Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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RICORDI GIORNALISTICI

RICORDO DI UN COLLABORATORE DI DUMAS A NAPOLI

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RICORDI GIORNALISTICI

RICORDO
DI UN COLLABORATORE
DI DUMAS A NAPOLI

Al tempo che si lavorava insieme nel Corriere, il Parise soleva ripetere ad ogni poco con un senso d'invidiosa ammirazione: – Beato voi, che siete stato amico del Dumas! – Questa invidiata amicizia non era vera per niente, ma io lasciavo correre ed anzi, lo confesso francamente, me ne tenevo. Che male in fondo ci poteva essere che la gente credesse? Non ero io ad affermarlo. Questo piccolo sotterfugio casuistico mi metteva in regola con la coscienza. Dopo tanto tempo, possiamo dire come stessero le cose. Sì, avevo conosciuto Alessandro Dumas père, il che non significa che avessi fatto con lui conoscenza, o in altri termini che egli, il gran romanziere psicologo (l'avreste mai immaginato? eppure così proprio lo definisce Cesare Cantù nel secondo volume della sua Storia della Letteratura italiana! Avevo ragione io di dire che più di una volta le storie sono storielle!), non vuol dire, ripeto, che il gran romanziere conoscesse me. Tutt'altro, il m'ignorait. Arrivava nell'ufficio dell'Indipendente, giornale da lui fondato nel 1860, pochi giorni dopo arrivato in Napoli al seguito di Garibaldi, domandava il numero del giorno precedente, dava una rapida occhiata alle due appendici di prima e di seconda pagina, e diceva risoluto: C'est bien! Poi col cappello fra le mani, congiunte dietro la schiena, si dava a passeggiar su e giù nella camera di redazione e a voce alta, staccando bene le parole, dettava la continuazione di Luisa Sanfelice, e di Monsieur de Chamblay. Qualche volta, se gli avanzava tempo, aggiungeva un capitolo alla sua Storia dei Borboni. Io lo guardavo a bocca aperta e mi compiacevo che quello fosse per me un esercizio di francese. Don Peppino Barone scriveva sotto dettatura, riserbandosi poi di tradurre a comodo in un suo italiano.... che corrispondeva a capello al titolo del giornale.

Chi era don Peppino Barone? È presto detto. Anche lui una gran barba prolissa, nera però come l'inchiostro, e che avrebbe fatto un'impressione di terribilità brigantesca, se non ne fosse scaturita una voce in falsetto che pareva quella di un bambino. Da semplice e modesto correttore dell'Indipendente era stato assunto alla carica di redattore, il quale, in processo di tempo, si trasformò a dirittura in direttore, quando Alessandro Dumas piantò baracca e burattini per non so che bega cavalleresca tra lui e vari rappresentanti del patriziato napoletano. Don Peppino, sia per la barba imponente, sia per la dettatura, si teneva per un talentaccio; e quando si accorse che il giornale, cadutogli nelle mani, precipitava a rotta di collo, ne accusò i lettori di pessimo gusto e s'ingegnò di amicarseli promettendo un premio di quaranta volumi di romanzi: inutile dire che ogni volume non era più voluminoso di un abecedario. Quanto agli articoli di fondo, don Peppino li tagliava dai giornali di cambio, li rimpastava, gl'incollava e il giuoco era fatto. Con tutto questo l'Indipendente sprofondò e lo stesso don Peppino disparve, come per acqua cupa cosa grave, come tanti altri umili ed ignoti lavoratori della stampa. Noto qui di passata (del resto la cosa importa poco e potrei benissimo passarla sotto silenzio) che nell'Indipendente io scrivevo dei così detti Corrieri mondani, firmandoli Baronessa Brrr, i quali Corrieri erano la più scempia cosa che sia mai venuta alla luce. Facevo alla chetichella le mie prime armi. Nessuno lo sapeva ed io stesso non ci pensavo più, anzi me n'ero scordato. Si capisce che il mio amico Alessandro Dumas non solo non li leggeva, ma ignorava perfino la loro esistenza e quella del loro autore. Era da parte sua una nera ingratitudine; perchè io, al contrario, raccoglievo religiosamente le puntate della sua Storia dei Borboni, pubblicate giorno per giorno e diffuse al prezzo di tre grana (12 centesimi) la puntata. Oggi non le ho più e me ne dolgo. I bibliofili ne vanno in cerca e pagherebbero quella storia un occhio del capo. Ma che storia, Dio mio!

A proposito di storie, mi scordavo qui del meglio, cioè della storia del leone. L'aneddoto è quanto di più gustoso possa offrire la tragedia.

Da Alessandro Dumas al direttorato di don Peppino Barone trascorsero vari mesi d'interregno D'Ajout. Il D'Ajout era un francese, amico del gran romanziere, e che per , trascurando altre sue faccende, ne pigliò il posto. In che consistessero codeste faccende, non so commerciali, industriali, politiche, letterarie, mondane, non so, ripeto. So invece del suo classico arrivo a Napoli, che tanto volentieri egli contava e ricontava: in un francese che non tardò a napoletanizzarsi. Veniva direttamente dall'Algeria e portava con un bel cane giallognolo col suo collare chiodato e la sua brava catena. Poteva passare per un mastino spurio. Ma il fatto è, come si seppe dopo, che quel cane era una leonessa. Uscito dalla stazione, montò il D'Ajout in una carrozzella insieme col suo cane, e ordinò al cocchiere di pigliar la via di Posillipo. A Posillipo, in una villa D'Ajout (che da un pezzo ha cambiato di padrone), abitava già da un anno un suo fratello ammogliato. La carrozzella si avvia per S. Biagio dei Librai; sbocca in piazza del Gesù, e di a Toledo per infilar Ghiaia, la Riviera, ecc. Il lungo tragitto, o i sobbalzi della vettura, o la folla, o le grida, o altro che fosse, non andavano a genio, si vede, a uno dei due passeggieri, e precisamente al quadrupede, il quale di tanto in tanto, come per distrarsi, addentava la giacca dell'automedonte e tirava. Questi una e due volte sogguardò al forestiero, e per non disgustarselo non aprì bocca, sperando che il cane si stancasse di quel lavoro. Ma la speranza fu vana. La bestia addentava e tirava sempre più forte. Alla fine, scappatagli la pazienza, il cocchiere si voltò a mezzo sulla cassetta.

Signò! –– chiamò, toccandosi il berretto.

Qu'est-ce que c'est? – domandò il D'Ajout, riscuotendosi.

Signò, facite sta cuiete 'o cane.

Cane? che cane? questo essere lion.

Lione? – gridò esterrefatto il cocchiere, saltando a terra e scappando via come una saetta. Credo, Dio mi perdoni, che scappi ancora!

La leonessa fu accolta e allogata nella villa D'Ajout. Spesso il padrone si divertiva a spaventare i suoi visitatori, specialmente se importuni. Annunziati, fatti passare in salotto, adagiatisi in una poltrona, aspettavano. Di botto, cigolava una porta. Alzavano gli occhi; la porta era spinta, si apriva, ed ecco si vedevano venire addosso la belva.... Figurarsi la scena! La leonessa, ordinariamente, era tenuta in giardino. Accadde un giorno che il cancello di questo era aperto, e che essa, stanca forse della prigionia, uscì sulla via e se n'andò, un passo dopo l'altro verso il tempio protestante di non so che rito. Era una Domenica e battevano le undici del mattino. Il tempio era affollato di devote misses e il clergyman solennemente officiava. La leonessa, non meno solennemente, entrò. Accadde il finimondo o poco meno. Disparvero, come un pugno di polvere sotto il soffio del vento, il clergyman e le misses.

Il giorno appresso – notate bene la successione e la gradazione – il giorno appresso, visita del clergyman al D'Ajout e preghiera di tenere alla catena la belva.

L'altro giorno successivo, protesta del Consolato britannico.

Il terzo, avvertimento della polizia perchè il D'Ajout cerchi possibilmente di eliminare il pericoloso animale.

Il quarto, le pratiche continuano e tirano in lungo. Si scrivono lettere e note e controlettere, debitamente protocollate.

Il quinto, la povera leonessa fu trovata morta. Attraverso il cancello del giardino, una mano ignota le aveva gettato una polpetta di carne.

Il clergyman era vendicato....

Ma tutto questo non ha niente da fare col giornalismo, epperò sia come non detto.


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