Francisco de Quevedo
Vita del pitocco
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STORIA DELLA VITA DEL PITOCCO CHIAMATO DON PAOLO ESEMPIO DEI VAGABONDI E SPECCHIO DEI TACCAGNI

CAPITOLO IX. Di quel che m’accadde con un poeta fino all’arrivo a Madrid.

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CAPITOLO IX. Di quel che m’accadde con un poeta fino all’arrivo a Madrid.

Io mi misi in cammino per Madrid e lui si congedò da me dovendo fare diversa strada. Era già discosto, quando tornò indietro di corsa e chiamandomi forte, in aperta campagna dove nessuno ci poteva udire, mi disse all’orecchio: – «Per quanto ha cara la vita, vossignoria non dica nulla di tutti i gelosissimi segreti che le ho confidato in materia di scherma; se li tenga per sé come avrà ben capito di dover fare». Io promisi che cosí avrei fatto. Di nuovo si allontanò da me e io mi misi a ridere del tanto divertente segreto.

Frattanto camminai piú d’una lega senza incontrare persona viva. Ripensavo fra me alle tante difficoltà che mi si davano per vivere secondo la virtú e l’onore, poiché prima di tutto avevo bisogno di nascondere quello tanto poco dei miei genitori e quindi averne tanto per me che non mi si potesse piú riconoscere da quel ch’ero nato. Mi parevano onesti propositi questi, ed io me ne compiacevo fra me stesso. Dicevo fra me e me: – «Piú si deve avere a grado me, che non ho avuto da chi imparare la virtú, anziché chi la eredita dai suoi antenati». Andavo facendo questi discorsi e osservazioni, quando incontrai un letterato, un vecchione, che, cavalcando una mula, era in viaggio per Madrid. Attaccammo discorso e subito mi domandò di dove venivo: gli risposi che da Alcalá. E lui: – «Che Dio la maledica, quella gentaccia: fra quanti sono, non ce n’è uno di giudizio». Gli domandai come e perché si potesse parlar cosí di un paese dove si trovavano tanti dotti personaggi. Ed egli molto infastidito: «Dotti? Tanto dotti, vi dirò, che avendo io da quattordici anni composto in Majalahondadove sono stato sacrestano – le canzonette del Corpusdomini e della Natività, non mi hanno mai premiate nel manifesto certe brevi poesie; e perché veda vossignoria il torto che m’han fatto, gliele devo leggere». E cominciò cosí:

Gran ventura, miei pastori,
che il santo Corpuschristi oggi si onori!
Oggi è giorno delle danze,
che l’Agnello immacolato
s’è cotanto umilïato
che ci visita le panze,
e fra tante dilettanze
scenda giú nel gozzo umano;
al trombone si dia mano
che il ben nostro non vien fuori:
gran ventura, miei pastori, ecc....

– «Cosa avrebbe potuto dir di piú, mi disse, lo stesso inventore delle cose piacevoli? Osservi che profondo senso è racchiuso in quella parola pastori; ma, mi è costata un mese di studio!». A questo io non potei tenermi dalle risa che dagli occhi e dal naso mi prorompevano a gorgogli, finché, dando in un grande scoppio, dissi: – «È una meraviglia! Soltanto noto però che vossignoria chiama santo il Corpusdomini, mentre non il Corpusdomini è santo ma il giorno in cui fu istituito il Santissimo sacramento». – «O questa è bella! – mi rispose motteggiando. Ce lo metterò io nel calendario; è santo canonizzato e ci scommetto la testa». – Mi fu impossibile insistere dal matto ridere che facevo al vedere quella cosí grande ignoranza; anzi gli dissi che quei versi meritavano qualsivoglia premio e che in vita mia non avevo mai letto cosa tanto graziosa. – «No? diss’egli, pronto: e allora ascolti un piccolo brano di un libriccino che ho scritto in lode delle undicimila vergini, dove per ciascuna ho composto cinquanta ottave; una sciccheria!». Io per evitare di ascoltare un mezzo milione di ottave, lo scongiurai di non volermi far sentire componimenti devoti; ed egli allora cominciò a recitarmi una commedia la quale aveva piú giornate che la via per andare a Gerusalemme. Mi diceva: – «L’ho scritta in due giorni, e questa è la brutta copia». Saranno state un cinque risme di carta. S’intitolava L’arca di Noè. L’azione si svolgeva tutta fra galli, topi, asini, volpi e cignali come le favole di Esopo. Alle mie lodi circa il disegno e l’invenzione, mi rispose: – «È roba mia, né se n’è mai fatta di simile al mondo; l’interessante è la novità, e se io riesco a farla rappresentare, sarà un avvenimento». – «Come sarà possibile rappresentarla, gli dissi, se ci hanno parte gli animali veri e propri, e gli animali non parlano?» – «Questo è l’inconveniente; se non fosse questo, ci sarebbe forse cosa piú sublime? Però io ho ideato di introdurvi tutti pappagalli, stornelli e gazze, animali che parlano, e per l’intermezzo poi farvi agire delle scimmie» – «È di certo una cosa sublime». – «E altre cose piú sublimi ho scritto, disse, per una donna che amo: ecco qui novecento e un sonetto, piú dodici quartine (pareva che snocciolasse scudi come fossero soldi) in lode delle gambe della mia donna». Gli domandai se gliele aveva viste e lui rispose che se n’era ben guardato per via degli ordini sacri ch’egli aveva, ma che però aveva espresso i pensieri dalle sue supposizioni. Confesso il vero che, sebbene mi divertisse lo stare a sentirlo, mi atterrii all’idea di tanti cattivi versi, cosicché cominciai a cambiar discorso. Gli dissi che vedevo certe lepri. E lui: «Allora principierò da un sonetto nel quale la paragono a questo animale». E stava per recitarmelo! Per distrarnelo: – «Vedete, gli dissi, quella stella che si vede cosí di giorno?» – E lui: «Finito di recitar questo, le dirò il trentesimo in cui la chiamo stella che non apparisce, ma che ne sa gl’intendimenti». Era tanto il mio tormento al vedere di non poter nominare cosa alcuna che non gli fosse stato argomento ad una delle sue pazzie, che quando vidi che eravamo vicini a Madrid non stetti in me dalla contentezza, pensando che, per riguardo alla gente, sarebbe stato zitto. Fu invece il rovescio, poiché per far vedere che era poeta, si mise a declamare all’entrata nel corso. Lo supplicai di smetterla, facendogli presente che, se fiutavano il poeta i monelli, non ci sarebbe rimasto torzolo di cavolo che non avrebbe preso la nostra direzione, essendo stati i poeti dichiarati matti in una prammatica39 uscita contro di loro per opera di uno il quale, da poeta che era stato, si era poi ritirato a vita assennata. Tutto sconcertato, mi chiese che gliela leggessi, se l’avevo. Gli promisi di farlo all’albergo. Ce ne andammo ad un albergo dove egli era solito di smontare e vi trovammo alla porta piú di dodici mendicanti ciechi, dei quali alcuni lo riconobbero per poeta al fiuto, altri alla voce e gli dettero, vociando, il benvenuto. Egli li abbracciò tutti quanti e subito cominciarono alcuni a chiedergli qualche orazione per il Giusto Giudice in verso grave e sentenzioso, che invitasse ad accompagnarlo coi gesti; altri ne chiesero per le anime del Purgatorio. Si misero d’accordo ed egli s’ebbe da ciascuno otto reali di caparra. Dopo averli congedati mi disse: – «Questi ciechi mi hanno a fruttare piú di trecento reali; perciò con vostra licenza, ora mi raccoglierò un po’ per comporre qualcuna di queste orazioni. Terminato poi di mangiare sentiremo questa prammatica». Oh, vita misera! Non se ne una piú misera di quella dei matti che si procacciano da vivere con l’aiuto dei matti.





39 La fungaia dei poetastri suscitò, cosí in Ispagna come in Italia, tutta una letteratura satirica e giocosa, in varie forme, tra cui le bizzarre fantasie di avvisi e ragguagli di Parnaso, di prammatiche, parodie di rescritti sovrani. Alla decima delle Lettere Virgiliane del Bettinelli segue un satirico Codice nuovo di leggi del Parnaso italiano in cui si ordina la chiusura dell’Arcadia per cinquant’anni, e poi per altri cinquanta, secondo il bisogno; si mette un dazio sulle Raccolte, si multano gli eruditi che ardiscono parlare di poesia, s’istituisce un ospedale per tutti coloro che a far versi erano tratti, non dalla natura, ma dalla pazzia, ecc.



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