IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
RICORDI GIORNALISTICI D'ANNUNZIO SOTTO UN DIVANO | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Chi era la Polozov? come l'avevo conosciuta?
Presentatore era stato il cav. Caracciolo di Capriglia, da lei sollecitato perchè le facesse fare la mia conoscenza. Il cav. Caracciolo era un originale, impiegato alla Dogana, che studiava tutte le lingue senza parlarne nessuna. Vestito sempre di nero, sciattato, arruffato, sudicio, stralunato, col cappello sulla nuca, girava per le vie con in mano un libro russo o inglese o ebraico, e gesticolava, brontolava, leggeva forte, mentre il lungo soprabito gli svolazzava dietro la persona magra e sbilenca. Spesso e volentieri i monelli lo facevano segno agli sberleffi o a qualche proiettile inoffensivo, ma gli era come se avessero tirato a un uomo di legno. Non dava un crollo.
Il cav. Caracciolo mi condusse un giorno a Torre del Greco, all'Hotel Santa Teresa, posto a capo del così detto Miglio d'oro. Un vero incanto di aria salubre, di luce viva, di giardini fioriti, di ville ridenti. Madama Polozov era a table d'hôte. Una folla di commensali villeggianti, fra i quali la giovanissima signorina Labriola, non ancora professoressa, ma già notevole per l'intelligenza libera e aperta e per lo spirito pronto e virile. La Polozov emergeva su tutti, diritta sul busto, alta la testa, labbra sottili e sarcastiche, occhi vivaci, capelli che davano più al grigio che al biondo. Aveva un tempo dovuto esser bella. Andava orgogliosa, come seppi dopo, di aver soccorso i feriti e i morenti sui campi insanguinati di Bulgaria e di essere stata compagna della bellissima P. V. immortalata dal Turghiénev nella 19a delle sue Poesie in prosa. Era decorata della medaglia d'oro al valore. Lontana dalla Russia fin da quando aveva lasciato l'ortodossia pel cattolicismo, era riuscita con la prontezza che è propria dei Russi a parlar discretamente la lingua del sì. Mi accolse con ogni dimostrazione di cortesia e mi disse subito perchè aveva voluto conoscermi. Intendeva tenere delle conferenze sulla divinità e la dottrina del Cristo; le aveva scritte; desiderava che io vi dessi un'occhiata e ne ripulissi, se mai, l'italiano. Oltre a questo, avrei dovuto suggerirle un buon maestro di declamazione. Consentii alla revisione e per maestro le proposi il buon Maroccelli, col quale infatti si esercitò e dopo una ventina di lezioni iniziò la serie delle sue conferenze.
Una di queste sollevò un putiferio. che mai l'eguale, in quell'ampia sala dei Nobili al vico Nilo, dove un tempo il Fioretti aveva dettato le sue lezioni di Diritto romano alla numerosa scolaresca. Si era ventilato che la conferenziera avrebbe parlato di Giordano Bruno. Tutta la scolaresca s'era dato convegno e non uno avea voluto mancare all'invito.
Le prime battute di aspetto passarono lisce, solo qua e là commentate da qualche lieve mormorio, foriero di burrasca. Ma quando la conferenziera, citando un giudizio del Fiorentino, si lasciò scappar di bocca la frase: Giordano Bruno era un mattoide, apriti cielo! Urli, sibili, bastoni levati in alto minacciosi, seggiole rovesciate, irruzione dei più bollenti contro la pedana su cui sorgeva la cattedra, cioè un tavolino con sopra una bottiglia d'acqua, un bicchiere e le cartelle del discorso. Madama Polozov, diritta, imperturbata, sorrideva, il che esasperava peggio il pubblico giovanile, o almeno la maggior parte di esso, poichè anche gli studenti cattolici facevano parte del folto uditorio. «Basta, basta! – No, parli, lasciatela dire. – Non insultate la memoria del Grande! – Nessuno l'insulta. – Zitti voi, baciapile! – Ritiri le parole ingiuriose. – Ma son parole del Fiorentino, del filosofo. – Abbasso la filosofia! Giordano Bruno è nostro fratello! nostro sangue. – Ma che sangue, che fratello! Smettetela. – Uh, uh, uh!». Un pandemonio. La turba dei protestanti incalzava. Qualcuno era già balzato sulla pedana e stendeva le mani per strappar le cartelle e tirar giù la conferenziera. Allora il duca Gualtieri di Avarna ed io, che eravamo più vicini; la prendemmo in braccio, la sollevammo, la rapimmo, e fendendo la folla più rada verso il fondo della sala, c'inserimmo in un ballatoio, e la portammo pésolo pésolo ed in salvo fino alla casa del prof. Maroccelli, il quale abitava un quartierino nello stesso casamento. Il Contreras – consigliere comunale, liberale avanzato, che aveva viaggiato in Russia e sposato una russa – venne a pregare la Polozov di riprendere la conferenza interrotta, portandosi lui garante che nessuna dimostrazione ostile sarebbe stata fatta.
Madama Polozov declinò l'invito.
– Prasciù, prasciù! (prego, prego) – badava a ripetere il Contreras.
La Polozov tenne duro. La conferenza fu poi fatta una settimana dopo al Circolo filologico con biglietti d'invito, davanti ad un pubblico dove predominava l'elemento elegante e così detto intellettuale dell'uno e dell'altro sesso.
Dalla Polozov, che abitava un grazioso quartierino a terreno sul viale Elena, veniva quasi tutte le sere Gabriele d'Annunzio per esercitarsi nel francese, lingua, che la Polozov possedeva a perfezione. Si erano conosciuti non so più dove. Un giorno, mi ricordo, con la Polozov e la Sciablin, un'altra russa, eravamo a bere della birra sulla incantevole terrazza del Figlio di Pietro a Posillipo. Arrivò improvviso il D'Annunzio, strinse la mano alla Polozov, ed accortosi dell'altra, senza fare nè ai nè bai, le saltò addirittura addosso, le cinse con le braccia il collo e le appiccicò sulla guancia un bacio tanto fatto. Per l'onestà, della storia, va messo in sodo che la Sciablin, compiaciutissima di quello slancio, era assai più matura che acerba. Ma pel D'Annunzio, si sa, l'eterno femminino di Fausto è un dogma, ch'egli ha commentato coi fatti meglio assai che non facesse Ruggiero Bonghi con le parole: L'eterno femminino è l'idealità a cui l'uomo sempre mira e che non riesce mai ad appropriarsi tutto; è la ragione dei tipi, ecc. La Sciablin era veramente un tipo: grassa, forte, fronte bassa, occhi piccini in una faccia larga e schiacciata. La Polozov, nemmeno lei giovane, era però indulgente per le inclinazioni, chiamiamole così, giovanili. Da una scipita poesia pubblicata da un gesuita contro Vittorio Enmanuele I aveva tolto una frase e dava al D'Annunzio il nome di trionfator di talami.
– Come va il nostro trionfator di talami? –
D'Annunzio le volse un sorriso, mentre rispondeva alla Sciablin, che gli aveva domandato che poesie o articolo o romanzo avesse sul telaio o vagheggiasse in mente. Che cosa rispondesse non ricordo bene. Ho però ancora l'impressione delle parole che gli uscivano di bocca, fluide, vive, armonizzate come una musica. Che fuoco d'ingegno, che originalità di pensieri, che sapore d'italianità! Un vero e proprio Crisostomo: lo si ascoltava con rapimento e si aveva paura d'interromperlo. Da un argomento in un altro, la Polozov, che era una fervente spiritista (spiritualist, diceva lei all'inglese), venne a parlar di fenomeni, di picchi, di apparizioni, di materializzazioni, di tanti altri prodigi da lei ottenuti, presente il professor Wagner dell'Università di Mosca, allora allora arrivato a Napoli. Il Wagner, fisiologo, era conosciuto in letteratura sotto il nome di Kot Murlika (Gatto miagolante) e scriveva deliziose novelle, una delle quali io voltai in italiano e pubblicai nel Pungolo. Alla relazione di quei fatti strabilianti e veramente dell'altro mondo, D'Annunzio sorrideva incredulo. E la Polozov, per convincerlo, si fece promettere che avrebbe assistito ad una seduta, nella quale avrebbe agito da medium la famigerata Eusapia Paladino. D'Annunzio promise e domandò il permesso di condurre un suo amico romano, un certo Cantalamessa. (Non ricordo bene: può anche darsi che si chiamasse altrimenti).
Era quello il tempo delle mie polemiche col Vassallo, io scrivendo nel Corriere del Mattino, nel Picche e nel Fanfulla, lui rispondendo nel suo Caffaro. Nello stesso Caffaro, di cui ero corrispondente, più volte cercai di ribattere i suoi argomenti, ma a lui costava poca fatica mettermi a posto, facendomi segno agli strali adamantini del suo brio inesauribile. Il Checchi nel Fanfulla pigliò le mie difese con un magistrale articolo intitolato Il gran Fantasma. Ma Gandolin era irremovibile. Altre polemiche avevo con lui sostenute col vivo della voce, a Napoli, in casa dello Zanardelli magnetizzatore, e naturalmente il battuto ero sempre io, provocando la più schietta e fragorosa ilarità della signora Emma Zanardelli, che pur avendo, come si suol dire, i sette spiriti, non credeva agli spiriti. Chi doveva dire che poco tempo dopo Gandolin si dovesse convertire, divenendo uno dei più ardenti fautori dello spiritismo e sostenendo di aver parlato col suo povero figlioletto redivivo?
Ma veniamo alla seduta. Qui entriamo pari pari nel mondo dell'incredibile, e quel che successe è tal cosa che parrà inventata di sana pianta. Il lettore creda o non creda, come meglio gli torna. La sua qualunque attitudine spirituale non potrà fare, che le cose avvenute non siano avvenute. I fatti sono brutali e non domandano di essere ratificati dalla fede altrui per essere quello che sono.
La riunione era al completo fin dalle nove di sera, ma l'esperimento non cominciò che alle dieci e mezzo. La Paladino si faceva sempre aspettare. Eravamo, oltre la padrona di casa e io, il D'Annunzio col suo Cantalamessa, il povero Peppino Pessina (figlio dell'ex-ministro) con la moglie e la madre, e il professor Wagner accompagnato dalla sua vecchia signora. Il salottino era angusto con tre sole aperture: due porte e un balcone. Chiuse le due porte, chiusi gli sportelli del balcone, ci si dispose intorno ad una tavola rettangolare, si spense la lampada a gas e s'iniziò la seduta. Per un pezzo, niente: nè un movimento nè uno scricchiolio. Ad un tratto, tra me e Cantalamessa, che mi sedeva a sinistra (a destra facevo catena con D'Annunzio), si videro brillare delle luci azzurrognole, fosforiche, che parevano di fiammiferi. Parevano ed erano.
– Scusate –, disse Pessina, – se vogliamo scherzare è un conto....
– Nessuno ha scherzato – protestò il Cantalamessa.
Si riaccese il gas, si discusse, si rifece il buio, si ristabilì la catena.
Da capo le luci, questa volta accompagnate da picchi. Il Cantalamessa era incorreggibile. Si divertiva e si figurava fermamente di divertire gli altri.
L'Eusapia era su tutte le furie; la Polozov, contenendosi, dichiarò che la seduta era tolta. Ci alzammo tutti et lux facta est. Cantalamessa e D'Annunzio proclamavano la loro innocenza e ridevano pelle pelle.
– Perchè non si ritenta la prova!
– No, no, basta.
– Vi giuro che non sono stato io.... È stato lo spirito....
– Di pessima lega – mormorò fra i denti la Polozov.
Non aveva ancora pronunziato le tre parole, che dalla parete di faccia a noi – una parete liscia, unita, senza porte e senza mobili – sbucò una forma umana, una specie di gigante, si slanciò sul Cantalamessa, lo afferrò in un mazzo col D'Annunzio, e spinta e spalancata la porta alle loro spalle, gli scaraventò tutti e due come un fagotto di cenci sotto un lungo divano che era nella camera appresso.
– Gesù! aiuto! misericordia! –
Le signore erano allibite. La madre del Pessina m'era caduta addosso quasi svenuta.
Chi fosse quell'uomo, donde scaturisse, come avesse tanta forza nelle braccia, come si dileguasse sotto gli occhi esterrefatti di noi tutti, non so. Lo spieghi chi vuole. Ho già detto che questa storia avrebbe avuto l'aria di una storiella. I due malcapitati uscirono carponi di sotto al divano e tornarono verso noi altri. Non ridevano più ed erano pallidi anzi che no. L'Eusapia gongolava. La Polozov tentò di trattenere il D'Annunzio, per discutere. Ma D'Annunzio ne aveva abbastanza e si accomiatò. L'amico suo lo aspettava già sulle scale. E così la memorabile seduta si chiuse e non si pensò più di ripeterla.
«» |