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– Con questo caratterino sottile? ci perderò gli occhi e la testa. Preferisco di leggervi stampata.
– Che volete! – mi rispose – non so scrivere altrimenti; ho bisogno della bella carta, della buona penna, dell'inchiostro nero.... e son miope, come vedete dalle mie lenti.
– E dal vostro scritto. Chiaro, preciso, sottile, eguale, una maraviglia: si vede bene che lo guardate molto da vicino, e ve lo accarezzate amorosamente. Le stesse cancellature sono artistiche. E quel libriccino, scusate?
– Ah, no, lasciate stare! sono i titoli delle mie novelle.
– Per non dimenticarli, capite. Il titolo mi fa rammentare del soggetto, ne scelgo uno, lo cancello, scrivo il racconto, lo mando al giornale.
– Sicchè si tratta di racconti da scrivere.... E sono?... vediamo un po'.
Sfogliai il libriccino e rimasi a bocca aperta.
– Vi sorprende? – mi domandò ridendo, e squadrandomi con la sua lente.
– Sono, se ho contato bene, ottantacinque titoli....
– Precisamente.
– Di ottantacinque novelle.
– Che voi scriverete.
– Se non vi dispiace.
E vedendo ch'io taceva, guardando un po' lei un po' il libriccino, mi si avvicinò di un passo, mi fissò con una mezz'aria d'impertinenza e mi apostrofò napoletanamente:
– Embè!
– Il che vuol dire – notai dopo un poco girando il libretto fra le mani e mettendo nella mia osservazione una punta di sarcasmo, quasi dispettoso di quella ricchezza d'argomenti che insultava superbamente alla sterilità che mi affliggeva da qualche giorno – il che vuol dire che voi avete tutto apparecchiato, predisposto, stabilito, classificato, e che per scrivere non dovete far altro che....
– Scrivere.
– Non volevo dir questo propriamente. Volevo dir copiare.... Domando scusa.... (ella aveva fatto un certo atto come di risentimento).... voglio dire che quel vostro caratterino parrebbe di copia più che di originale. Copiate, s'intende, dalla vostra testa, dal vostro cervello così fecondo.... così invidiabilmente fecondo.... e non vi aspetta, dirò così, l'inaspettato.
Non dicevo tutto il mio pensiero. Lo dico adesso. La Serao non scrive d'impeto, non si abbandona, non si lascia trascinare, sa dove mette le mani e non dà un passo che non sappia dove metterà il passo seguente.
Lo dico adesso, ma ella mi capì a volo, perchè si fece un po' triste, e mi disse subito con una specie di dispettoso orgoglio:
– Già, dicono che non ho cuore. Ed è vero, non ne ho. Purchè mi leggano!
E commentò la frase con un'alzata di spalle.
Il suo, si vedeva chiaro, era un affettato cinismo.
Sapeva bene che da molti suoi scritti, checchè ne pensassi io, checchè altri ne dicesse, si rileva il contrario. C'è, per esempio, il Cuore infermo, una specie di romanzo, che è naturalmente tutto cuore da un capo all'altro, benchè ci sia dentro dell'analisi minuta e fastidiosa. Credete forse che il cuore non analizzi? ci sono tante delle sue novelle, che il sentimento solo ha saputo inspirare, e lo si sente serpeggiare tra frase e frase, tra una riga e l'altra. Si atteggia a napoletanismo. In conversazione, dove spesso le accade di essere oggetto di curiosità e di adulazione o d'incontrarsi in altre donne che per naturale rivalità vogliono far pompa di spirito e di scelte frasi, ella scappa fuori ad un tratto a parlare in dialetto. Così pure succede quando qualche giovanotto provinciale le fa omaggio di uno di quei complimenti rifritti, che io chiamo «di Avellino». (Sarebbe troppo lungo spiegare al lettore il perchè di questa definizione. Gli basti sapere che ad Avellino c'è una strada principale dove il giorno si va a passeggio. Due amici s'incontrano, si salutano. Arrivati in fondo tornano indietro, s'incontrano una seconda volta. «E di nuovo» dicono insieme. Rifanno la stessa via, voltano, eccoli da capo che si passano vicini. «E di nuovo nuovamente» e così fino all'ultimo della passeggiata.) Per esempio, uno le dice in atto di stupida ammirazione: «Come scrivete bene!». Un altro: «Piacere ed onore di aver fatto la conoscenza di una delle prime scrittrici d'Italia». Una sera, a teatro, uno di questi giovani, vedendola insolitamente raccolta e pensosa, le domandò: «A che pensa, signorina?» e pendeva, sorridendo, dalle labbra di lei. Ella rispose, dissimulando uno sbadiglio: «Penso che ho una gran fame».
Tutto questo sa un po' di posa. Come si fa a non posare un pochino quando tutti stanno intorno a guardarvi e quando si è donna, per quanto si possa scrivere come un uomo.... che scriva bene? Piace l'ammirazione, anche sprezzata; piace quel mormorio che si desta al solo mostrarci; piace che ci si guardi di sottecchi e si bisbiglino parole di lode o maligne insinuazioni. In pubblico, voi la vedete e la udite. Gira intorno gli occhi, e poichè è miope, gli stringe; si aiuta con la lente, vi squadra, si muove, ride, parla ad alta voce. La gente si volta, osserva. Chi è? La Serao. Quella che scrive nel Piccolo? L'autrice di Raccolta Minima? Dello studio Dal Vero? La Serao, già, proprio lei. Così giovane? Che cosa scrive adesso? Perchè fa tanto chiasso?
Tante ragioni eccellenti di vanità. È donna, è giovane.... è scrittrice, anzi come si diceva di Caterina Benincasa, è scrittore. Il caratterino è di donna, ma c'è nella sostanza dello scritto un carattere, una sodezza, un proposito, una serietà assolutamente maschili.
E poichè quel caratterino m'avea dato nell'occhio, e la posa non mi traeva in inganno, mi corressi subito soggiungendo:
– Non lo dico io, come lo dicono, che non abbiate cuore. Ne hanno gli scritti vostri. Dico invece che da questi scritti, prima che siano stampati, si vede la vostra cura dell'analisi, la diligenza nel disegnare e nel colorire, la preoccupazione che l'opera delle vostre mani venga in mezzo al pubblico linda, aggiustata, per tutti i versi artistica ed anche un poco fiamminga.... per quanto sia ritratta dal vero.
– Forse avete ragione.
– In parte sì; perchè non c'è dubbio che, meno in due o tre casi, quando ve ne siete salita nel fantastico....
– Non vi piace il fantastico?
– .... meno in quei casi lì, voi siete verista fino allo scrupolo.
– Nel senso ottimo. Cercate la verità onesta, bella, presentabile....
– In altri termini l'impossibile.
– E quando non la trovate, l'inventate.
– Già, da invenire –– mi pare che sia lo stesso.
– Bravissima, ma vi prevengo che se caschiamo nel latino non c'intenderemo più. Parliamo come voi scrivete.
– Italiano?
– Così così.... Prego, prego, non dico per offendere.... Lo sapete che sono un po' pedante. Non si tratta che di qualche neo; e i nei sono precisamente delle belle donne.
– Di Avellino?
– Vi domando scusa. Non ci cascherò più. Mi pare invece che scriviate egregiamente, come pochi in Italia sanno scrivere, con evidenza, spontaneità, grazia, vigoria, colorito, delicatezza....
– Ma? ma? sentiamo il ma!
– Non c'è ma. Dico che la cosa è tanto più ammirevole in quanto non siete italiana.
– Come se lo fossi, perchè son venuta bambina in Italia.
– Ed avete conservato, della vostra Grecia, il sentimento artistico della bellezza.
– Anche vostra madre era greca.
– Era una Bonnely, discendente dai principi Scanavy che dettero imperatori a Trebisonda; ed è a lei che debbo quel tanto che ho imparato, a lei che m'insegnava molto mentre io studiavo poco.
In effetto la Serao ha più letto che studiato; ma spesso, come accade a tutti gl'ingegni pronti, la lettura le valeva di studio. Un suo primo racconto, Opale, manifestazione spontanea – troppo ingenuamente spontanea – di un ingegno fresco e potente, levò un certo rumore. Non aveva allora che diciassette anni. Il De Zerbi scrisse di lei con entusiasmo, la volle conoscere, le offrì di collaborare nel suo Piccolo. Via via, allargandosi la fama, si estese il campo del suo lavoro, e molti giornali in Italia si contesero il pregio di pubblicare articoli o novelle o bozzetti che portassero il nome della giovane e valorosa scrittrice.
Articoli, novelle, bozzetti....
– Quand'è – le domandai – che ci darete più Cuori infermi.... corretti e meno bozzetti?
Era un ultimo strale che le scagliavo; perchè vi sono in effetto alcune sue novelle brevi e succose che valgono un libro, che fanno pensare, che educano, che commuovono, come molti libri non fanno. Dall'altra parte, chi non sa che in Italia la letteratura piccola, profumatamente pagata, affoga la letteratura grossa? Chi non sa che il più forte romanziere contemporaneo, il Dickens, fu per molto tempo il Boz degli articoletti e degli Sketches? chi non sa che Mark Twain è un bozzettista, e che Bret Harte è caduto malamente nel tentare il romanzo? chi non sa che fra i romanzieri italiani....
Ebbene, lascio nella penna il resto della frase, tanto più che si tratta qui di una scrittrice italo-greca, che – a parte i confronti maschili e femminili – ha preso un posto eminente nella letteratura italiana.
Altre notizie. La Serao è figlia di Francesco Serao, esule napoletano – è di Patrasso – venne a Napoli nel 1860 – visse come tutte le bambine vivono fino all'età di dodici anni – a dodici anni cominciò a studiare – studiò poco – scrisse – tornò a studiare – è una letterata, senza essere un bas-bleu o una précieuse, e senza aver rinunziato alla sua qualità di donna. Legge giornali, scrive romanzi, non parteggia per l'emancipazione, non va nei meetings, difende la monarchia nello Stato e nella casa, dà un occhio alla cucina, scrive la nota della lavandaia e non si mangia le unghie.