Federigo Verdinois
Profili letterari e ricordi giornalistici
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RICORDI GIORNALISTICI

PERCHÈ TRADUSSI IL «QUO VADIS?»

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PERCHÈ TRADUSSI IL «QUO VADIS

Non c'è brava persona a questo mondo, che non abbia in fondo all'anima, più o meno nascosto, un chicco di cattiveria. L'osservazione non è nuova, ma è vera. A momenti, quando meno ve l'aspettate, quel chicco, fermenta, scoppia, rampolla, mette fuori un fiorellino giallognolo che ha un sottile profumo di tossico. Sottile ed innocuo. Bisogna sapere prima di tutto che io fui sempre, e sono tuttora, un appassionato giocatore di scacchi, e mi tengo un po' di conoscer bene il giuoco. Debolezza perdonabile.... e perdonata. Credevo anche di conoscere il russo, che avevo studiato da me: ma su questo correvano vaghi sospetti, benchè poi la conoscenza d'una lingua non sia l'invenzione della polvere. I giornali umoristici, anche dopo ch'ebbi preso ad insegnar russo e ruteno nell'Istituto Orientale di Napoli, seguitarono a canzonarmi quale emerito traduttore dal francese. Basta: una sera, gironzando per Chiaia, m'imbatto nell'amico Nocito, il quale m'investe, mi prende a braccetto, mi trascina. Nocito è un buontempone; è amico intimo di tutti: si strugge pei fatti miei.

– Vieni – dice – ti faccio fare una conoscenza numero uno.

Grazie.... con chi?

– Tu, mi pare, giochi a scacchi?

Diamine!

Bravo, me ne scordavo.... Un nuovo Morphy....

– E si chiama?

– Non lo so.... Cioè lo so, ma non mi riesce di dirne il nome.... Te lo dirà da . Viene tutte le sere al caffè Diodati in piazza Dante, dove siamo tutta una compagnia: letterati, artisti, avvocati, giornalisti, studenti, fannulloni.... Io, naturalmente, appartengo a questi ultimi. Si parla un po' di tutto e in tutte le lingue: una vera torre di Babele. Con lui io parlo francese.

– Con chi?

– Col Russo.

– Ah! il tuo giocatore è russo?

Sicuro.... Non te l'avevo detto? Ma tu il russo lo sai.... lo dicono almeno.... e ti farà piacere di parlarlo con un figlio autentico della steppa…. –

Così discorrendo, si entra in caffè, e Nocito mi tira, mi spinge, mi fa largo, mi mette faccia a faccia con un giovane, magro, pallido, biondiccio. Fa la presentazione: si volta intorno con un sorrisetto di soddisfazione; annunzia alla brigata che sentiranno bestemmiare in russo. Tutti tacciono ed aspettano, e poichè io non aprivo bocca, l'amico Nocito siede, si accende un toscano e ne aspira il fumo con voluttà.

Così fu che feci la conoscenza di Ivan Ivanovic Scerscenowski. A scacchi non si giocò, tanto questi fu lieto di poter parlare la propria lingua, di ritrovare, qui a Napoli, un cantuccio di patria. Parlava rapido, concitato, m'incalzava di domande, gli lucevano gli occhi. Qualcuno fra gli astanti osservò sogghignando che il russo è una lingua selvaggia. Nocito smise di fumare, perchè questi benedetti toscani non tirano.

Gogol, Turghieniev, Dostoiewski, Tolstoi, Lermontov, Potapenko, Nadson, e via, e via, si passarono in rivista varie generazioni letterarie, a spizzico, alla rinfusa. Di botto Scerscenowski mi fa:

– E di Sienkiewicz che dite?

– Di chi?

– Di Sienkiewicz.

– Non lo conosco.

Possibile?

– Come vi dico.... Che cosa ha scritto? Liriche? drammi? poemi? critica?

–Ma no, ma no! È un romanziere di polso, un artista di prim'ordine, il restauratore del romanzo storico.... Basta dire che ha scritto il Quo Vadis?.

– In latino?

– No, in polacco...

– O Dio!

– Già, perchè Enrico Sienkiewicz è polacco, ma, tutte le sue opere sono state voltate in russo, e stupisco davvero come mai voi in Italia non ne sappiate niente. Tanto più che il contenuto del Quo Vadis? è essenzialmente italiano, romano voglio dire, benchè poi abbia un carattere universale, di tutti i luoghi e di tutti i tempi.

– Non capisco.

Fate di leggere il libro e capirete. Anzi, ne son certo, vi verrà voglia di tradurlo. Sarà un successo strepitoso, ve lo garantisco: una rivelazione. –

Promisi di occuparmene, ma non ci pensai più che tanto. Negli entusiasmi del mio novello amico non avevo una fede smisurata; e poi commettere un libro in Russia è una cosa, riceverlo è un'altra, spedirne il prezzo non si poteva per vaglia, e in somma il tutto insieme costituiva una bella seccatura. Ero contento di aver conosciuto Scerscenowski, e più di tutto – l'ho da dire? – mi solleticava piacevolmente il ricordo di quel toscano che non tirava. Piccolezze, d'accordo. Ma la vita non è, ch'io sappia, un banchetto luculliano; senza dire che assai più degli intingoli prelibati son gustose qualche volta le sbriciolature.

Qui viene lo straordinario.

Come ho detto, non pensavo più al romanzo polacco, e il giorno appresso, poco prima delle tre (delle quindici, come adesso si dice), mi trovavo nel salotto orientale di madame Sofia Nosvikov, una delle donne più intelligenti, colte, semplici, ch'io abbia conosciuto. Basta dire che ad una conferenza non avea mai assistito. In casa di lei, le intellettuali di professione diventavano sopportabili e perfino piacenti. Si discorreva alla buona e saltuariamente del più e del meno: notizie correnti, drammetti di società, teatro, concerti, giornali, e a momenti ci entrava anche un pizzico di letteratura. Madame Novikov era una causeuse impareggiabile…. Era.... Quanta tristezza in queste tre lettere.... e quante volte ci accade di ripeterle, voltandoci indietro!

Sapete? –, mi dice mescendomi il –, abbiamo oggi del nuovo per voi.

– Sì?... mi pare infatti più aromatico del solito. È di carovana?

Beninteso. Il navigato non val nulla.... Ma io non parlo del .

– No?

– No. Guardate costì sul divano, proprio accanto a voi.

Vedo, vedo.... Stampe, libri, riviste, figurini.... Oh! –.

Un grido mi sfuggì e la mia interlocutrice diè un balzo.

– Ch'è stato?... vi siete scottato la lingua?

– Che è questo? – e così dicendo prendevo in mano uno dei volumi russi non ancora sfogliati.

– Non so.... un libro, come vedete. Gli ho appena ricevuti.

Quo Vadis?!

– Che dite

Dico che è una cosa incredibile, strabiliante, inesplicabile....

– Difatti, nemmeno io capisco. Un titolo sibillino.... Quo Vadis?... Che significa?

Dove vai.... Il fatto è che io ne ho parlato ieri sera, e a lungo anche.... Quando poi si dice la telepatia.... E volevo anzi scrivere in Russia, o anche a Varsavia.... cioè non volevo....

– Volevate avere il libro? Prendetelo. Me ne direte poi qualche cosa. Dev'essere un libro noioso.... Un titolo latino, figurarsi! –.

Presi il libro, tornai a casa, lo lessi in una notte, lo divorai, fui invaso da una smania che altri provasse il mio diletto, la commozione, l'entusiasmo. Si sa che le emozioni si raddoppiano, quando son divise. Non accade lo stesso del danaro, pur troppo.

Volli voltare il libro in italiano, al più presto possibile, sul tamburo, alla svelta, e offrirlo all'ammirazione del pubblico.

Ma come? dove?

L'impresa non era agevole. Del Corriere di Napoli non conoscevo di persona il proprietario – il compianto Matteo Schilizzi – che tutti conoscevano. E poi mi figuravo, non so perchè, di non essere in odore di santità presso i valorosi scrittori di quel foglio.

C'era però il Mattino. Mi avvio tutto fiducioso, monto rapido le scale, entro negli uffici di redazione, vi trovo Matilde Serao. Come non trovarla? Era difficile dire quando la Serao non fosse in ufficio e non lavorasse. La sua giornata avea più di 24 ore. Un miracolo di operosità, il moto perpetuo, turbinoso, fecondo, di tutte le facoltà della mente.

– Un romanzo? – mi fa l'illustre scrittrice, stringendo gli occhi e sbirciandomi con le lenti, dopo che le ebbi accennato al motivo della mia visita. – Un romanzo per le appendici del Mattino? Ne abbiamo una valanga, caro voi.... Non si sa dove dar di capo e dove metter le mani.... Tutti scrivono, tutti imbrattano carta.... Dovunque il guardo io giro.... Un romanzo, avete detto? Vostro?

Dio liberi! Non mi sarei mai permesso....

– E di chi?

– Di Sienkiewicz.

– Come avete detto?

– Di Sienkiewicz.

– Oh! oh! che nome curioso! E chi è?

– Un grande scrittore polacco.

Uhm! sarà benissimo.... E voi avete intenzione di tradurlo dal polacco?

– No, dal russo.

– E che dice, su per giù, il romanzo?

– Ma.... vedete, si tratta di un problema storico della massima importanza.... Delle ragioni intime psicologiche, sociali (la Serao stringeva le labbra e crollava il capo, accompagnando le mie parole con un battere impaziente delle lenti d'oro sulla scrivania), delle ragioni, dico, per cui si compì il più grandioso miracolo.... non m'interrompete, prego.... cioè che il potentissimo fra gl'imperi si sfasciasse al suono d'una parola, e che un esercito di straccioni disarmati, di vecchi, di donne, di bambini, sgominasse le invitte legioni romane, non già ammazzando ma facendosi ammazzare.

Bellissimo! – esclamò la Serao traendo un sospiro di sollievo. – Ma sapete, caro Verdinois, che tra il pianterreno di un giornale e il pergamo c'è una certa differenza?

– D'accordo. Ma qui c'è anche l'intreccio, l'amore, il dramma, l'urto delle passioni....

Va bene, va bene.... Ma chi sono i personaggi?

C'è Nerone, Poppea, Petronio....

Tigellino, Burro, Seneca, Agrippina, Germanico.... capisco, capisco...

– .... san Pietro, san Paolo....

– Ah, ah, ah! – e la Serao diè in una delle sue risate squillanti e caratteristiche. – Dev'esser divertente davvero! Anche quel pover'omo di san Pietro? Ah, ah! E credete che il pubblico s'interessi a coteste storie?

Credo? Ne son sicuro invece.

– Ed io no. Caro amico mio, mi rincresce, mi addolora, ma pur troppo, come dice la canzone, avete sbagliato 'o palazzo.

– E se ne parlassi a Scarfoglio?

– Non serve. Scarfoglio non si occupa di romanzi –.

Me ne andai disanimato. Tornai a casa, vi trovai mio zio e gli narrai l'aneddoto.

Mio zio Gaetano de Montaud veniva tutti i giorni e si giocava insieme agli scacchi. Era un uomo singolare. In vita sua non gli era mai accaduto di mutar casacca. Devoto ai Borboni, professore di matematiche dei fratelli di Francesco II, avea seguito a Pau la Corte decaduta, n'era tornato, non s'occupava più di politica. Era parco di parole. Aveva un cuor d'oro e un carattere di ferro. Pensava con la testa propria, cosa rara. Tanto poco curavasi dell'occhio del così detto mondo, che negli ultimi anni, di pieno giorno, se ne veniva da me in giubba, come se andasse a veglia.

– È un abito come un altro – diceva. – Peccato farlo tarlare –.

Ci attaccammo, come al solito, agli scacchi, e in meno di niente io fui ignominiosamente battuto.

– Si vedenotò zio Gaetano – che sei di cattivo umore. Poco male. A tutto c'è rimedio. Stampalo tu il romanzo.

– Io?... Io non ho giornale.

Stampalo in volume, per tuo conto.

– Il guaio è.... voi, si capisce, non avete pratica di queste cose.... il guaio è che per stamparlo ci vogliono danari....

– E che tu non ne hai. Quanto ci vuole?

– Non so.

Informati. Pago io –.

Più che di corsa scappai dal Giannini, il tipografo, gli mostrai il volume, contammo i fogli, scegliemmo i tipi, discutemmo dei prezzi.

Il giorno dopo, mio zio arriva prima del solito. Era più impaziente di me.

– Quanto ci vuole?

Giannini non recede dalle 27 al foglio, tra caratteri, composizione, consumo, carta, rilegatura....

Abbrevia. Quanto in tutto?

Duemila lire –.

Era una enormità, perchè in fin dei conti, diceva lo zio, non si trattava che di un romanzo. Non se ne fece nulla, ed io mi vidi rovinar davanti il mio secondo castello.

Avevo rinunziato al progetto, quando, due mesi dopo, entrando nel palazzo Gravina dove ha sede l'ufficio postale – anche qui diamo un tuffo nello straordinario, ma il fatto è com'io lo dico e non vi aggiungo tolgo sillabaentrando dunque nel palazzo Gravina, una voce cupa, cavernosa, mi grida alle spalle:

Quo Vadis? –.

Mi volto in tronco, tutto d'un pezzo, come sotto lo scatto d'una molla.

Era l'autore della Festa del Purim, il filosofo, il galantuomo insigne, Giovanni Bovio.

Professore! voi?.... Come, voi sapete?...

– No, epperò te lo domando. Dove vai?

– Ah, capisco.... Vado all'ufficio delle raccomandate.

– Cento di questi giorni. Ma che è che non ti si legge più? Non scrivi?

Scrivo poco. Non ho nulla da dire, nulla di nuovo, intendo....

Nihil sub sole novum. Hai lasciato il giornalismo?

Scusate, professore, la cosa non è esatta. È il giornalismo che ha lasciato me.

– Eppure sul Corriere scrivono tutti.

– Io no, per esempio. Credo che non mi ci vogliano.

Credi male. Entra nel Corriere e scrivi.

– Che cosa? Sapete che di politica non capisco un'acca.

Beato te! Scrivi di lettere, di teatri, di quadri, pubblica un'appendice....

– Un'appendice? avete detto un'appendice?

– Che maraviglia.... Hai già stampato la Piccola Dorrit, il Circolo Pickwick, non so che altro.... Buona roba però, mi raccomando, e che abbia del contenuto. Messo t'ho davanti, ora per te ti ciba.... Vale! –.

Mi strinse la mano, sorrise nella barba, e si allontanò gravemente. L'idea era luminosa. Perchè no? che paure eran queste? Scrissi subito allo Schilizzi, offrendogli il romanzo.

Fui invitato ad un colloquio. Tornai a spiegare per filo e per segno la tela, a colorir le scene, a far risaltare i caratteri, a enumerare i personaggi. Lo Schilizzi mi ascoltava composto, corretto, condiscendente. Quando arrivai a san Pietro, mi parve che un sorriso gli sfiorasse le labbra sottili. Ma era forse una mia impressione. Il romanzo fu accettato, a condizione però…. di gratuita concessione.

Ne fui entusiasmato fino ad un certo punto. La condizione onerosa la dovevo evidentemente al principe degli apostoli.

Cominciò la pubblicazione nel febbraio del 1897. Dopo una decina di giorni, il pubblico non sapea che pensare. Dopo venti, si domandava turbato: – Ma che è questo? –. La solita storia.... Après Agésilas, hélas!... Après Semiramis, holà!

Mario Giobbe, squisita tempra d'artista, non si dava pace. Consumava allora il suo limpido ingegno nella manipolazione dei Mosconi del Corriere.

Verdinois –, mi dice una sera, mentre io attendevo alla correzione delle bozze, – voi siete spiritista?

– Sì e no.

– E credete alla reincarnazione delle anime, come nella teoria di Allan Kardec?

– No.

– Ebbene, non importa. Io dico e sostengo che Sienkiewicz è uno spirito romano dei tempi neroniani, reincarnato –.

I giornali in genere perdevano la tramontana. Nel Don Marzio, l'amico Maroni rilevò che il romanzo «toccava la corda sensibile delle serve». La Tribuna si domandò: «Chi è questo Sienkiewicz il cui nome somiglia a uno sternuto?». Il Mattino se la pigliò direttamente col traduttore e stampò: «Verdinois, dove vai.... co 'o ciuccio?». E altre piacevolezze simiglianti.

Il Corriere intanto andava a ruba, e una ressa di lettori impazienti ne aspettava l'uscita presso l'officina delle macchine in piazza della Borsa.

Una mattina ricevo due lettere. Schilizzi m'invitava a passare dopo mezzogiorno per la redazione. Bovio mi scriveva:

Amico, mi preme vedervi. Vi attendo domani prima delle nove. Il lavoro non consente sedere in piuma o sotto coltre....

Vado da Schilizzi. Mi accoglie affabile, ma con un certo imbarazzo.

– Il Corriere –, mi dice di primo acchito, – ha triplicato il tiraggio.... Lo sapevate! In tutti i modi, ve ne informo io.... E questo si deve all'appendice –.

M'inchinai modestamente, come se l'appendice l'avessi fatta io.

– Per mio conto –, proseguì lo Schilizzi, – come proprietario del giornale, non saprei accettare, a titolo di dono grazioso un lavoro, che.... una cooperazione.... un beneficio, voglio dire, per voi oneroso.

– Ma le pare! prego....

– E ho pensato di attestarvi la mia riconoscenza, di assegnare il giusto valore all'opera vostra, pregandovi di gradire un piccolo.... fiore –.

Un fiore?... Era tanto di guadagnato. Lo Schilizzi delicatamente mi porgeva una busta, con una timidezza virginea, quasi scusandosi. La presi, l'aprii, conteneva un biglietto di mille lire.

Ringraziai con effusione, riposi il fiore nel portafoglio e me n'andai da Bovio, senza aspettare la mattina appresso.

Bovio mi accolse a braccia aperte. Saputo del mio arrivo, mi venne incontro fin presso alla sua Repubblica di gesso, sotto la quale era scritto: Il mio sogno di domani. Vivea volentieri nella regione dei sogni, come tutti coloro cui fastidisce la realtà; ma i suoi sogni non disturbavano mai nessuno si mutavano mai in delirio di febbricitante.

Bravo, bravo! –, mi disse. – Hai anticipato. Sentivo il bisogno di stringerti la mano e di dirti grazie. Grazie dal fondo del cuore!

Tocca a me invece, professore.... Non intendo.... A che titolo ringraziarmi, voi?

Adagio.... Ringraziarti e.... rimproverarti.

Intendo anche meno.... Di che?

– Della simulazione.

Simulazione? io!

– Tu, per l'appunto. È una seconda di cambio alla Stecchetti, epperò non ha il pregio della novità. Potevi del resto sceglier meglio; trattandosi di cristianesimo, ci voleva almeno un pseudonimo più cristiano: Sienkiewicz!

Professore, vi giuro.

Zitto! non spergiurare.... Magnifico lavoro! c'è movimento, dramma, perfetta ricostruzione del mondo antico....

– Ma, professore, di grazia, date retta. Ecco qua (e così dicendo mi frugavo in tasca) una lettera del Sienckiewicz eccone un'altra, con la quale accompagna l'invio del testo polacco; ecco ancora una lettera del Negri, da Milano....

– Come c'entra il Negri?

C'entra benissimo. Dice, bontà sua, di dovere a me la conoscenza di questo nuovo scrittore.... che non è nuovo dopo tutto.... e che lo dichiarerà chiaro e tondo in principio di uno studio critico in corso di stampa.

– Vuol dire dunque (Bovio si lisciava il pizzo e con voce più cupa parlava quasi a se stesso) vuol dire che cotesto Sienkiewicz esiste.

Esiste, professore, niente di più certo.

Davvero?.... per Jovem lapidem?

Davvero.

– In tal caso, lascia che te lo dica, la tua traduzione è un testo –.

Ringraziai commosso. Ma egli, non contento d'avermelo detto, me lo scrisse in una lettera, vibrata e succosa come un epitaffio, e stampò la lettera.

E questo è tutto, tralasciando volentieri altri aneddoti troppo personali, fra i quali più di tutto mi commosse di gratitudine l'incoraggiamento non sollecitato di un'augusta donna. A Guglielmo Verdinois, allora aiutante di campo del compianto re Umberto, si degnò ella di dire un giorno: «Scriva a suo cugino che qui tutti leggiamo i Quo Vadis?». E di quella lusinghiera approvazione serbo ora gelosamente e religiosamente il ritratto di Colei che, la pronunciava. La traduzione intanto arrivava in fondo, metà condotta sulla versione russa, metà sul testo polacco.

Qui comincia poi la ressa degli editori. Tutti volevano stampare: un vero mercato. Il Detken la vinse, e la sua libreria in piazza Plebiscito fu letteralmente assediata dalla folla ansiosa di coloro che si prenotavano. Poi vennero fuori altre ed altre traduzioni, e poi una lite di proprietà letteraria tra il Detken e un editore milanese, nella quale un giurì di periti decise – senza interrogarmi – che io «avevo tradotto dall'inglese». Proprio allora io pubblicavo, anche nel Corriere, il Faraone del Glowacki, non ancora voltato in altra lingua europea.... E anche in quei giorni il Sienkiewicz mi mandava il manoscritto della sua novella Sull'Olimpo, scrivendomi: «Desidero che veda prima la luce in italiano». Ed io stampai lettera e novella in un giornale di Roma, diretto dall'arguto e infaticabile Saraceno e dalla illustre Febea.

Al giurì, naturalmente, non risposi. I pettegolezzi non mi piacciono.

***

Non è qui fuor di luogo accennare alla «bionda creatura di sogno e ai due angioletti, che fanno lieta la vita del traduttore del Quo Vadis?...» Uno scrittore polacco, il Wokulski, ebbe la peregrina idea di darmi moglie e di vedermi felicitato da due bambini.

Il fatto andò così. Due o tre mesi dopo la pubblicazione del romanzo, un certo giorno, rientrando a casa, mi vedo raggiunto su per le scale da un signore magro e biondiccio, che mi declina il suo nome, si scusa di essere importuno e mi domanda un'intervista. Il signore è di Varsavia e laggiù, dice, non si parla che di me. Tutti i giornali, soggiunge, pubblicano il tuo ritratto. (In polacco, per chi nol sappia, si del tu sempre ed a tutti). Confuso, solleticato, mi affretto ad aprire la porta di casa; mi frugo in tasca per le chiavi e mi accorgo, con un senso di dispetto e di mortificazione, di aver dimenticato di prenderle nell'uscire. per , non sapendo come risolvermi, prego il cortese visitatore di montare con me al piano di sopra. Qui abitava l'ingegnere Fonseca, che aveva sposato una mia cugina. Busso, mi si apre, entro; introduco il signore biondiccio in salotto, e si prende insieme a discorrere del più e del meno, e non so più di che. Il signore biondiccio cava di tasca un taccuino e piglia appunti. Ad un tratto, una porta del salotto s'apre a mezzo e una testa curiosa si sporge, guarda, ride, sparisce. È mia cugina, che ha inteso le nostre voci e gli strani suoni di una lingua che deve esserle sembrata diabolica. Il signore biondiccio alza gli occhi, osserva, scrive, richiude il taccuino e si accomiata. Mi aveva intanto proposto, dicendosi a ciò delegato dall'autore, la traduzione del Solis occasu, dell'Usque et ultra e di altri romanzi dell'Jenske Choinski. (Li tradussi infatti, li pubblicai pei tipi dell'editore Jovene di Napoli, e l'anno appresso ebbi la visita dello stesso Jenske Choinski). Qualche tempo dopo, ricevo da Varsavia il Corriere di Varsavia con un'appendice, dedicata alla mia umile persona e alla creatura di sogno. Lo scrittore immaginoso, più che dire delle mie idee sulla letteratura polacca, si occupava della mia felicità domestica, dandomi una perla di moglie e descrivendomi come il modello dei mariti. Quanto ai due angioletti che allietavano la mia vita, ce li aveva aggiunti di capo suo. Era evidentemente un romanziere. Mia cugina – che è veramente una perla di donna – non ha mai avuto figli. Et voilà comm'on écrit l'histoire!


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