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IL SOTTOSCRITTO
Giovinetto, a Chieti, me n'andavo tutte le mattine sotto gli alberi di S. Andrea, e lì appoggiato ad un tronco o seduto sul margine della via, leggevo Il paradiso perduto di Milton, traduzione di Lazzaro Papi. Questo solo mi ricordo, con quest'altra particolarità di poco momento, che delle cose lette non capivo niente. Così di lì a qualche tempo, a Lecce, me n'andavo a passeggiare pei viali del camposanto, me ne tornavo triste e raccolto, non rispondevo ai saluti dei contadini che scontravo per via, ed entrando tutto conturbato in camera dell'amico Salvatore Troya (un poeta di provincia lungo, secco, leopardiano, disperato sempre, sempre in punto di morte, – ed ora pretore di non so che mandamento) gli dicevo, spiccando dalla parete una sua frusta: «Frustami a sangue, ho bisogno di stordirmi!». Qualche volta, benedetto lui e la sua poesia, egli la prendeva sul serio, e mi frustava di santa ragione e mi guardava tutto ammirato e con le lagrime che gli scorrevano di sotto gli occhiali.
Perchè facessi questo, non lo so che adesso, guardando la cosa di lontano e forse rimpiangendo quel tempo. Andavo in camposanto come leggevo Milton; e le tombe e i versi del poeta inglese mi dicevano precisamente lo stesso. Capivo poco o nulla. La gente faceva le maraviglie della precoce intelligenza: mi lodava della serietà e dello studio; aspettava da me grandi cose. Io mi compiacevo dentro di me dell'ammirazione. Mi compiacevo ed assumevo arie più profonde ed afflitte.
Ci credeva un po' anch'io a quelle grandi cose di là da venire, e non avea il tempo nè la voglia di ricredermi. Ma il fatto è che posavo, come si suol dire, maledettamente.
Adesso invece non poso più; anzi, a pensarci bene, mi pare qualche volta di posare a non posare. Credo di poter vedere ogni cosa nella sua vera luce, perfino me stesso, senza che mi faccia velo nessuna sorta di passione. È anche probabile che un residuo dell'antica vanità mi faccia dentro ancora da lievito; altrimenti non si potrebbe spiegare perchè piglio la penna e mi credo degno di farmi vedere in pubblico pretendendo che il pubblico si interessi in qualche modo alla cosa.
Allora, come dopo, – diciamolo qui a quattr'occhi con questo buon pubblico col quale ho acquistato oramai una certa dimestichezza, – non ho frequentato con molto amore la scuola, nè con quella assiduità premurosa che la gente mi attribuiva. Imparavo qualche cosa e, per verità, con molta prontezza d'ingegno: alla quale prontezza mi affidavo poi per non imparare altro. Questo destino benigno e curioso mi ha sempre accompagnato. Mi ricordo, saranno un quindici anni all'incirca, trovandomi a Firenze, tutte le volte che mi accadeva in conversazione di accostarmi a due persone che parlassero francese, subito tacevano per una certa soggezione. Dicevano tutti, parlando di me: «Come conosce il francese! l'avete mai inteso discorrere? una maraviglia!». Il fatto è che nessuno m'aveva inteso, e che se oggi il francese lo conosco benissimo, allora non poteva azzeccare due sole parole senza dire tre spropositi. La stessa buona reputazione mi circondava pel mio sapere in genere. A scuola i compagni si facevano rivedere gli scritti, e un po' mi ammiravano, un po' mi invidiavano. E intanto mi accadde un giorno, dovendo descrivere una eruzione del Vesuvio che non avevo mai vista ma che il maestro ci aveva letta nel Puoti, mi accadde di scrivere con calore tutto scolaresco, che «il Vesuvio dall'ignivoma bocca gettava stromboli», figurandomi che stromboli, una parola che suonava così bene, fosse il plurale di strombolo, masso infocato proprio dei vulcani. Avevo cercato la parola nel vocabolario e non l'aveva trovata. Era chiaro che il vocabolario avea torto.
Non vorrei si credesse che oggi le cose stiano allo stesso modo. Strombolo non mi accade più di scriverlo, e mentre non sono un pozzo di scienza, è anche certo che la gente non mi fa l'onore di tenermi per pozzo. Delle lodi me ne vengono, e con le lodi anche gli attacchi; e c'è del vero e del buono nelle une e negli altri. Uno studio saltuario e svariato non poteva educar molto bene un ingegno che presumeva molto del fatto suo. A scuola, come allora usava, non si studiavano tutte quelle migliaia di cose che oggi il provvido governo pretende dai giovani negli esami; ed io supplivo al difetto studiando per conto mio lingue orientali e costruendo con mirabile pazienza e precisione figurine trigonometriche. La matematica era per me una passione, e con la matematica la poesia; scrivevo versi con facilità straordinaria, versi che poi nessuno fortunatamente ha letto, e nessuno leggerà mai. In seguito, uno studio più assodato e regolato non doveva naturalmente profittarmi gran fatto. Arrivavo stanco e con ritardo.
Da questo che dico non si deve mica argomentare che la mia modestia sia grande. Credo di poter dire le cose come stanno, e mi tengo un po', benchè non lo dimostri, del mio spirito. Se mi si domanda: «Conoscete l'inglese?» – rispondo: «Benissimo». Perchè nascondere la verità? In quanto a spirito, soglio dire: «Pare che io n'abbia; è divenuta così rara la verità che a sentirla dire voi la pigliate per una cosa nuova e spiritosa».
Ho incominciato tardi a scrivere per le stampe. Feci le mie prime armi a Salerno. Due anni prima avevo tentato le scene con un Marito e moglie che doveva riformare da cima a fondo il teatro italiano e non riformò niente. Il pubblico applaudì, e quegli applausi mi fecero paura. Distrussi una Gente di spirito in tre atti, e regalai all'amico Galderoni una Fanciulla di buon umore in cinque. Misurai con una sola occhiata tutta l'altezza della montagna, e me ne tornai tranquillamente al mio ufficio d'impiegato governativo con lo stipendio di lire 77 e cent. 33. Fu allora che mi si mandò a Salerno e mi si affidò nientemeno che il «servizio demaniale». Ho ragione di credere di non aver reso grandi servigi in quel servizio. Dopo due mesi stampai un giornale, l'Osservatore; e non sapendo con precisione come i giornali si facessero, lo scrivevo tutto da me, articolo, corrispondenza, cronaca, appendice, varietà, sciarada e via discorrendo. Nessuno lo lesse. In capo a due mesi contavo la bellezza di tredici abbonati.
Tornai a Napoli senza denari, con un debito di un migliaio di lire contratto con lo stampatore, e con una novella, Amore sbendato, nella quale raccontava con gran fuoco certi casi della mia vita estranei affatto al servizio demaniale.
Abbrevio, perchè non fo una storia. Mi presentai con lo scartafaccio al De Zerbi, del quale aveva inteso tanto a parlare. Lo pregai che me lo pubblicasse. Mi disse: «Non abbiamo tempo di leggere manoscritti» e mi congedò. Andai alla Patria, vi trovai ospitalità in grazia di Raffaele De Cesare a cui piacque il racconto. Pagai lo stampatore di Salerno guadagnando al lotto per il primo di quei due casi maravigliosi che m'hanno imposto la fede nel miracolo – un'apparizione e una risurrezione – e che racconterò forse un'altra volta. Diventai di botto e nel punto stesso un grande autore ed un gran signore. Avevo scritto una novella e possedevo cinquecento lire.
La mia fortuna mi parve fatta. Diedi le mie dimissioni da impiegato; fui accettato cronista nell'Unità Nazionale, diretta dal Bonghi; ne fui congedato dopo dieci giorni per «poca capacità»: scrissi per lo stesso giornale Nebbie germaniche, entrai nel Giornale di Napoli a far da critico drammatico con lo stipendio di quattordici lire mensuali. Dopo quattro mesi fui promosso cronista a lire 75, dopo un anno mi trovai direttore, senza averlo domandato, e credendo veramente troppo superiore l'ufficio alle mie forze.
Fu anche in quel tempo che entrai a far parte della redazione del Fanfulla e mi battezzai per Picche non so più per qual motivo.
Ho scritto dopo d'allora e scrivo sempre articoli di critica letteraria ed artistica; novelle, corrispondenze.... e profili. Scrivo con rapidità maravigliosa e in mezzo alla gente, perchè da solo mi piglierebbe la noia e il malumore, e della rapidità si vedono spesso in quel che scrivo i difetti. Non credo di avere più scritto novelle, che per valore e colore possano sostenere il paragone di quelle prime: ho tentato il romanzo, ma con poca fortuna. Non dispero già di me stesso, e credo un giorno o l'altro di potere far meglio. Le mie critiche si risentono spesso della disposizione momentanea dell'umore molto variabile: ingiuste di proposito non sono mai, ma così nella lode come nel biasimo eccedono qualche volta, e mi procurano ammiratori devoti e nemici accaniti.
Nello scrivere come nel parlare ho una certa tendenza al paradosso; credo però di saperla contenere molto bene. Parlo come scrivo, con la medesima rapidità, quando parlo; ma non mi piacciono i lunghi discorsi, come mi annoiano i lunghi articoli. Ho modi cortesi e perfino umili, quando l'umore me lo permette; e quando no, mi si giudica superbo e intrattabile. Per far buona figura, mi piace far dello spirito: ma detesto i doppi sensi e i giuochi di parole con la stessa cordialità con cui detesto le raccolte di autografi. Lavoro con assiduità, sono un buon giuocatore di scacchi; correttore di stampe eccellente, e infingardo scrittore di lettere. Mi maraviglio volentieri, godo della lode tributata altrui, mi levo tutte le mattine alle otto, e di sera ho paura delle carrozze.