Francisco de Quevedo
Vita del pitocco
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STORIA DELLA VITA DEL PITOCCO CHIAMATO DON PAOLO ESEMPIO DEI VAGABONDI E SPECCHIO DEI TACCAGNI

CAPITOLO III. Come andai a pensione con Don Diego Coronel in qualità di servo.

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CAPITOLO III. Come andai a pensione con Don Diego Coronel in qualità di servo.

Stabilí pertanto Don Alfonso di mettere suo figlio a pensione e per allontanarlo dalle delicatezze della vita e per risparmiarsi pensieri. Saputo che c’era in Segovia un dottor Capra, il quale si era assunto il compito di educare figli di signori, egli mandó da lui il suo e me pure perché gli tenessi compagnia e lo servissi. La prima domenica di quaresima entrammo in balía della fame in persona, giacché quella miseria non poteva esser maggiore. Era un prete lungo come un cannone, uno spilungone ma dalla testa piccola, di pelo rosso: non occorre aggiungere altro per chi conosce il proverbio che dice: uomo rosso e cane lanuto piuttosto morto che conosciuto. Gli occhi aveva rintanati nel fondo della testa, da sembrare che guardasse dal profondo di due corbelli; tanto incavati e oscuri che parevano fatti apposta per servire da fondaci13; il naso, un che di mezzo tra Canino e San Marcello14 poiché gli era stato corroso da certe pustole prodotte da umori freddi, non da viziosità, perché queste costano quattrini. I peli della barba aveva pallidi dalla paura della vicinanza della bocca la quale, dalla gran fame, pareva minacciasse di mangiarseli. Di denti gliene mancava non so quanti e credo che dovettero essere stati mandati in esilio perché sempre in ozio e vagabondi; il gorguzzule lungo come quello di uno struzzo, con la noce tanto sporgente che sembrava andare in cerca di che mangiare, incalzata dalla necessità; le braccia risecchite, le mani ciascuna come una manciata di frasche secche. Guardato dal mezzo in giú pareva una forchetta o un compasso con quelle sue gambe lunghe e magre; incedeva teso teso, che se disordinava un po’, le ossa gli crocchiavano come le tabelle della settimana santa15.

Parlava lento, e la barba aveva lunga perché mai se la tagliava per non spendere, mentre lui diceva che era tanta la ripugnanza del sentirsi le mani del barbiere su per la faccia che piuttosto si sarebbe lasciato ammazzare che permettere una tal cosa; i capelli glieli scorciava un garzone dei suoi pensionati. Portava un berretto i giorni di bel tempo, sforacchiato tutto dai topi e guarnito di untume; si vedeva che era stato panno; il fondo era tutto un impasto di forfora. La sottana, al dir di certuni, era un miracolo, perché non si sapeva di che colore fosse. Chi, vedendola cosí spelacchiata, la riteneva per pelle di ranocchio, chi diceva ch’era un’allucinazione: da vicino pareva nera, da lontano poi quasi azzurra. La portava senza cintola; non collarepolsini; sembrava, con que’ suoi capelli lunghi e la sottana rifinita e corta, un beccamorti. Ognuna delle sue scarpe poteva essere il sepolcro di un gigante. E la sua abitazione? Non c’erano neanche ragni; faceva degli scongiuri contro i topi dalla paura che gli rosicchiassero certi seccherelli che riponeva. Aveva il letto per terra e dormiva sempre da un lato per non consumare le lenzuola; insomma era arcipovero e arcimisero.

Venni dunque in potere di costui e vi rimasi insieme con Don Diego. La sera che vi giungemmo c’indicò la nostra camera e ci fece un discorsetto che, per risparmio di tempo, abbreviò. Ci disse quel che s’aveva a fare, e in questo da fare stemmo occupati fino all’ora di mangiare. Andammo a cena; ma era uso che prima mangiassero i nostri padroni, e noi servitori li servissimo a tavola. Il refettorio era un bugigattolo dove, ad una tavola, mangiavano fino a cinque padroni. Guardai prima di tutto se c’erano gatti, e, non vedendone, domandai com’era che non ce n’era, a un pensionante anziano; il quale nella sua magrezza appunto mostrava lo speciale contrassegno di quella pensione. Ci rimase male quasi e mi disse: – «Che gatti? Ma chi v’ha detto a voi che i gatti se la dicano con i digiuni e con le penitenze? Bello grasso quale siete, si capisce che siete novizio». A questo io cominciai ad impensierirmi e piú m’impaurii quando notai che quanti convivevano nella pensione eran secchi come acciughe, con dei visi che parevano inzafardati con la pomata. Si sedette il dottor Capra e impartí la benedizione. Fu portato un brodo in certe scodelle di legno, un brodo cosí lungo che, a sorbirlo, Narciso avrebbe corso piú pericolo che alla fonte16. Con grande preoccupazione osservai che le dita risecchite dei pensionanti si gettavano a nuoto dietro un cece orfanello ed errabondo per la superficie. Ad ogni sorso Capra diceva: «Davvero che non c’è nulla che valga, si dica quel che si vuole, come la minestra maritata; tutto il resto non è che vizio e golosità». E dicendo queste parole trangugiava la sua scodella e poi aggiungeva: «Tutto questo è tanta salute e vigoria di spirito».

– «Che possa accopparti uno spirito maligno!» io dicevo tra me, allorché vidi venire un servo che era un mezzo spettro, tanto era allampanato, con in mano un piatto di carne che pareva se la fosse levata d’addosso. Venne quindi un navone miserello, e il maestro disse: «Navoni? Per me non c’è pernice che regga al confronto; mangiate, ché è uno spasso a vedervi mangiare». A ciascuno poi ripartí cosí poca carne di montone che tra quel che si appiccicò alle unghie e quel che rimase fra i denti dovette sparire, che gli stomachi dei partecipanti restarono senza comunione17. Capra stava a guardare e diceva: – «Ma mangiate; siete giovani e io mi diverto a vedere il vostro buon appetito.» (Veda un po’ vossignoria che bel contorno per gente che sbadigliava dalla fame!).

Finito di mangiare, rimasero certe croste sulla tavola e, nel piatto, dei pezzi di pelle e ossi che il padrone della pensione disse: – «Questo per i servi, che debbono mangiare anche loro: non dobbiamo voler tutto noi». – «Che ti dia male Dio e quel che hai mangiato, straccione che sei (dicevo io tra me), che hai messo a questo rischio le mie budella». Impartí la benedizione e disse: – «Su lasciamo il posto ai servi, e andate a far un po’ d’esercizio fino alle due; che non vi faccia male quel che avete mangiato». E allora io non mi potei tenere dal ridere sgangheratamente. N’ebbe stizza Capra; mi disse che imparassi ad esser composto, mi ripeté tre o quattro vecchie massime e se n’andò. Allora ci si mise a sedere noi domestici, e io che vidi che la faccenda si metteva male e che le mie budella protestavano, come quegli che ero maggiore e piú forte degli altri, presi d’assalto il piatto con tutti gli altri e trangugiai due dei tre seccherelli con una delle pelli. Gli altri presero a risentirsi; al rumore accorse Capra dicendo: «Mangiate da buoni fratelli, poichè Dio ne provvede; senza liticare, che ce n’è per tutti». Lui se ne andò al sole, noi rimanemmo soli. Assicuro vossignoria che ce n’era uno, chiamato Surre, biscaglino, cosí dimentico ormai di come e per dove si mangiasse, che una rezzolina di pane che gli toccò se la portò due volte agli occhi, né, in tre volte, riusciva ad avviarla dalle mani alla bocca. Io poi chiesi da bere, il che gli altri non fecero per esser quasi digiuni, e mi fu dato una ciotola d’acqua; ma non l’ebbi neppur ben portata alla bocca che, come se fosse acqua santa18, il giovane mezzo spettro, che ho detto, me la levò. Mi alzai con grande sconforto dell’animo vedendomi in una casa dove si beveva alla salute delle budella, ma queste al brindisi non potevano usar la cortesia della risposta. Sentii voglia, quantunque non avessi mangiato, di provvedermi e quindi domandai del luogo comodo ad un anziano che mi disse: – «Non lo so; in questa casa non ce n’è; finché resterete qui basta che vi provvediate una volta dove potete. Io son qui da due mesi, ma non sono andato piú di corpo, tranne il giorno che entrai, come voi ora, in conseguenza di quello che mangiai a cena, a casa mia, la sera avanti». – Come esprimere tutta la mia afflizione e la mia pena? Fu tanta che, ripensando a quel poco che doveva entrarmi nel corpo, non mi arrischiai, pure avendone voglia, ad espellerne nulla.

C’intrattenemmo a chiacchiera io e il mio padrone fino a sera. Don Diego mi domandava che cosa avrebbe dovuto fare per vedere di persuadere lo stomaco che aveva mangiato, poiché non ci voleva credere. In quella casa eran frequenti le vertigini come le indigestioni in un’altra. Venne l’ora di cena; quella della merenda era sfumata. La cena fu anche piú leggera; non montone, ma un po’ di come si chiamava il maestro, capra arrosto cioè. Veda vossignoria se l’inventerebbe il diavolo. – «Fa molto bene alla salute ed è di gran giovamento, diceva, mangiar poco a cena per aver lo stomaco libero». E citava una filza di medici dell’inferno. Faceva le lodi della dieta che ci evita sonni profondi, ben sapendo che in casa sua altro non si poteva sognare che di mangiare. Cenarono, tutti noi cenammo, ma in fatto non cenò nessuno. Ce n’andammo a letto, ma per tutta la notte né io né Don Diego potemmo dormire; lui facendo disegno di dolersi con suo padre e pregarlo che lo levasse di , io esortandolo a farlo, finché gli dissi: «Signore, ma siete sicuro che si sia vivi? perché io quasi quasi penso che nella lite con l’erbivendole ci abbiano ammazzati e che ora si sia anime relegate in purgatorio. Cosicché è inutile dire che ce ne liberi vostro padre, se nessuno ci recita un po’ di rosario in suffragio e non ci libera dalle pene col farci dire qualche messa ad un altare privilegiato.

Tra questi discorsi e il dormire un poco giunse l’ora della levata. Suonarono le sei, Capra ci chiamò a lezione e tutti andammo a sentirla. Ormai e le costole e i fianchi mi sguattavano nel giubbone, altre sette paia di calzonetti avrebbero potuto rivestire le mie gambe, e i denti mettevo in mostra pieni di tartaro, gialli, vestiti a disperati. Mi si ordinò di leggere agli altri la prima declinazione, ma tanta fame avevo che mi sdigiunai mangiando la metà delle parole. Tutto questo ben lo crederà chi saprà quel che mi raccontò il garzone di Capra, il quale mi disse di aver visto portare a quella casa, dopo poco ch’egli c’era venuto, due cavalli frisoni19 che di a due giorni divennero tanto leggieri da potersi librare per l’aria; e che, vistici entrare due mastini tanto fatti, dopo tre ore, eran divenuti smilzi levrieri da corsa; che una quaresima s’imbattè in molti individui, taluni dei quali stendevano chi i piedi, chi le mani, chi tutta la persona nell’ingresso della casa di Capra, e ciò per gran pezza. Molta gente veniva a soffermarsi soltanto di fuori, e dimandando taluni un giorno cosa volesse dir ciò, Capra, adirato che gli se ne domandasse, rispose che gli uni avevano la rogna e gli altri i pedignoni; una volta però esposti in quella casa venivano a fine per virtú della fame, di maniera che non li rodevano piú da quel momento. Mi assicurò che era la verità. Io, che ebbi esperienza della casa, lo credo, e lo dico perché non sembri esagerazione quel che ho detto. Tornando ora alla lezione, la dissi; la dicemmo anzi tutti in coro. Seguitai poi sempre in questo tenore di vita che ho contato. Soltanto fu aggiunto al pasto carne salata di maiale nella minestra per protesta contro non so quale taccia, buttata , di antenati ebrei o mori che Capra s’ebbe un giorno. Cosí, dico, aveva una scatola di ferro tutta bucherellata come il vasetto del polverino; l’apriva, vi metteva dentro un pezzo di carne salata di maiale fino a riempirla e la richiudeva; la metteva poi, sospesa ad una funicella, nella pentola perché desse alla minestra, attraverso i forellini, un po’ di sugo, e la carne secca potesse serbarsi per il giorno dopo. Ma gli parve poi che facendo cosí fosse troppo spreco, epperò altro piú non fece che affacciare sulla pentola la carne secca.

Come, in questo modo, l’andasse per noi si può bene immaginare. Don Diego e io, dal momento che di mangiar non c’era verso, fummo ridotti a tal partito che, dopo un mese, ci appigliammo a quello di non levarci la mattina, e stabilimmo di dire che ci sentivamo male; ma non parlammo di febbre perché, non avendola, era facile capire l’inganno. Un dolor di capo o di denti era incomodo di poco; cosí dicemmo che ci dolevano le budella e che eravamo malati per il guaio di non essere andati di corpo da tre giorni, sicuri che, pur di non spender due soldi, il prete non avrebbe comprato medicina. Il diavolo volle però che la cosa andasse diversamente, poiché Capra aveva una ricetta lasciatagli da suo padre che era stato speziale. Venuto a sapere del male, preparò un certo rimedio e, chiamata una vecchia di settant’anni, zia sua, che gli serviva da infermiera, le disse che ci rivogasse parecchi lavativi. La funzione cominciò da Don Diego. Il disgraziato non voleva saperne, e la vecchia, invece di cacciarglielo dentro, glie lo scaricò fra la camicia e il filo delle reni, su fino alla nuca, che serví per guarnizione esteriore quel che doveva far da fodera per il dentro. Si mise a urlare il povero ragazzo, accorse Capra e, al vederlo, ordinò che intanto mi facessero l’altro a me e che subito si sarebbe tornati a Don Diego. Io feci per vestirmi ma poco mi valse, perché, tenendomi fermo Capra ed altri, la vecchia me lo infilzò, ma io glielo riscaricai tutto in faccia. Capra si adirò con me e disse che mi avrebbe cacciato di casa sua, poiché s’avvedeva bene che era tutta una bricconata. Ma non lo permise la mia mala sorte. Ci lagnammo della cosa con Don Alfonso, e quel Capra gli dette a credere che noi lo facevamo per scansare di studiare.

Con lui non valevano preghiere. Prese in casa la vecchia per padrona, affinché facesse da cucina e servisse i pensionati e licenziò il servitore perché il venerdí mattina trovò che aveva alcuni rimasugli di pane nel giubboncino. Dio lo sa quello che ci toccò passare con la vecchia! Era cosí sorda che non sentiva nulla, capiva a segni; non ci vedeva, non faceva che biasciar avemmarie, tanto che un giorno le si sfilarono i chicchi della corona sulla pentola e li serví insieme col brodo piú devoto ch’io abbia mai bevuto. Chi diceva: – «Come? ceci neri? Certo, vengono d’Etiopia». E altri: «Ceci a lutto? O chi sarà mai morto loro?». Al mio padrone gli scivolò in bocca un chicco e, nel masticarlo, gli si spezzò un dente. Il venerdí Capra era solito farci servire delle uova, venerande per tanti peli e capelli bianchi che v’erano della vecchia che piú non ne vantano giudici ed avvocati20. Era poi cosa usuale che scambiasse la paletta col romaiolo e ci mandasse una scodella di brodo piena di carboni. Tante e tante volte mi è avvenuto di trovar insetti, stecchi e della stoppa che la vecchia filava, nella minestra; ci metteva di tutto perché facesse comparsa nelle budella e gonfiasse.

Durammo in quest’afflizione fino alla quaresima, all’entrar della quale un compagno si ammalò. Capra, per non spendere, si astenne dal chiamare il medico, finché quegli ebbe piú bisogno del confessore che d’altro. Allora soltanto chiamò un giovane praticante il quale, tastatogli il polso, disse che la fame nell’ammazzare quel tale aveva fatto piú presto di lui. Gli dettero la Comunione, e il poveretto quando la vide (e da un giorno non parlava) disse: – «Signor mio Gesú Cristo, bisognava proprio che vi vedessi entrare in questa casa per convincermi che non era l’inferno». Eran parole che aveva scolpito nel cuore! Il povero giovine morí, gli facemmo un seppellimento molto misero essendo egli forestiero, e rimanemmo intontiti tutti quanti. Si divulgò il pietoso caso per il vicinato e giunse agli orecchi di Don Alfonso Coronel il quale, come colui che aveva quel figlio solo, aprí gli occhi sulle crudeltà di Capra e cominciò a prestar maggior fede alle parole di due ombre come noi, ché ormai eravamo ridotti a tanto miserevole condizione. Venuto a levarci dalla pensione, pur avendoci davanti a sé, seguitava a domandare di noi! Infine ci vide a tale che, senza aspettar altro, caricò d’improperi quel dottor Digiuno. Ci mandò a prendere su due seggiole e noi ci accomiatammo dai compagni, i quali ci seguivano con gli occhi pieni di desiderio, levando quei lamenti che suol levare chi resta in Algeria e vede che i suoi compagni sono riscattati21.





13 L’antico fondaco era di molto modesta apparenza: piuttosto oscuri, rischiarati malamente da finestrette a livello, o quasi della strada.



14 Il testo ha entre Roma y Francia, con allusione a romo, dal naso rincagnato, e al mal francese.



15 Il testo ha tablillas de San Lázaro che a Toledo e altrove in Ispagna si usavano nelle questue per gli ospedali di S. Lazzaro.



16 Allude alla risaputa favola di Narciso che, avendo sprezzato l’amore della ninfa Eco, s’innamorò della propria immagine riflessa nell’acqua d’una fonte, dove, disperato, si annegò credendola di persona reale.



17 Scherzosamente son paragonati quei poveri commensali ai partecipanti alla sacra mensa; in tanto sottili rezzole son ripartiti i cibi! Le strettezze di una vita di pensione son ricordate dal Cervantes in D. Q., II, 32.



18 Lavatorio de comunión: veramente, quel poco d’acqua che il chierico serve al sacerdote dalle ampolle e con la quale questi lava il calice. La beve poi d’un sorso, e il calice asciuga col purificatoio.



19 «Un caval barbero solo correrà piú che cento frisoni». Galilei, Saggiatore (cap. XXI). Cfr. Covarrubias alla voce frisones.



20 I barbuti uomini di lettere erano spesso messi in satira. Cfr. La hora de todos del Quevedo (§ XIX) e Diablo Cojuelo (tranco V) del Guevara.



21 Son frequenti nella letteratura del tempo i richiami alla triste vita dei cristiani in Algeri o a Tetuán, fatti schiavi dai pirati barbareschi. Per la loro redenzione S. Pietro Nolasco istituí, sotto Giacomo il Conquistatore, l’ordine tra religioso e militare della Mercede nel 1218. Cfr. del Cervantes la commedia El trato de Argel, le due novelle El amante liberal e El cautivo: questa in Don Quijote, I, cap. 39-41.



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