Francisco de Quevedo
Vita del pitocco
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INTRODUZIONE

In una celletta del gran convento dell’Escorial solitario, da una grata della quale lo sguardo languente poteva discernere il queto chiarore delle lampade che giú nel tempio, ardevano silenziose, davanti all’altare maggiore, moriva nell’autunno del 1598, dopo quarantadue anni di regno, il tetro e bigotto Filippo II. Quel suo cuore gelido, chiuso ad ogni affetto che non fosse stato di interesse religioso, aveva esultato alla domata insurrezione dei Moreschi di Andalusía, alla gloria delle armi cristiane a Lepanto, allo sterminio degli Ugonotti nella notte di S. Bartolomeo: ora che delusione però le Fiandre calviniste, prospere nella libertà politica e religiosa, per chi aveva sognato e s’era dato tenacemente a stabilire, col piú illimitato dispotismo nel reame, il trionfo della fede cattolica in tutta l’Europa Occidentale! Moriva l’ambizioso monarca e forse ancora una volta rinascevano nel suo spirito immagini funeste e ricordi amari: era il bagliore delle fiamme che si levavano dalle ventisei navi incendiate dagli Inglesi nel porto di Cadice; era l’Invincibile armata di trenta galeoni con cinquantamila uomini vinta e distrutta dalla furia della tempesta e dagli svelti vascelli della regina Elisabetta nelle acque della Manica, che videro tramontare cosí il primato navale di Spagna, e sorgere, in suo luogo, quello d’Inghilterra; era la vittoria di Enrico IV sulla Lega e sui Ghisa con l’abiura della fede calvinista che gli aveva ridato Parigi; era infine la caduta di ogni bel sogno di dominio segnata quello stesso anno della sua morte col trattato di Vervins. Con tante sterili guerre egli aveva pur iniziato la decadenza di Spagna che, continuando piú grave sotto Filippo III e Filippo IV, sarà piena e irreparabile sotto Carlo II. La pubblica miseria diveniva ogni giorno piú tormentosa e, per la moralità, piú funesta: popolazioni intere languivano per la carestia, i campi giacevano abbandonati, nobili indebitati e queruli sollecitavano cariche e favori dai cortigiani piú potenti che li concedevano a chi piú offriva, soldati invalidi e fuori delle file davano pietoso spettacolo di sé accomunandosi ai vagabondi, ai bricconi di mestiere, poiché rimanevano inascoltati i loro queruli memoriali al re e ai favoriti del re. Eppure di tanti mali presentiti e, di quando in quando, lamentati inutilmente dalle Cortes né certo sanabili con i cervellotici rimedi dei progettisti, che pullulavano ridevolmente, non si preoccupò gran fatto la società spagnola in genere. Un folle desiderio di godimento anzi, tanto piú intenso quanto piú da presso incombeva la minaccia della rovina, parve come invasare le diverse classi sociali, allorché il nuovo giovine re Filippo III salí al trono e colla sua liberalità e munificenza riaccese le speranze di tutta una folla d’ambiziosi, d’intriganti, di spostati. Una umile cittadina di provinciaValladolidrisentí subito per cinque anni il beneficio del fasto e dello splendore regale, essendovisi da Madrid trasferita la corte nel 1601.

Attratto piú che altro dal desiderio di godere la vita in mezzo ad una società elegante e raffinata, dall’ambizione di contarvi qualcosa mercé la propria coltura, aveva raggiunto la corte un giovine ventenne allora uscito dalla università di Alcalà de Henares. Era Francesco Gómez de Quevedo y Villegas come volle chiamarsi con l’aggiunta del cognome dell’ava materna al paterno. Nato a Madrid negli ultimi di settembre del 1580 da Pedro Gómez de Quevedo e da Maria di Santibañez, vantava l’origine della famiglia, come il Cervantes, come Lope de Vega e i Calderón e i Mendoza, da quella culla della nobiltà spagnola che era la cosidetta Montagna di Burgos in provincia di Santander. Venendo alla corte, seguiva la tradizione domestica, poiché vi aveva servito per lunghi anni il padre come segretario sotto Carlo V e Filippo II, presso la quarta moglie del quale, Anna d’Austria, ebbe a conoscere donna Maria di Santibañez discendente, per parte di madre, dai Villegas che vantavano dignitari di Castiglia e di Santiago. Con le liete memorie della gaia vita studentesca, faceva ora il suo ingresso nel gran mondo, proclamato dottore, vale a dire filosofo aristotelico, dalla Facoltà delle Arti, con in piú un largo corredo di studi letterari e scientifici, liberamente seguiti, per i quali, se non esagera il suo biografo, l’abate Don Paolo Antonio di Tarsia, un italiano di Conversano, vissuto a lungo in Ispagna nel secolo XVII, conosceva bene lingue antiche e moderne, tra cui l’italiano (e della conoscenza della lingua nostra fanno fede anche due suoi sonetti in italiano), scienze esatte e naturali, diritto civile ed economico, medicina. Di larga e soda cultura sono frutto le molte opere sue per le quali il Quevedo spicca fra gli scrittori maggiori del suo tempo che è quello del Cervantes, di Lope de Vega, di Calderón e di piú altri di quel secol d’oro della letteratura spagnola. Uomo dunque di Corte, ora in grand’auge, ora in grande disgrazia, scrittore fecondo, vario, ineguale per la forma e per la materia, come quegli che trattò gravi argomenti morali, politici, religiosi e ci rappresentò piacevoli invenzioni e fantasie del suo pensiero trasmutabile e pronto ad ogni impressione, con uno spirito amaramente satirico, caustico, il Quevedo visse, in quel turbinoso e complesso periodo di tempo che comprende i regni dei tre Filippi della dinastia austriaca, vita avventurosa tanto che pare talvolta la verità velarsi della leggenda. Ad Alcalà, chiassosa per studentesca scapigliata, non farebbe maraviglia che ferisse in duello certo suo condiscepolo Don Diego Carrillo, e gravemente, dopo avergli portata via la bella; né che, in un tempo in cui il punto d’onore era tanta parte nella vita di un nobile spagnolo, ferisse pure in un duello a Madrid il capitano Rodríguez per la solita questione di precedenza circa il tener la destra negl’incontri per via; ma davvero che una notte a Madrid avrebbe affrontato lui solo e ucciso a colpi di spada, in mezzo al generale spavento, una pantera fuggitiva? Ed è certamente strano, se vero, che, miope e claudicante, con un piede ritorto in dentro, avrebbe, per quanto robusto e spadaccino famoso, pur nel vigore dei suoi ventotto anni, tenuto in iscacco al primo assalto e disarmato il grande schernitore andaluso D. Luigi Pacheco de Narváez in casa del conte de Miranda, per provare con l’arme alla mano l’infondatezza delle teorie schermistiche che quel maestro aveva allora esposte in un suo libro. Un altro duello ebbe conseguenze fatali pel suo avversario: per aver voluto, da buon cavaliere, e spagnolo, prender le parti d’una dama che neanche conosceva, freddò il brutale gentiluomo da cui l’aveva vista oltraggiare con uno schiaffo il giovedí santo del 1611 nella chiesa di San Martino. Fu la causa del dovere prudentemente lasciare Madrid e rifugiarsi per breve tempo in Sicilia, alla corte del malfamato conte d’Osuna, Pedro Téllez Girón. Ve lo ritroviamo ben presto però, nel 1613, di ritorno dai suoi possedimenti signoriali della Torre di Juan Abad nella Sierra Morena dove, disgustato del mondo avanti tempo, s’era ritirato a vita campagnola e ad attendere a scritti di pietà religiosa.

Il Quevedo dovrebbe essere conosciuto fra noi non solo perché dei piú ragguardevoli scrittori di una letteratura cosí ricca, bella e varia quale la spagnola, che ha tanti rapporti con la nostra, ma anche per la molta parte che ebbe, da uomo politico e diplomatico, nelle cose d’Italia nel tristissimo tempo della dominazione spagnola, e piú precisamente nel vicereale. Quanti sanno invece cosa scrisse ed in quali maneggi politici spiegò l’opera sua? Vissuto quasi sempre alle corti di Spagna e d’Italia, ha piú diretto interesse per noi il periodo della sua vita politica, trascorso dal 1613 al ’19 circa al servizio del duca d’Osuna il quale, atteggiandosi volentieri a protettore di letterati per il lustro che ne derivava alla sua corte, fece accoglienze oneste e liete al nobile giovine già in fama a Madrid e che il dottissimo umanista fiammingo Giusto Lipsio aveva chiamato, fin dal 1605, sia pure nell’espansione benevola d’una epistola, nientemeno che grande gloria iberica: esagerata lode che certo dovette subito e ben largamente risuonare in mezzo alla colta società madrilegna. E alla preziosa, lusinghiera amicizia di cui si vedeva degnato dall’ambizioso viceré, il Quevedo corrispose con pronta voglia di assecondarne sempre le mire e i desideri, e anche con fedele affetto, non avendo punto esitato di adoperarsi, pur con suo danno, per rialzarne le sorti quando, dopo la congiura del Bedmar a Venezia, il potente duca cadde in disgrazia a Madrid col tramonto del duca di Lerma finito cardinale per ripiego e del marchese di Siete Iglesias, finito tanto peggio piú tardi sul patibolo, sotto Filippo IV, per i tanti delitti di cui gli fu mossa accusa. Subito nel 1613 ebbe dal d’Osuna la segreta missione di recarsi a Nizza e armeggiarvi perché fosse tolta al duca di Savoia questa città, ma fece appena in tempo a fuggire e ad evitare la giusta vendetta di Carlo Emanuele I contro i mestatori. Fu il Quevedo certamente operoso e fedele politico tutto inteso a promuovere e difendere, nelle mansioni affidategli in Italia, il maggiore interesse del governo del suo re, da buon castigliano, ma fu anche, pare, in mezzo a quell’avida famelica turba di dissanguatori spagnoli, guidato il piú spesso da certo senso d’integrità e di rettitudine che ce ne fa tanto meno sgradita la figura storica quanto piú meravigliosa può sembrare, dati i tempi e le persone, la cosa. Vero è che non si fece molto scrupolo talvolta di prestarsi ad approfittare, sia pure ridendone poi disgustato, della corruttibilità dei cortigiani piú autorevoli a Madrid, in vantaggio del duca, come quando nel 1615 andò a negoziarvi, per conto di lui, a furia di danaro, la conferma a viceré e poi due anni dopo a difendervi con l’arma irresistibile di duecentomila ducati smunti, naturalmente, ai felicissimi sudditi del vicereame, la politica ambigua del suo signore fieramente osteggiata a Napoli da un partito avverso che aveva richiamato l’interessamento della corte in Ispagna. E ciò non senza utile proprio, ché la prima volta ebbe conferito dal re un benefizio ecclesiastico, in Italia, di quattrocento ducati, e la seconda una pensione mensile di duegento ducati, piú la rossa croce di cavaliere di Santiago.

Nell’opuscolo politico la «Lince de Italia» che il Quevedo scrisse l’ottobre del 1628 nella solitudine del suo secondo esilio alla Torre (se l’era tirato addosso per aver voluto troppo vivamente sostenere in una grossa questione religiosa contro le carmelitane e i gesuiti, l’unico patronato di San Giacomo sulla Spagna ad esclusione del compatronato di Santa Teresa da cui pur tenevano Filippo IV e il Conte d’Olivares) sotto forma di memoriale al re, sono ricordati e messi in vista, con lo scopo di difendersi dai molti nemici e di richiamare l’attenzione benevola del re sui meriti d’un fedele suddito, i servigi resi allo Stato in undici anni sotto Filippo III, in Sicilia, a Napoli, a Roma, a Genova, a Milano. Piú di una missione segreta però gli fallí: cosí non riuscí ad attrarre Paolo V in una lega apparentemente contro i Turchi, ma in realtà contro Venezia; cosí nel maggio del 1618 da Venezia, scopertasi la congiura del Bedmar, dovette fuggire travestito da mendicante, ben avendo dicatti che il 20 giugno seguente fosse per decreto del Consiglio dei Dieci bruciato soltanto in effigie. È di non poca importanza questo memoriale per la storia d’Italia sotto gli Spagnoli e perché ci fa meglio conoscere le vedute e i convincimenti politici dell’autore, desunti con acuto senso di statista dall’esame dei fatti, pur di mezzo al frascame di citazioni, reminiscenze e riferimenti classici, nonché dalla lunga sua esperienza di diplomatico.

Sospettoso d’ogni velleità d’indipendenza italiana e d’ingrandimento della potenza di alcun principe italiano, è naturale che i suoi strali si appuntino e contro la Republica Veneta «consigliera mascherata piú potente di quel che conveniva che fosse e meno di quello che ad intendere... piú dannosa agli amici che ai nemici... avvantaggiata delle negligenze dell’Impero e delle sventure d’Italia»; ma sopratutto contro forse il piú grande uomo politico del secolo, cioé Carlo Emanuele I «tirano de Italia» nel quale erano fondate invece le ansiose speranze di quanti sognavano il risorgimento della patria, o, come efficacemente si esprime l’avveduto scrittore, colui che «ha engastado muchas voluntades en Italia». «Egli si è presa per sé, dice, la lusinghiera esortazione che fa Nicolò Machiavelli alla fine del libro circa il tiranno, da lui detto Principe: per liberare l’Italia dai barbari fa gran calcolo delle sofisticherie del Boccalini e delle maliziose imposture della Pietra del Paragone e ha stabilito di erigersi a liberatore d’Italia, titolo difficile a conseguirsi quanto magnifico». Dovevano in verità saper di forte agrume al Quevedo tante coraggiose fantasie con cui il satirico gazzettiere marchigiano fustigò la mala signoria che cosí crudelmente, ad esempio, mortificava e strapazzava il Cavallo napoletano, già insofferente di sella o di freno e che pure ancora «giorno e notte chimereggiava» tanto che «per la sua molta magrezza se gli contano le ossa ed ha la schiena tutta impiagata»; la mala signoria che fa lacrimare nell’incontro con Almansore re dei Mori il Regno di Napoli, costretto per la rapacità dei viceré mandati a rifarsi in casa sua, per le rapine dei segretari di mille officiali ed altri cortigiani a saziare l’arrabbiata e canina voragine di tanti affamati. Né solo il Boccalini infastidisce il Quevedo, ma il suo risentimento è stizzoso contro tutta quella letteratura antispagnola ch’egli sapeva ben copiosa e come nel generale asservimento della coscienza politica italiana, dilagasse arditamente per tutta la penisola ed incoraggiasse nel duca di Savoia «questi tali propositi, delittuosi al pari che scellerati» d’essere il liberatore d’Italia; una letteratura pericolosa della quale consiglia doversi fare molto caso purché «quantunque le cose affermate siano bugiarde, tuttavia mercé l’ingenuità e la forma elegante, dando tutta l’importanza a quello che degli odiati stranieri appare al di fuori ed è bene accolto, ne viene a soffrire la verità, quando non le si oppongano». E se la prende non poco contro il Castigo essemplare de’ Calunniatori, Avviso di Parnaso di Valerio Fulvio Savoiano al Serenissimo et Invittissimo Carlo Emanuele Duca di Savoia, che fu pubblicato con la data di Antinopoli nel 1618, non solo perché scredita la monarchia spagnola e vi si parla della potenza, del valore e degli eserciti del duca come se si trattasse del re di Spagna, e quindi «con sacrilega sfacciataggine» ma anche perché, volendo essere una replica ad un Ragguaglio in ispagnolo che protesta essergli stato attribuito falsamente, prende di mira la sua persona rivelandone persino il nome e la diffama «con infinite malignità e menzogne». È per verità un generoso ardito libello questo, di cui sarebbe autore Fulvio Testi, se dobbiamo ravvisare in lui il supposto Valerio Fulvio Savoiano, e che sta a dimostrare il fatto che l’odio vivissimo del partito nazionale contro gli Spagnoli non aveva risparmiato il Quevedo, facendo velo, molto probabilmente, a un giudizio piú sereno e piú giusto. Era però naturale che una luce fosca agli occhi degli Italiani si riverberasse sullo scaltro negoziatore politico, sul congiurato contro la repubblica di Venezia, sul potente cortigiano sospetto di favorire le aspirazioni, vere o no, del d’Osuna a farsi re di Napoli, infine, come si vociferava, sul suo compiacente compagno di scandalose avventure d’amore. Mette conto, credo, riprodurre qui l’arguta pagina satirica del non comunissimo testo.

Comparse davanti al tribunale d’Apollo «due triste femine, et un vigliacco Spagnolo, perché havendosi figurato per arte magica d’essere la Regina d’Italia, la repubblica di Venezia, ed il duca di Savoia, haveano procurato con infami calunnie di denigrare la fama di quei nobilissimi Potentati» colei che s’era tramutata in Regina d’Italia, dopo molto pauroso esitare e piangere, fa confessione piena delle sue colpe. – Io sono, dice, Donna Francesca di Quevedo, naturale di Spagna. – Cominciò a ridere il giudice e le domandò come avesse avuto il titolo di Donna che solo a personaggio d’alto grado si suole concedere. Ed ella rispose: Signore, già in Ispagna non si guarda a questo, anzi si stima reputazione della Nazione nostra che la maggior parte degli uomini e delle donne si facciano credere Cavalieri e Dame con un titolo di Don e Donna, che non costa nulla. Qui raddoppiò il Giudice le risa: onde il carnefice lo guardò con mal occhio. Era parimenti costui di nazione spagnolo, di patria Castigliana, di nome Gaifero, venuto poco avanti in Parnaso a questo ufficio per non aversi trovato al mondo alcun altro che spontaneamente volesse farlo. Intese il giudice nel suo mirar torto ciò ch’ei voleva dire: e perché era faceto, a lui rivolto disse: Perché mi guardi tu bieco? pretendi tu ancora di essere chiamato don Gaifero? Ed egli: Señor, no haga v. merced burla de nuestra nación; que voto á Dios basta dezir Español, para dezir hombre valeroso, hidalgo y noble. Y hablando de mi entienda v. merced, si no lo sabe que soy hombre honrado, hidalgo de la Montaña, tan bueno como el Rey y muchos hay con el título de Don que non son mejores que yo. Si meravigliò molto il giudice di cosí stolta arroganza della gente vile di quei paesi. Ma, seguitando il suo negozio, si rivoltò a Donna Francesca, la quale, interrogata della qualità della sua persona, rispose: Io nacqui di padri assai onorati, ma poveri; onde per la povertà non potei sostenere l’onore. Nella mia gioventú fui stimata graziosa e affabile che molti signori si pigliavano gusto della mia conversazione per sentirmi a dire motti e facezie, nel che valsi assai. Con questo io mi procacciava il vitto alla giornata, andando a mangiare oggi in casa d’uno, domani d’un altro. Io non fui bella per poter servire da amica, seppi però servir molto bene per mezzana e ministra d’amore. Nell’inventar menzogne e ordire inganni sono stata sempre singolarissima. Per adornarmi di qualche virtú soprannaturale, attesi un poco di tempo all’arte magica, e particolarmente volsi sapere il modo di far andare gli uomini invisibili, e quasi altra Circe o Medea trasformare tutte le creature. Nel che compiacendo piú d’una volta agli umori piacevoli di Don Pedro di Girón Duca d’Osuna mio Signore e mio Idolo, ora in forma di Lupo, ora di Porco, ora di Tigre l’ho fatto andare nel regno di Sicilia ed in quel di Napoli, ed altre volte, mutando la sua forma in altra forma umana, l’ho saputo assomigliare ad Amurat Rais, famoso corsaro, a Maometto Gran Turco, ed a Dionisio di Siracusa tiranno. Con quest’arte m’ho appresso di lui acquistato tal grazia che ancora mi ha fatto partecipe di quei tanti beni de’ quali ha la Sicilia spogliato e Napoli va spogliando, e con l’istessa arte me stessa nella Regina d’Italia e donna Urraca e don Beltrán, che sono gli altri miei compagni presi, quella nella Repubblica di Venezia, questi nel duca di Savoia ho trasformato. Interrogata chi fosse questa donna Urraca e don Beltrán, rispose che quella era una povera giovane amica sua, che per guadagnarsi la vita tenea stanza nella casa pubblica di Madrid e don Beltrán era suo drudo. Interrogata chi l’aveva indotta a fare queste trasformazioni, rispose: che alcuni ministri principali della Serenissima monarchia di Spagna, le avevano persuaso che per l’onore della sua patria conveniva che cosí facesse; ed ella aveva indotto gli altri due, che in tutto dipendevano dalla sua mano, a seguitarla ed eseguire quanto da lei fosse loro commesso, con promessa di grandissime rimunerazioni

Ben sapeva il Quevedo di avere molti denigratori che egli ripagava a peso di carbone «Muchos dicen mal de mi y yo digo mal de muchos» cantava allegramente in certi suoi versi (Thalia, 550); ma bisogna convenire che davvero non aveva tutti i torti a dolersi senza sorridere di questo strazio che si faceva del suo nome. La sentenza di Apollo poi! una schernitrice corona di carta, un marchio con l’armi regali bollato a fuoco sulla fronte e nelle guance, duecento staffilate in pubblico per mano del boia all’uso di Spagna e la condanna perpetua a un carcere dove potesse essere esposta al ludibrio di tutti.

Un secondo e piú lungo periodo della sua vita cortigiana il Quevedo trascorse, con varia vicenda, in Ispagna, per difendere, ormai inutilmente, il D’Osuna che, tornato anche lui in patria nel ’20, perí miseramente in carcere, vittima del nuovo potentissimo favorito conte duca D’Olivares, piú re di Filippo IV fino a che non fu cacciato in esilio nel 1643: prima o poi, l’un dopo l’altro finivano tutti male questi favoriti, su cui si addensavano tante ire, tanta invidia «delle corti vizio», ma anche tante innegabili colpe suggerite e generate dallo stesso illimitato loro potere. Nocque alcun poco dapprima al Quevedo l’essersi mostrato coraggiosamente fedele al D’Osuna in disgrazia: fu accusato di complicità con lui, tanto che nel gennaio del 1622 fu allontanato da Madrid e costretto a ritirarsi nel suo feudo della Torre, per poi passare a Villanueva de los Infantes; ma fu breve il tempo di questo suo primo esilio, poiché nel marzo dell’anno dopo, cattivatasi con alcuni scritti la grazia dell’Olivares, fu richiamato a riprendere il suo posto nella fastosa vita di corte e a primeggiarvi fra gli ingegni migliori, come gliene dava pieno diritto la bella fama conquistata. E la buona fortuna gli arrise fino al 1628 quando, e per la mordacità di certi suoi scritti satirici che dettero appiglio a nemici invidiosi e per la vivace polemica contro il compatronato di S. Teresa, fu nuovamente, come s’è detto, esiliato da Madrid alla Torre, dove tornò ad attendere a gravi studi filosofici. Sulla fine dello stesso anno tuttavia, eccolo tornato in bona col re e con l’Olivares, contro l’aperta protezione del quale, grato al Quevedo per la difesa della sua politica finanziaria in quella adesso generale preoccupazione della rovina economica, si spuntavano le armi di tanti implacabili denigratori, che come Juan Pérez de Montalván e Don Luis Pacheco de Narváez insieme con altri cinque costituitisi in Tribunal de la Justa Venganza, non esitarono a denunziare, dopo fatto il processo a ciascuna, tutte le sue opere, non escluso il Buscón, all’Inquisizione, ritenendo come storia diligente e fedele il «Castigo essemplare» di Valerio Fulvio Savoiano, per quel che riguardava la moralità dell’uomo «maestro de errores, doctor en desverguenzas, licenziado en bufonerias, bachiller en suciedades, cathedrático de vicios y protodiablo entre los hombres». Se in seguito sentí scemarglisi la benevolenza della corte, non fu tanto per opera di nemici occulti e palesi, quanto per i mutati sentimenti suoi nei riguardi dell’Olivares; mutamento giustificato o, meglio anzi ravvedimento al cospetto di tanta pubblica miseria in contrasto col tanto lusso e fasto regale. Nuove e piú gravi imposte e tasse, tra cui quelle della carta bollata, non valevano a sanar tanto male; neppure l’altra della «media annata» per cui ognuno che ottenesse un pubblico ufficio era tenuto a versare la metà del primo anno di stipendio all’erario: si giunse ad espellere di Spagna gli stranieri per diminuire il consumo del pane e all’umiliante mezzo di porre alla porta delle chiese una cassetta per la elemosina allo Stato! In mezzo al pauroso silenzio di tutti si levò, con trasparenti allusioni, il Quevedo proprio contro l’Olivares, che pur pazientò finché sul finire del 1639 non lo fece arrestare in casa del duca di Medinaceli per averlo ritenuto autore di un memoriale in cui era esposta la triste politica, descritta foscamente la disperata condizione finanziaria della Spagna, e che il re sul punto di mettersi a tavola, trovò sotto la salvietta. Trasportato nottetempo a Levro, fu rinchiuso in un tetro carcere nel convento di S. Marco dove languí per tre anni e mezzo, malfermo in salute e ormai vecchio, fino alla caduta del Conte Duca. Liberato, visse poveramente, dopo una non lunga dimora a Madrid subito dopo scarcerato, tra la Torre e Villanueva de los Infantes dove morí, tutto raccolto nei pensieri religiosi, l’otto settembre 1645. Non confortò l’ultimo trapasso, piú desiderato che temuto, tenerezza di affetti domestici, ché dalla moglie, premortagli del resto nel ’42, donna Speranza de Mendoza, signora di Cetina, sposata in tarda età, nel ’34, per intromissione del duca di Medinaceli, e non, come si disse, della contessa d’Olivares, si era separato ben presto questo acre derisore del matrimonio e delle donne, pochi mesi dopo le nozze male auspicate. Tacque con la morte ogni nemica ira, e piú largamente si diffuse la meritata gloria. La quale meglio che sulle molte opere morali, politiche, religiose, storiche, filosogiche, è, almeno per noi oggi, basata sulla meno ampia, ma piú vitale produzione letteraria per la quale il Quevedo si affermò grande scrittore satirico, con i Sueños specialmente e il Buscón.

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Composto verso il 1608 e pubblicato la prima volta a Saragozza nel 1626 il Buscón si riconnette, come ultimo anello artistico, a tutta quella ricca letteratura picaresca di carattere cosí prettamente spagnolo che, apparsa ben definita nella forma della novella o romanzo col Lazarillo de Tormes (1554) continua e si svolge con Matteo Alemán, con Francesco López de Ubeda e con Vincenzo Martínez Espinel, per non citare se non i maggiori rappresentanti di questo genere che attinge vita e interesse dal profondo senso di satira appuntata ora facetamente ora amaramente contro i guasti sempre piú profondi della società spagnola, con la pittura fedele di tipi caratteristici che narrano senza falsi pudori le loro ingegnose bricconerie e che, di necessità, brulicavano nell’ambiente corrotto, in quel grande disquilibrio fra gli ordini sociali, in quello sfacelo dell’economia nazionale. Ad uno spirito osservatore ed arguto, come il Quevedo, scettico e pessimista, pronto a cogliere il ridicolo dei fatti umani, desideroso del bene pubblico, sorretto da una coscienza molto piú elevata fra la comune folla dei dirigenti la vita sociale e politica del suo paese, offriva larga materia di sdegno e di riso caustico quell’agitarsi di passioni, quel prorompere di ambizioni, quel dilagare di vizi inseparabili da una vita turbinosa, intensa, complessa, dal ritmo fervido, quale doveva pulsare nella Spagna del suo tempo.

Era la grande, varia commedia umana d’una società festosa e povera sull’orlo dell’ultima rovina, rappresentata da attori di ogni specie, d’ogni classe: vanitosi signori e avventurieri gabbamondo, tronfi fidalghi decaduti e studenti miserelli, mendicanti e bari audaci, bravacci e parassiti, ipocrite dueñas o accompagnatrici, e mariti compiacenti, saltimbanchi e guitti, preti scagnozzi e cavalieri d’industria, poeti perdigiorno e vanesi corteggiatori di monache rilassate; da tutta una folla multiforme insomma schierata dinanzi agli occhi curiosi dello spettatore, che, desideroso di una restaurazione, si sentiva dalla triste realtà mosso a generosa dissimulata ira. Cosí nacquero, satire del costume, i sueños, per naturale tendenza di spirito spagnolo, largamente attestata in maggiori e minori manifestazioni letterarie del gran secolo, sopratutto popolari, come le letrillas, le coplas, i romances, le jácaras, i bailes, oltre che per individuale disposizione artistica: cosí nacque il Buscón, al quale fin dal 1600 si era venuto via via addestrando il Quevedo e allenando con scritti satirici di minor conto, specialmente con caricature e parodie di vane prammatiche governative.

Il protagonista don Paolo è l’oscuro figlio di un barbiere di Segovia, finito sulle forche, e d’una trista fattucchiera che regolerà presto anche lei i conti con la giustizia; è insomma un pícaro, ossia un briccone della piú autentica origine, che nella forma autobiografica, caratteristica del romanzo picaresco, racconta le sue molte avventure e le sue malefatte, i rischi e i pericoli corsi da cui ha saputo sempre trarsi con buon successo grazie alla sua perspicacia, alle sue astuzie ingegnose che divertono a sentirle e suscitano un sentimento di pietosa, benevola indulgenza anche in un lettore moderno. E piú che benevolmente indulgenti, i contemporanei concedevano a questi eroi del vizio e della miseria, rappresentati dall’arte in un genere letterario che sostituiva ormai i romanzi di cavalleria, i romanzi pastorali e di avventure favolose, la loro viva simpatia. «L’eccentricità di queste esistenze, osservò Ernesto Merimée, gli avvenimenti, i contrasti drammatici che vi si succedevano piacevano ad una società che del suo passato, cosí turbolento, aveva conservato il gusto del moto e dell’attività. Tutti questi refrattari che in dispregio delle leggi, dell’ordine pubblico e delle virtú borghesi, per vivere non contavano che sulla loro industria o sulla loro audacia, sembravano aver conservato l’energia dei loro antenati e la loro passione per le avventure. Mercé l’indulgenza e la complicità del pubblico, i loro vizi prendevano apparenza di virtú, i loro delitti erano celebrati come gran fatti, e perfino nella noncuranza del loro vivere alla giornata si trovava una sorta di poesia che seduceva le immaginazioni». Se a questo si aggiunga l’efficacia della rappresentazione con cui il Quevedo ci ritrae e ci fa balzare dinanzi agli occhi della mente il suo eroe, l’originalità tutta sua della forma, ché quella della materia offerta spontaneamente dalla vita stessa patente a tutti, di una interessante classe sociale non poteva esserci; se si aggiunge il maraviglioso senso realistico da cui è guidato lo scrittore, la rapida varietà delle scene, la ricca serie dei quadri pieni di calore e di vita, la folla dei personaggi che vi si agitano, la gaiezza del racconto, inteso solo a divertire e non ad analizzare, a scrutare anime e caratteri, come oggi si richiederebbe e allora no, s’intende bene la celebrità che ebbe il romanzo. Certe pagine sono veramente di una finezza artistica insuperabile: tali la disputa fra gli esemplari genitori di don Paolo sull’avviamento da dargli, il trattamento che fa a tavola ai suoi pensionati don Capra e il ritratto di questo; tali la sosta di don Paolo e di don Diego, gl’incontri e la cena nell’osteria di Viveros, i maliziosi tiri giuocati alla padrona di casa Cipriana, al pasticciere e ai birri del Podestà, la caricatura del poetastro fanatico dei suoi versi, e del soldato millantatore incontrati durante il primo viaggio a Madrid e a Segovia, l’incontro e la conversazione, nel ritorno a Madrid, col fidalgo spiantato e suo iniziatore alla vita di pitocco, per non dire se non dei principali episodi del primo dei due libri in cui è diviso il romanzo che seguita a narrare, cosí come vengono, senza un piano prestabilito, le avventure di don Paolo nell’ambiente malsano dei pitocchi della capitale vigorosamente rappresentato come in altrettanti disegni e scene del Callot, del Velázquez, del Teniers, del Goya. Servo di don Diego e studente ad Alcalá in un primo periodo della sua vita errabonda, poi cavaliere d’industria a Madrid, finché è messo in prigione, don Paolo diviene fortunato attore e scrittore di commedie e finalmente vagheggino di una monaca; ma stuccatosi dell’inconcludenza di questo passatempo, dopo un’ultima avventura rischiosa fra la malavita di Siviglia, passa alle Indie, vale a dire in America, in cerca di miglior fortuna. E qui rimane in tronco il romanzo cosí come il Cervantes interrompe la narrazione delle gesta di Rinconete e Cortadiglio.

Del resto in libri di simile genere il racconto poteva finire comodamente quando l’autore avesse voluto, poiché era inutile tirare in lungo fino alla morte del protagonista o al suo definitivo assestamento nella vita, la serie delle avventure che, per quanto diverse, per quanto variate, avevano tuttavia un fondo comune: la sagacia, la destrezza del tristo eroe che sa sempre trarsi d’impaccio in ogni frangente. Il De Lavigne, come già il De la Geneste fin dal 1633, nel suo rimaneggiamento (Paris, 1843) anziché traduzione vera del Buscón, tanto cambiò, soppresse, aggiunse di suo e trasportò da altre opere del Quevedo – ad esempio, la lettera sulla scelta della moglie alla contessa d’Olivares – e da un un conto di Salas Barbadillo, non si fece scrupolo di completare il romanzo con altri due capitoli e un breve epilogo che finge copiato dagli Archivi della Chiesa di S. Pietro di Teruel nell’aragonese: irriverenza per noi, non per altri tempi in cui con criteri troppo diversi dai nostri era inteso il compito e lo scopo del traduttore: «Nous publions l’histoire de don Pablo pour les lecteurs d’aujourdhui et non pour ceux d’il y a deux siècles» dichiara a pag. 368; e altrove, a pag. 566, confessa apertamente che suo intendimento, nel tradurre, fu di sopprimere quanto non potesse esser letto da tutti: «le cadre est le même, le tableau seul est different»: e n’è soddisfatto.

Senza che giustifichino punto queste infedeltà di levigamenti ed accomodamenti al mutato gusto dei lettori, oggi urtano, senza dubbio, in mezzo a tanti bei pregi di rappresentazione viva, immediata di un particolare ambiente, certe crudezze e sguaiataggini e grossolanità di cui non si faceva gran caso tre secoli addietro: la sudicia beffa all’avaro mercante nella locanda di Viveros, altre anche piú sconcie fatte a don Paolo matricolino dagli studenti di Alcalá, il banchetto in casa dello zio, boia governativo, il troppo vivo realismo della prima notte nel carcere di Madrid. Né la morale corrente è sempre salva nel racconto talvolta sboccato; come pure da uno spagnolo del secolo XVII parrebbe che ci si dovesse aspettare riverenza maggiore a cose e persone religiose; ma l’autorità ecclesiastica nella stessa Spagna del seicento era molto piú tollerante di quello che verrebbe fatto di pensare: tanto vero che il Vicario generale di Saragozza Juan de Salinas dava in nome dell’arcivescovo il 2 maggio 1626 licenza al libraio Roberto Duport di stampare il Buscón, commendevole non solo per meriti intrinseci di forma e d’arte, bensí anche «par la enseñanza de las costumbres sin ofensa alguna de la religión» come aveva già giudicato il censore da lui delegato Esteban de Peralta. Era un curioso modo d’intendere la enseñanza de las costumbres, ossia l’ammaestramento morale di certi libri: crudamente realistica quanto potesse parere la pittura del vizio, si credeva che tanto piú fosse efficace a tenerne lontani gli allettamenti. Cosí Juan Ruiz, lo scapigliato arciprete de Hita del secolo XIV, pretendeva dare suggerimenti virtuosi con lo scollacciato suo «Libro de buen Amor»; cosí dovevano essere, per forza, morali la «Celestina» e la «Picara Justina».

Io ho tradotto il libro come dovevo, qual’è; di sull’ultima edizione curata e annotata da Américo Castro per la collezione della «Lectura» (Madrid, 1911). Come nelle mie precedenti traduzioni di Novelle (Bari, Laterza, 1912) e degli Intermezzi del Cervantes (Lanciano, R. Carabba, 1915) ho inteso mantenermi scrupolosamente fedele al testo e di riuscire in pari tempo a travestirlo italianamente. Altri giudichi, tenendomi conto delle troppe difficoltà che ha in sé la lingua colorita ed efficace, anche nella sua non rara trascuratezza, del Quevedo. Il quale ama di usare parole e modi presi dal volgo come dal vocabolario furbesco e ostentare certe sottigliezze e ingegnosità proprie dei cultisti e dei concettisti del suo tempo; egli, che pur fu aperto nemico del Góngora e tra i partigiani dell’antica semplicità nello scrivere, ma che pur tradusse, tanto dovette piacergliene il ridicolo preziosismo, il tanto allora celebrato romanzo – il «Romolo» del nostro Virgilio Malvezzi; che pure scrisse un numero stragrande di poesie in cui è manifesto quel mal gusto letterario, e, sotto l’influsso del libro italiano, il commentario della «Vita di Marco Bruto». Vorrei, ad ogni modo, lusingarmi d’avere il men peggio possibile reso quel suo stile bello nella sua freddezza e nelle sue slegature, a scatti, a sbalzi: tocchi possenti d’acquafortista. È questa mia la prima traduzione integrale del Buscón, poiché non può dirsi tale, oltre le solite modificazioni, soppressioni anche di lunghi brani, alterazioni dovute a necessità censorie e altre molteplici deficienze dovute a ignoranza e a mal gusto, quella di un Giov. Pietro Franco (Historia della Vita dell’Astutissimo, e Sagacissimo Buscone chiamato don Paolo) pubblicata presso Giacomo Scaglia a Venezia nel 1634; né, tanto meno, l’anonima compresa nella Bibl. Universale del Sonzogno, fatta sulla riduzione francese del de Lavigne, e sciatta quando non è stranamente errato il senso della parola e della frase. Un’altra non ho potuto avere sott’occhio: quella di un Cesare Zanucca pubblicata dallo stesso Scaglia e nello stesso anno di quella del Franco, insieme con Lo Sciocco ignorante avventurato di Girolamo de Salas (di Alonso de Salas Barbadillo, invece) tradotta dallo Spagnuolo, e di cui notizia il Quadrio in «Storia e ragione di ogni poesia», vol. VI, pag. 273. Ho aggiunto poche note che ho creduto necessarie, perché meglio possa gustare il romanzo anche chi non abbia speciale conoscenza di quell’interessante mondo spagnolo del seicento, del quale il Quevedo ci ritrae un angolo pittoresco, visto, dice il Castro, attraverso un acre e tacito pessimismo.

Alfredo Giannini.

Come desideroso, penso che tu sia o lettore, oppure, ascoltatore, (i ciechi non possono leggere) di indagare i piacevoli casi di don Paolo, caporione del vivere all’accattolica!

Qui troverai, in ogni forma di bricconata (e le piú penso che piacciano) sottigliezze, inganni, trovate e costumanze nate dall’ozio, dal vivere d’imbroglio, e potrai ricavare non poco frutto se rifletti al danno che ne consegue. Quando poi ciò tu non faccia, fa’ di trarre profitto dai ragionamenti istruttivi, giacché dubito che alcuno compri un libro scherzoso proprio per distogliersi dagli incentivi dell’indole sua corrotta.

Ma sia pur quel che tu voglia: plaudi ad esso, che ben lo merita; e qualora abbia a ridere dei casi piacevoli che contiene, loda l’ingegno di chi sa capire che piú diletta il conoscere vite di bricconi, descritte con grazia, che altre invenzioni piú profondamente pensate.

Il suo autore lo conosci; il costo del libro dal momento che l’hai in casa, non lo ignori, se pure non è che tu lo sfogli dal libraio; una cosa insopportabile per lui e che si dovrebbe abolire molto rigorosamente, poiché infatti ci sono scrocconi di libri come di colazioni e gente che dal leggere a spizzico e in varie volte trae materia di racconto, la quale poi cuce insieme. Ed è doloroso che avvenga cosí, perché questo cotale brontola, senza che il libro gli costi nulla; indolenza vergognosa e avarizia nemmeno da Cavaliere della Lesina1. Dio ti guardi da libro cattivo, da sbirri e da donna di pelo rosso, pigolona e dalla faccia di luna piena.





1 Caballero de la Tenaza, donde se hallan muchos y saludables consejos para guardar la mosca y gastar la prosa: dove, cioè, i galanti possono imparare ad essere tirati, sparagnini, rispondendo di no, con bel garbo, alle richieste delle loro belle. Ebbero queste Lettere altrettanta voga in Ispagna quanta già n’aveva avuta in Italia, per le molte edizioni, di cui una d’Orvieto del 1600, il libro Della famosissima Compagnia della Lesina ecc. che il Quevedo dovette conoscere. Un’edizione di Venezia del 1664 è intitolata: La Compagnia della Lesina et della Contralesina.



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