sott'occhio tutti e due; non conoscete il Torelli che conosco io, che è il secondo e che merita essere studiato come un singolarissimo caso fisiologico e psicologico. Fo un po' di filosofia, perchè il nostro poeta è poeta, ma è filosofo. Conobbi il primo otto anni fa al Teatro Nuovo, dove si dava il suo Chiodo scaccia chiodo. Il successo fu grande. Mi parve una bella cosa questa commediola che facea presentire il Giacosa ed inaugurava i bozzetti medievali che hanno poi allagato di miele le nostre scene. Lasciai il mio scanno, entrai fra le quinte, cercai l'autore, me gli presentai per stringergli la mano. L'ammirazione, l'affetto, il turbamento momentaneo mi facevano scavalcare tutte le convenienze: andava a lui col cuore in mano in atto di chi voglia piegare il ginocchio per adorare. Egli si pigliò l'adorazione. Stava appoggiato ad una quinta, guardava in su, al cielo, non gli bastava forse l'applauso della platea. Si accorse di me, mi ringraziò in punta di labbra, poi, quasi proteggendomi, aggiunse: «vediamoci il meno che sia possibile, così forse ci riuscirà di stimarci meglio». Una frase scortese, superba, piena di misticismo e che mi avrebbe sdegnato se non mi avesse fatto ridere internamente sciupandomi un po' l'ideale del mio poeta.
Quando cadde La Fanciulla egli usciva a metà spettacolo dal teatro, e ridendo fragorosamente diceva ad un suo amico: «Vado al ballo, non capiscono niente».
Quando caddero I Derisi, e il critico, parte per ragioni di pura estetica, parte per bizza meschina covata in un cantuccio dell'anima, montò sul suo piedistallo di carta e guardò l'autore dall'alto in basso – come già l'autore aveva guardato il critico – e non si diè il fastidio di criticare sul serio quel povero tentativo di commedia, e parlò di non so che parabola, discendente; egli, l'autore invelenito, scrisse e stampò sopra un giornale:
Ben tu dicesti, il mondo è fatto a scale:
V'è chi scende e chi sale.
Chi va nel fondo e chi poggia alle cime:
Dal piedistallo mio che tu discalzi
Io scendo, – e tu sublime
Con le orecchie t'innalzi.
Lo stesso critico, fatta la pace, gli diceva un giorno: «Perchè vivete isolato? di dove volete cavare le vostre commedie?». Ed egli: «Mi fastidia la compagnia degli sciocchi». «Ma questi sciocchi sono il vostro pubblico, ma son quelli che han fatto la vostra fama, la quale, se essi sono sciocchi dovete poi convenire che sia una sciocchezza; ma di questi sciocchi potrete aver bisogno domani; e li cercherete e li pregherete a mani giunte di salire fino a voi, ed essi non vi sentiranno e vi lasceranno solo sulla vostra colonna come un altro Simone Stilita».
Dopo, era mutato. Veniva fra la gente, discorreva, si voleva fare perdonare. Gli era entrato addosso il dubbio. Della commedia s'era disgustato dopo gli ultimi insuccessi, ma non lo voleva dire. S'era attaccato ad altri studii, leggeva Platone, S. Agostino, S. Tommaso, Aristotile. Gli pareva di aver fatto scoperte nuove, scriveva elucubrazioni filosofiche molto confuse e svaporate, versi metafisici, liriche a doppio fondo. Volle avere un altro pubblico e diè al Circolo Filologico una sua conferenza, dove parlò d'ogni cosa divina ed umana e trasse in iscena tutti i suoi personaggi dell'antichità e li fece bisticciar fra loro, e s'imbrogliò in somma in un labirinto inestricabile. Poi questa conferenza l'ha allargata di cose più sostanziose, l'ha sfrondata del soverchio, ne ha fatto un volume che forse pubblicherà. Poi ha scritto versi, non ha trovato una forma spiccata, nè un carattere. Faceva il dispettoso con Talia, e Talia lo richiamava sorridendo fra le sue braccia. Non voleva: dicea di averla finita col teatro, nessuno sentirsi meno di lui autore drammatico; contentarsi di dare alle stampe le commedie già scritte, ripulirle, limarle, metterle in libreria e starsele a guardare; non voler più affrontare i giudizii di un pubblico volubile e di una critica regionale e pregiudicata; cedere innanzi alla guerra ostinata che gli si muoveva da tutte le parti. Come il suo omonimo, si era ritirato nella tenda.
Ma quale guerra? Questa è una delle sue fissazioni. Vede nemici da per tutto; eppure nessuno autore è stato più di lui esaltato, nè c'è critico in Italia che possa dire veramente di avergli fatto cotesta famosa guerra. Qui in Napoli degli scrittorelli lo tormentavano e lo punzecchiavano. Ma egli, poeta, non fece come il poeta qui pensif regarde ailleurs, e volle invece rispondere o piuttosto sfogare col suo Uomo mancato, gridando al pubblico dal palco: «Che volete? m'avete posto sul piedistallo, perchè mi dite di scenderne?». Il fatto è che, con queste sue ire, ne scendeva da sè.
Non aveva e non ha però tutti i torti. Un po' di guerricciuola glie l'hanno fatta e gliela fanno, ora ingiusta ora da lui stesso voluta.
Egli ha ingegno: chi glielo nega? ha conoscenza di scena: chi ne dubita? ha dato belle commedie al teatro italiano: chi dice di no? Siamo d'accordo, non è vero? Ma una sola cosa non gli si manda buona, un difettaccio del quale, disgraziatamente, non credo che si emenderà mai. Lo dico?.... Ebbene sì, egli si fa lecito di essere napoletano, e questa licenza è una indecenza. Avete inteso? napoletano! Un autore francese, tedesco, inglese, magari piemontese, o fiorentino, di fuori via in somma, si capisce. Ma napoletano! oh Dio, un autore napoletano! Si vede bene che volete ridere.
Poi ce n'è un altro dei difetti, o piuttosto c'era. Mi pare di aver detto altre volte, e se no lo dico adesso, che se voi volete esser grandi.... cioè voi no, lettore, perchè non vi fo così baggiano da sospirare questi sopraccapi della celebrità; parlo in astratto; s'intende.... dico dunque che se volete essere grandi, bisogna che incominciate dal farvi piccini, ma piccini assai. Il vangelo dice qualche cosa di simile, ma non a proposito degli autori. Allora si avrà compassione di voi: della vostra piccolezza e debolezza. Desterete simpatia: niente di più carino dei ragazzi. Poverino, non dà noia a nessuno! e vi toglieranno in spalla per farvi stare più alto e mostrarvi alla gente e farvi vezzeggiare. Sapete la storia di quel buon uomo di S. Cristoforo? Si pigliò in collo il bambino ed entrò nel fiume per guadare. Fatti due passi, il bambino pareva il doppio: S. Cristoforo se lo passò dal braccio destro al sinistro. Due altri passi, e il braccio sinistro era intormentito, San Cristoforo sudava a goccioloni, e cominciava a farsi scappare la pazienza con tutta la sua santità. Più in là, il bambino diventò come di piombo, e a mezza via gli pareva al povero santo di portare addosso un elefante. Lo getto o non lo getto via?...
Accade così, questo è il guaio. Quando vi avranno levato su, e tenuto su per un pezzo, si stancheranno: voi pesate troppo. Poi si accorgeranno di un'altra cosa: a quell'altezza voi togliete che altri si scaldi al sole delle lodi e dell'amor proprio. Toglietevi di là in tutta fretta, tornate piccolo, nascondetevi, o quest'altro San Cristoforo del pubblico vi getterà in acqua.
Questa è stata la storia del Torelli, quella che ha creato il Torelli della prima maniera per poi ridurlo alla seconda. Venne bambino sulle scene e fu salutato come un prodigio. Dopo morto, Il tempo di Gingillino, Prima di nascere erano vagiti, ma di gigante, almeno così diceva il pubblico. In effetto, qualche anno dopo, eccolo venir fuori con la Missione della donna; divenuta poi Una missione di donna. Si gridò al miracolo, e la commedia era bella veramente. La critica intuonò il suo inno e parlò di belle speranze: trattandosi di sperare non c'era motivo di stare in apprensione; le speranze potevano venir meno e si sarebbe sempre stati a tempo a versare le lagrime del disinganno sulla morte di questa giovane intelligenza. Il bambino pesava già il doppio, ma non tanto da accoppare San Cristoforo.
E allora fu che vennero I Mariti, anzi, scoppiarono. Furono dati al Niccolini di Firenze la sera del 23 novembre 1867. L'entusiasmo ruppe ogni limite. La Commissione dell'Accademia della Crusca, che doveva aggiudicare il premio, andò a complimentare il Torelli sul palcoscenico, ed il ministro della Pubblica Istruzione gli ottenne la croce di cavaliere. Il pubblico strepitava in platea e non si stancava di acclamare il poeta. La critica, pigliata anch'essa dalla febbre che accendeva tutti i cervelli, scordò un momento l'ingrato ufficio dell'analisi, depose lo scalpello anatomico ed impugnò la lira. Un inno fu sciolto al salvatore del teatro italiano. Naturalmente di parola in parola e di lode in lode si andò nell'eccesso. Il Capuana, esclamò tutto giubilante: hoc erat in votis! Il d'Arcais tirò in campo l'École des maris, e la disse inferiore nella larghezza del soggetto a questa nuova commedia italiana, e tutti gli apostoli minori fecero eco, com'era da prevedersi alle parole dei due sommi sacerdoti. Vi fu un banchetto, dove si mangiò poco, si parlò molto e si stette allegrissimi; molti brindisi si dissero, e il giovane autore, per rispondere in qualche modo a tanta festa che gli si faceva. pronunziò turbato e commosso quelle belle parole: «Diamoci la mano e camminiamo insieme!».
Passò il tempo e l'entusiasmo sbollì. Qualche accorto lo aveva preveduto. Si sa come accadono queste cose: quando arriva il ragionamento – e presto o tardi arriva sempre – tutto è rimesso a posto, tutto entra nelle sue giuste misure, tutto si mostra nella sua vera luce. E il ragionamento è una santa cosa che ha sempre ragione, non fosse altro che pel nome che porta. Da un'altra parte, nascosti dall'ombra della cantonata, gl'invidiosi aspettavano con pazienza il quarto d'ora della rivincita. Erano quei medesimi dalle belle speranze, e anche questa loro aspettazione era una speranza. Come! un giovane che fino a ieri è stato con noi, al caffè, alla passeggiata, a desinare, che ha con noi chiacchierato, fumato, fatto mille pazzie appunto come noi, volere così di botto diventar diverso da noi, pretendere di essere tenuto da più di noi, obbligarci ad alzar gli occhi per guardarlo in faccia, quando prima ci siamo trovati fronte a fronte ed abbiamo camminato a braccetto! Ma si è mai visto, Dio buono, una impudenza simile! Come mai ha egli osato uscir dalle file e precederci e far vedere alla gente di aver più lena e migliori gambe delle nostre! Ma, ditelo voi, non è proprio una tracotanza che non ha l'eguale?
Conclusione di questo ragionamento: diamogli addosso.
Venne in campo quella famosa immagine della parabola: era speciosa e fece presto fortuna. Gli applausi ai Mariti erano lontani ed ogni giorno più si facevano deboli. A qualche successo meno strepitoso si dava il nome di successo di stima o a dirittura di insuccesso. La Moglie, Fragilità, la stessa Triste Realtà, che tanto era piaciuta al Manzoni; segnarono altrettanti punti della trista parabola. L'ingegno del Torelli precipitava al tramonto. Era stato un fuoco fatuo, acceso e spento in un punto solo.
Lo compativano. Che volete! si è creduto di essere quel che non era. Cioè gliel'hanno fatto credere: ha abbandonato gli studi, ha voluto camminare da solo, è inciampato al primo passo. È un cervello esaurito dal quale è vano sperare nuovi frutti. Peccato – prometteva così bene!
Questi invidiosi avevano le lagrime agli occhi e riboccavano di affetto.
Venne Consalvo.... Ahimè! Après Agésilas, hélas! Caduta rovinosa. I piccoli ridivenivamo grandi e guardavano dall'alto. Non sapete? Il Torelli è stato fischiato. Avete letto i giornali? un fiasco come non ce n'erano mai stati. L'ha scritto da sè nel solito telegramma. Doveva andare a finire così: io l'aveva detto. – Fu solo allora che il Torelli ebbe la soddisfazione di essere applaudito dai suoi nemici.
Al Consalvo seguì La Fanciulla e via via, sempre scendendo, fino alla sua Mercede. In brevissimo spazio aveva dato al teatro poco meno di trenta lavori.
Poi, un bel giorno, fastidito del teatro, mandò fuori un volume di liriche, Scheggie, che non valevano le sue commedie e furono considerate dalla critica come un riposo per riprender lena.
E non è a dire che abbia lavorato sempre. Il poeta è stato anche soldato. Nella guerra del 1866 partì volontario nelle Guide. A Custoza cadde il cavallo, gli si ruppe una vena dei bronchi. Trovò ricetto a Pozzolengo in casa Brighenti, dove fu trattato con ogni sorta di amorevolezza. Di là andò all'ospedale di Brescia, si ristabilì in parte, tornò in famiglia ed all'arte.
Si può dire del Torelli che in tutta la sua brevissima e gloriosa carriera sia andato alla ricerca della forma. Ha ondeggiato. Ma ignora egli stesso che quella certa vaporosità dei suoi lavori è appunto il suo carattere più spiccato. Poca scultura, molta delicatezza di ombre e di luce, un certo senso di mestizia. Ne cercherà un'altra, nè la troverà mai, perchè avrà sempre la sua. Il suo sorriso è serio. Ci sarà sempre in tutte le sue commedie l'amore meno come elemento dell'intreccio che come sostanza della commedia stessa.
E questa della forma, esagerata da una fantasia troppo facile ad accendersi, è un'altra delle sue fissazioni. Gliene hanno dette tante sulla lingua ch'egli è caduto da un eccesso nell'altro, e sarebbe divenuto un perfettissimo pedante, se non avesse l'ingegno che lo salva, il sentimento che lo spinge verso la bella terra delle scorrezioni dove palpitano i cuori contro tutte le regole della sintassi. Sa il Fanfani a menadito; lo sfoglia ad ogni poco; se lo tiene accanto. Lima, lima, fino a guastare qualche volta il ben fatto. Non si fa capace che la lingua non s'impara nei vocabolari, e che tutti i Fanfani del mondo messi insieme non faranno mai l'unghia del dito mignolo di un mezzo poeta. Questi dubbi, queste incertezze, questi sconforti denotano l'artista. Al vero artista geme sempre nel cuore l'angoscia d'un dubbio. Ora si accascia, ora si rileva e scatta come una molla compressa. Così doveva accadere del Torelli e così è accaduto. Per un pezzo, animo delicato e sensibile, ha cercato appoggio e sostegno, ha vagheggiato di lavorare per qualcuno, di porre forse la sua corona di poeta sopra una candida fronte. Poi si è chiuso in un isolamento sdegnoso e doloroso. Lo sdegno, questo si capisce, era tutto per gli uomini.
Una grande tendenza l'ha per le donne, perchè è innamorato del bello, ed ha il culto dell'ideale; nè le donne lo vedono di mal occhio. È pallido, triste, un po' cascante, con folti e ricci capelli, sopracciglia che non si vedono, una di quelle fisonomie che conservano sempre la prima giovinezza. In effetto gli si darebbero appena trent'anni ed egli è nato nel 1844: e sempre trent'anni gli si daranno, quanti gliene davano gli amici che lo portavano nel 1876 candidato alle elezioni politiche. Una volta si atteggiava a romantico, forse sospettando di non dispiacere alle signore. Ora ha smesso l'atteggiamento, si muove e parla con naturalezza, e solo – residuo dell'antico Torelli – ha di quando in quando delle protezioni calme e sicure da autore.
Vive in disparte, frequenta poco i teatri, pochissimo le conversazioni, si diletta della compagnia di pochi amici, studia e lima. Appoggio non ne cerca altrimenti, forse perchè questa sorta di ricerche son sempre piene di spine e di pericoli. Mostrava e diceva testè di non voler tornare al teatro. Ma, si suol dire, chi ha bevuto, berrà. Ed ora vi torna con una Margravia, una Scrollina, una Gisella, una Rosellana, lavori maturati e dettati nella solitudine. È un po' meno l'uomo di prima, ed è sempre lo stesso artista.