Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
Lettura del testo

RICORDI GIORNALISTICI

MARTINO CAFIERO E ROBERTO BRACCO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

MARTINO CAFIERO
E ROBERTO BRACCO

Si discorreva del duello avvenuto la mattina tra Martino Cafiero e il marchese di Pascarola, l'uno direttore del Corriere del Mattino, l'altro della Gazzetta di Napoli.

«Qui, a Napoli, siete tutti spadaccini: tutti, meno Cafiero. Eppure Cafiero è il più spadaccino di tutti» mi disse Felice Cavallotti sul palcoscenico del teatro Fiorentini, mentre il secondo atto del suo Agatodemon trionfava fra gli scrosci di battimani e le grida incomposte delle cravatte rosse. Questo delle cravatte rosse era un modo allora in uso per manifestare la simpatia e il caloroso consenso alle idee avanzate del drammaturgo. Il rosso rappresentava il caldo, e la letteratura non ci aveva che vedere. Piccionaia e platea fiammeggiavano, e guai a chi avesse osato emettere un'opinione di altro colore! Il meno che gli poteva toccare era di essere subissato di fischi o accoppato manescamente.

Cavallotti aveva ragione, ed io mi servo della sua definizione per ritrarre Cafiero con una pennellata maestra. Fioriva in quel tempo la famosa scuola dei fratelli Parise. Le sale di scherma sonavano di oh, ah, para, toccato! A non saper maneggiare una spada, si era squalificati. Per un niente si scendeva sul terreno. E per un niente Martino Cafiero si era battuto col piccolo marchese. Il Pascarola si presentava candidato al Consiglio comunale, con più costanza che probabilità di riuscita. Aveva contro di l'antipatia, che spesso a Napoli tien luogo di raziocinio. Cafiero, obbedendo alla sua prepotente vena satirica, aveva scritto di lui nel Corriere «Il minuscolo marchese si ripresenta per la ennesima volta, con la fiduciosa divisa del pàppece2: Damme tiempe che te spertoso». Fatto sta che lo spertusato fu proprio il marchese. La spada del Cafiero gli entrò per due pollici nell'avambraccio. Cafiero feriva sempre. Non sapeva di scherma, impugnava la spada o la sciabola come una mazza, si teneva ritto senza scendere in guardia, era così miope da non vedere l'avversario.... eppure non c'era caso che fallisse il colpo. Accettava una sfida, sorridendo di compiacenza. Andava sul terreno sicuro del fatto suo. Non già, che fosse un tagliacantoni: tutt'altro.

Rideva di , dell'avversario, del duello stesso che gli pareva un giuoco. Spesso e volentieri provocava, ma per semplice diletto. Andava per le bocche di tutti la chiusa di un suo sonetto contro Giovanni Florenzano, autore dei famigerati versi a proposito dei Polacchi:

Oggi siam fatti scheletri
ed insepolto ossame;
forse sarem cadaveri
con l'alba che verrà!

La chiusa del sonetto diceva:

E, contro la grammatica tiranna
tu vinci un'altra delle tue battaglie.

Non si venne però alle armi: il dissidio tra il giornalista e il poeta (futuro deputato) fu composto, e Florenzano non ebbe spertusata la pelle dalla spada infallibile. Che segreto era quello che dava al Cafiero l'invulnerabilità di Achille e la sicurezza della vittoria?... Lo stesso segreto che lo faceva conquistatore irresistibile di donne. Due erano allora a Napoli i conquistatori: Martino Cafiero e il principe di Melissano: il bruttissimo Melissano, che era stato misterioso testimone del notturno duello tra lo Stettler e il principe di Teora, e che poco tempo dopo, a Parigi, si sparò una pistolettata nella tempia. Quel tragico scontro, per chi nol sappia, fu più che altro un duplice assassinio. La sera del 4 maggio 1872, vigilia della grande eruzione del Vesuvio, il Teora, uscendo dal teatro insieme col Melissano, si avviò a casa, si trovò alla Riviera di Chiaia di faccia allo Stettler, gli si avventò con lo stocco sguainato, lo passò da parte a parte, mentre nel punto stesso lo Stettler, fulmineo, estraeva un pugnale, ne vibrava a caso un colpo e lo conficcava nell'occhio destro dell'assalitore. Morirono tutti e due. Delicate ragioni di onore avevano fatto scoppiare la tragedia. E dire che la mattina stessa, al Vomero, il Teora aveva inaugurato il Circolo dell'allegria!.. Spaventosa ironia della sorte!

Cafiero dunque, per tornare in carreggiata, aveva comune col Melissano il fascino amoroso, e nemmeno lui era un Adone. In che consistesse codesto fascino non si può dire: non già nell'ingegno, perchè quanto a questo, l'uno e l'altro stavano ai due poli. Forse nella bruttezza? nell'audacia? nel cinismo? nella fama stessa che li diceva irresistibili? Non è facile risolvere un quesito così sottilmente psicologico. Certo è che le più schive, le più inaccessibili per altezza di grado e per severità di costumi, cadevano. A pensarci bene, il secreto del Melissano era semplicemente nell'improntitudine. Pel Cafiero la cosa era alquanto più complicata. Non solo il duello era per lui un giuoco, ma anche la vita, e con la vita l'amore. È forse da credere che l'anima femminile...? Lasciamo andare l'indegno sospetto.... Con le donne egli si mostrava abbagliato dal fulgore della bellezza: gli serviva in questo la naturale miopia che gli faceva stringere gli occhi. Dava loro lo spirito che non avevano. Era sempre ammiratore, adoratore, carezzevole, condiscendente, serpentino, e più di tutto le stimava: una stima che confinava con la più profonda reverenza. Ne coglieva ogni parola e l'approvava con un sorriso che appena appena traluceva dai baffi. Possedeva uno spirito fine, elegante, uno spirito coi guanti, se si potesse dire. La coltura, la conoscenza del mondo, il senso artistico, tutto in lui concorreva ad un solo scopo, tutto s'inchinava ad un solo idolo: la donna. Quello spirito era spesso tagliente, caustico, fino alla crudeltà, senza punto perdere della sua vernice elegante, e dava un sapore speciale alla prosa così del novelliere e allo stile del polemista, tanto più pungente quanto meno mostrava di voler pungere.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . 

Il Cafiero dunque mi si accostò, e di punto in bianco mi fece i suoi rallegramenti e le più sperticate lodi sui brillantissimi profili che io andavo pubblicando nel Corriere letterario della Domenica. Avevo scritto del De Sanctis, del Duca Proto di Maddaloni e di Rocco De Zerbi. I profili facevano veramente un vero rumore, specialmente l'ultimo, che era più che mordace per chi allora teneva a Napoli lo scettro del giornalismo.

Dopo le lodi, il Cafiero mi parlò di lettere, di poesia, di teatro, della Manon Lescaut, delle prefazioni di Dumas figlio e finalmente del proprietario del Corriere del Mattino, che mi aveva invitato a compilare la pagina letteraria quotidiana. Egli, Cafiero, confermava l'invito e se ne dichiarava lietissimo. Mi circuì, m'irretì, mi conquistò, e di a pochi giorni ci trovammo a lavorare insieme alla stessa tavola, intorno alla quale sedevano, facendo stridere le penne, Perrelli, Filangieri, Licata, Caputo, Misasi e, ultimo di tutti in ordine di tempolast not leastRoberto Bracco.... al quale ho chiesto invano una sua fotografia vivente per dare un po' di tono a queste chiacchiere di cose morte.

Non cominciai a fotografarmi (egli mi ha scritto) che a ventuno, a ventidue anni. All'epoca in cui fui preso da Cafiero come reporter ne avevo 17 o 18. Ricordate? La mia inesperienza in ogni ramo della vita sociale e la mia ignoranza (sino allora ero stato un piccolo scapestrato, sedicente apprendista presso i f.lli Buonaconto, spedizionieri) passavano i limiti del verosimile. Cafiero si affaticava a spiegarmi che cosa fosse un giornale e che cosa fosse la vita, e voi correggevate le mie primissime pappardelle togliendone non tutti, ma i più grossi errori di grammatica, mentre Perrelli mi faceva correre per la città in cerca di notizie. E così.… fu scritto il mio destino.

E, in sostanza, di quel tempo non ricordo altro.

Cioè no!... Ricordo un altro particolare il mio stipendio era di.... 17 lire mensili.

....Sono davvero addolorato, Verdinois mio, maestro mio, di non potervi essere utile. D'altronde è proprio necessaria la mia fotografia? Ed è proprio necessario parlare di me?

Vi abbraccio e vi stringo le mani teneramente.

Vostrissimo Roberto Bracco.

È giusto. Non è necessario parlar di lui, visto che di lui parlano a gran voce le sue commedie. Ma dove sarebbe il gran male che un superstite del passato, grave di anni ma non invecchiato di cuore, discorra alla buona dell'antico giovane compagno, che ha scoperto nell'arte il segreto dell'eterna giovinezza?





2 Pàppece = tarlo.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License