Francisco de Quevedo
Vita del pitocco
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STORIA DELLA VITA DEL PITOCCO CHIAMATO DON PAOLO ESEMPIO DEI VAGABONDI E SPECCHIO DEI TACCAGNI

CAPITOLO IV. Della convalescenza e dell’andata ad Alcalà de Henares per gli studi.

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CAPITOLO IV. Della convalescenza e dell’andata ad Alcalà de Henares per gli studi.

Entrati in casa di Don Alfonso, ci stesero su due letti con molta precauzione, dal timore che l’ossa, appunto perché tanto consunte dalla fame, ci si sfasciassero. Si fece venire chi esplorasse per tutta la faccia dove mai fossero i nostri occhi, e a me, per essere stato maggiore il mio penare e la fame maiuscola davvero, (mi avevano, in fin dei conti, trattato da servitore) per un bel po’ di tempo non riuscivano a trovarmeli. Vennero medici e ordinarono che con una coda di volpe ci si spolverasse la bocca come fossimo dei quadri; e davvero eravamo due quadri funebri. Ci furono ordinate cose nutritive e pollo pesto. Chi potrà raccontare le feste che al primo cordiale di latte, mandorle e zucchero e al primo pollo fecero le budella, dalla gioia? Tutto era nuovo per loro. I dottori comandarono che per nove giorni nessuno parlasse ad alta voce nella camera nostra, poiché, essendo gli stomachi vuoti, l’eco di ogni parola vi si ripercuoteva. Con queste e con altre cautele cominciammo a riaverci e a riprendere un po’ di spirito, ma le mascelle non c’era caso che volessero sgranchiarsi, interite come erano; cosí fu prescritto che ogni giorno si cercasse di rimetterle in forma col pestello di un mortaio. Dopo quattro giorni ci alzammo a fare qualche passo, ma si pareva ancor ombre di altre persone, e, nel giallore e nella magrezza, discendenti dai santi padri del deserto. Spendevamo tutta la giornata a ringraziare Dio d’averci riscattati dalla schiavitú dello spietato Capra, e pregavamo il Signore che nessun cristiano cadesse nelle mani sue crudeli. Se per sorte nel mangiare ci ricordavamo talvolta della tavola del tristo padrone della pensione, ci si accresceva la fame tanto che quel giorno cresceva la spesa. Solevamo raccontare a Don Alfonso come quegli, nel sedersi a mensa, solesse predicare contro la golosità che lui non aveva mai conosciuta in vita sua. E come rideva Don Alfonso quando gli raccontavamo che al comandamento divino «non uccidere» Capra soleva aggiungere «né le pernici, né i capponi» e quant’altro non voleva darci! Di conseguenza anche la fame; per lui infatti pareva che fosse peccato non solo a ucciderla quanto pure ad alimentarla, secondo indicava celatamente il mangiare che ci dava22.

Ci passarono frattanto tre mesi, al termine dei quali Don Alfonso trattò di mandare suo figlio ad Alcalá a studiarvi per completare i primi studi letterari. Mi domandò se avessi voluto andare con lui, e io che altro non desideravo se non uscire dal luogo dove si potesse udire mentovare il nome di quello scellerato tiranno degli stomachi, mi offrii di servire nel modo come avrebbe veduto, suo figlio. Gli destinò inoltre un famiglio maggiordomo che gli dirigesse la casa e gli tenesse i conti del danaro per la spesa, che ci passava in polizze di cambio, per mezzo di un tale per nome Giuliano Merluza. Caricammo le masserizie sul carro di un certo Diego Monje, cioè un lettino da una persona e uno a cinghie, con le ruote, da mettersi accanto all’altro per me e per il maggiordomo che si chiamava Aranda; cinque coltroni e otto lenzuoli, otto guanciali, quattro tappeti, un cassettone con biancheria e altre cianciafruscole per la casa. Messici in una carrozza, uscimmo sul tardi, un’ora prima che annottasse e giungemmo verso mezzanotte alla sempre sia maledetta osteria di Viveros. L’oste era un moro battezzato e ladro (come quel giorno non vidi mai in vita mia stare piú in pace cane23 e gatto) che ci fece gran festa; e poiché lui e i garzoni del padrone del carro s’erano indettati (essendo questi già andati avanti con le masserizie mentre noi si veniva a distanza), si attaccò alla carrozza, mi porse la mano per scendere dal montatoio e mi domandò se andavo agli studi. Gli risposi di . M’introdusse nell’osteria dov’erano due bravacci con certe donnine, un curato che recitava il breviario aspirando il buon odore della cucina, un vecchio mercante tirchio che cercava dimenticarsi di cenare e due studenti di quelli dal pitocchino, scrocconi, ch’eran tanto per trovar modo di che pappare. Il mio padrone, pertanto, nuovo dell’osterie e inesperto, disse: – «Signor oste, datemi di quel che possiate avere per me e per due servitori».

– «Servitori siamo noi tutti di vossignoria, dissero pronti i bravacci, e l’abbiamo a servire. Ehi! oste, guardate che questo signore vi sarà riconoscente per quanto farete; vuotate la dispensa di quanto c’è!» E, in cosí dire, uno si avvicinò e levò a don Diego la cappa dicendo: «Si riposi vossignoria e padron mio»; e la posò sopra una panca. Io mi davo frattanto una cert’aria di padronanza dell’osteria. Disse una delle silfidi: «Ma che aspetto signorile! Che va agli studi? E lei è il servitore?». Io risposi che cosí credevo come si diceva, e che suoi servitori eravamo io e quell’altro. Mi fu chiesto come si chiamava; né avevo finito di dirlo che uno degli studenti gli si avvicinò quasi con le lacrime agli occhi e, dandogli uno strettissimo abbraccio, gli disse: «Oh, Don Diego, signor mio! Chi mi avrebbe detto dieci anni fa che vi avrei riveduto, stando io in questo stato! Ahimè, sono a tale che non mi potrà ravvisare!» Il mio padrone rimase trasecolato, e io pure, poiché io e lui vi possiamo giurare che né io né lui l’avevamo mai visto in vita nostra. L’altro compagno andava osservando Don Diego in viso e disse all’amico: «È quel signore del padre del quale mi avete parlato tanto? Gran fortuna la nostra di incontrarlo e riconoscerlo, cresciuto com’è! Dio lo salvi!». E si dette a farsi segni di croce. Chi non avrebbe creduto che fossero cresciuti insieme con noialtri? Don Diego molto gli si profferse; poi, mentre lo richiedeva del nome, venne l’oste che stese le tovaglie e, fiutando il raggiro, disse: «Lascino andare ora; dopo cena si discorrerà, se no si fredda». Un bravaccio si avvicinò, mise degli sgabelli per tutti, e un seggiolone per Don Diego; l’altro portò un piatto. Dissero gli studenti: «Ceni vossignoria che mentre per noi ci preparano quel che ci possa essere, la serviremo a tavola». – «Gesú! disse Don Diego, lor signori si seggano, se gradiscono». Al che, senza che egli si fosse rivolto a loro, risposero i bravacci: «Ma subito, signore, giacché non è ancora tutto pronto». Quando vidi gli uni convitati e gli altri convitarsi, me ne seppe male e temetti quel che successe. E infatti gli studenti presero l’insalata, che era un bel piatto abbondante, e, guardando il mio padrone, dissero: «Dov’è un signore di tanto riguardo non va che queste signore stiano senza mangiare; ordini vossignoria che n’abbiano un boccone». E Don Diego, facendo il galante, le invitò. Esse si sedettero, ed in quattro bocconi, fra loro e gli studenti, non rimase se non un grumolo che se lo mangiò Don Diego. Nel darglielo, gli disse quel maledetto studente: «Vossignoria ci ha avuto un nonno, zio di mio padre, che al veder la lattuga andava in visibilio: che uomo dabbene che era!». E cosí dicendo si mise davanti una pagnotta e l’altro un’altra; quindi le silfidi davano sotto a un pane; e chi piú mangiava, ma soltanto con lo sgranar gli occhi, era il curato. Si misero a tavola i bravacci con davanti un mezzo capretto arrosto, due fette di carne salata di maiale e due piccioncini in umido e dissero: «Come, padre! Se ne sta ? Si accosti qua e prenda, giacché il mio signor Don Diego ce ne fa grazia a tutti». Non gliel’avevano finito di dire ch’egli si sedette; ma quando il mio padrone vide che tutti gli si erano intrusi cominciò a sentirsene seccato. Furon fatte le parti e a Don Diego toccarono non so che ossi e che sommoli d’ali; il resto se lo ingollarono il curato e gli altri. Dicevano i bravacci: «Pochino a cena, signore, che le farà male». E quel maledetto studente aggiungeva: «Tanto piú che bisogna si avvezzi a mangiar poco chi va ad Alcalà». Io e l’altro famiglio non facevamo che pregar Dio che ispirasse loro di lasciarci qualcosa. E quando ebbero mangiato tutto e il curato ripassava gli ossi degli altri, riprese a dire, il briccone: «Oh, tristo me! Non s’è lasciato nulla per i servi. Ma venite pur qua: ehi, oste, date loro tutto quello che ci possa essere: ecco una doppia»24. Quello scomunicato di parente del mio padrone (dico lo scolaro) saltò subito su a dirgli: «Mi scuserà tanto, signor mio, ma questo sa poco di cortesia. Lo conosce per caso il mio signor cugino? Ai suoi servi, e anche ai nostri se ne avessimo, darà lui, come ne ha dato a noi altri. Non v’indispettite, Don Diego: non vi conoscevano». Al vedere cosí gran finzione gli mandai tante maledizioni che non la finivo piú. Alzatisi da tavola, tutti dissero a Don Diego che andasse a dormire. Egli avrebbe voluto pagare la cena, ma gli risposero che ci sarebbe stato tempo l’indomani. Si trattennero un po’ a discorrere; il mio padrone domandò il nome allo studente, ed egli disse che si chiamava Don tale Coronel. Che quell’impostore possa bruciare nel profondo dell’inferno dove vorrei che fosse! Vedendo che quel tirchio di mercante s’era addormentato, disse: «Vuol ridere, Don Diego? E allora facciamo una burla a questo vecchio che per tutto il viaggio non ha mangiato, ed è ricchissimo, se non una melarosa». Dissero i bravacci: «Evviva il dottore! faccia, che va bene». Quegli si avvicinò allora al povero vecchio che dormiva e gli levò di sotto ai piedi certe bisaccie; scioltele e trovatavi una scatola, come se fosse un bottino di guerra si fece una radunata, che tutti si accostarono. L’aprí e vide che era piena di scorze di cedro candite. Le levò fuori quante ce n’era e al loro posto ci mise pietre, stecchi, quel che trovò. Lesto lesto vi fece su di corpo e sopra a quella sporcizia dispose quasi una dozzina di calcinacci. Chiuse poi la scatola e disse: «Ma non basta ancora: ci ha un otre». Ne tolse il vino e svuotando un cuscino della nostra carrozza, dopo di avervi versato un po’ di vino, lo riempí di lana, di stoppa e lo legò. Dopo di che tutti se n’andarono a letto per un’ora o un’ora e mezzo che rimaneva, e lo studente mise il tutto nelle bisaccie, rotolò una grossa pietra nel cappuccio del gabbatto e se n’andò a dormire. Giunta l’ora del rimettersi in via, tutti si svegliarono, ma il vecchio continuava a dormire. Lo chiamarono; però al levarsi in piedi non poteva alzare il cappuccio del gabbano. Guardò cos’era, mentre il taverniere a bella posta lo rimbrottò dicendo: «Per Dio! altro non ha trovato da portar via che questa pietra? Che gliene pare a lor signori se non l’avessi visto? È cosa che per me vale piú di cento ducati, perché è contro il mal di stomaco». E giurava e spergiurava il povero vecchio che non era stato lui a metterla nel cappuccio.

I bravacci fecero il conto della cena che venne ad ammontare a sessanta reali; un conto in cui non ci si sarebbe raccapezzato Giovanni de Leganos25. Dicevano gli studenti: «Poiché serviremo vossignoria in Alcalá, rimaniamo pari col conto». Prendemmo un boccone per colazione, il vecchio tolse le sue bisaccie, e perché non vedessimo quel che tirava fuori e per non farne parte ad alcuno, le sciolse nascostamente di sotto al gabbano; poi, abbrancato un calcinaccio lordo, se lo mise in bocca che gli si andò a conficcare nel molare e nel mezzo dente che aveva che poco mancò non li perdesse. Cominciò a sputare e a smaniare dallo schifo e dal dolore. Tutti gli ci avvicinammo, il curato per il primo, domandandogli cosa avesse; ed egli, dando l’anima al diavolo, lasciò andare le bisaccie. Gli si fece vicino lo studente e gli disse: «Vade retro, Satana; guarda la croce!». L’altro studente aprí il breviario dandogli a credere che fosse indemoniato, finché lui stesso convenne di esserlo e chiese che gli facessero sciacquar la bocca con un po’ di vino che portava nell’otre. Fu lasciato fare. Tiratala fuori, egli l’aprí e, andando per mescere all’orlo di una tazzina un po’ di vino, venne fuori insieme con lana e stoppa un vino bestiale, con tanto di barba e di velli che non si poteva né berepassare per il colatoio. Allora il vecchio finí di perdere la pazienza; ma, vedendo gli sconci scoppi di risa, pensò meglio di starsene zitto e salire sul carro con i bravacci e le donne. Gli studenti e il curato inforcarono un asino, e noi altri ci mettemmo nella carrozza. Non ancora ci s’era messi in cammino che ecco gli uni e gli altri a darci la baia, svelando la beffa. L’oste diceva: «Signor matricolino, due altri regali come questo e diventerà vecchio». E il curato: «Sono sacerdote, le saran dette delle messe». E il maledetto studente gridava: «Signor cugino, un’altra volta grattatevi quando vi prude, non dopo». E l’altro: «Abbiatevi la rogna, don Diego». Noi altri facemmo finta di non badare. Dio lo sa come ci vergognavamo! Tra una cosa e l’altra giungemmo alla città. Scendemmo ad un albergo e in tutta la giornata (giacché arrivammo alle nove) non si fece che rifare il conto della cena della sera avanti, ma non potemmo mai venire in chiaro della spesa.





22 Insomma non voleva dar da mangiare per sfamare, perché poi la fame si sarebbe rinnovata! Dovevano morire i pensionanti.



23 Meglio si coglie il senso satirico ricordando che di «cane» si dava comunemente a mori ed ebrei (perro moro, perro judío ), e che «gatto» significa anche «ladro, astuto».



24 Il doblone ebbe in Ispagna differente valore secondo i tempi: d’oro semplicemente, aveva valore e peso di due scudi; de á ciento, de á ocho, de á cuatro aveva valore e peso rispettivamente, di cento, di otto, di quattro scudi d’oro. L’Oudin nel 1621 scriveva che il doblone spagnolo valeva la pistola francese, la quale nel 1621 valeva circa undici franchi.



25 Il reale corrispondeva a 25 centesimi circa dei nostri: il conto, chi sa come imbrogliato, fu perciò di un quindici lire. Chi fosse questo Leganos non si sa. Il De Lavigne dice vagamente che era un dotto matematico celebre in Ispagna come Barème in Francia.



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