Francisco de Quevedo
Vita del pitocco
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STORIA DELLA VITA DEL PITOCCO CHIAMATO DON PAOLO ESEMPIO DEI VAGABONDI E SPECCHIO DEI TACCAGNI

CAPITOLO X. Di quel che fui a Madrid e di quel che mi successe fino al mio arrivo a Cercidiglia, dove passai la notte.

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CAPITOLO X. Di quel che fui a Madrid e di quel che mi successe fino al mio arrivo a Cercidiglia, dove passai la notte.

Egli si ritirò per alcun tempo a stillare spropositi e scempiaggini per i ciechi. Frattanto si fece l’ora di mangiare, e subito fu chiesto che si leggesse la prammatica. Io, non avendo altro da fare la tirai fuori e la lessi. Ed eccola qui, essendomi sembrata giudiziosa e appropriata a quello che si volle in essa riprendere. Diceva cosí:

Prammatica contro i poeti vuoti,
frivoli e futili.

N’ebbe a fare il sagrestano le maggiori risa del mondo e disse: – «Potevate aspettar dell’altro, a dirmelo! Mi credevo, per Dio, che parlasse di me, ed invece è soltanto contro i poeti frivoli». A sentirgli dire cosí ne provai gran gusto, come se si fosse trattato d’uva salamanna o moscatello. Omisi la prefazione e cominciai a leggere il primo capitolo che diceva:

«Attesoché questa razza di insetti chiamati poeti sono nostro prossimo e cristiani; per quanto molesti; vedendo che tutto l’anno adorano e ciglia e denti e larghi nastri di seta e scarpette, e commettono altri peccati piú gravi, ordiniamo che nella settimana santa si faccia una retata di tutti i poeti che sono in piazza e alle cantonate delle strade, come si fa delle male femmine, che siano tratti dall’errore in cui vivono e si procuri di convertirli. E a tal fine indichiamo ricoveri di penitenza.

«Item, considerando i gran bollori della canicola e dei poeti fatti di sole le non mai ottenebrate canzoni (zibibbi maturati ai raggi del sole e delle stelle che essi consumano nel comporle) imponiamo loro perpetuo silenzio circa le cose celesti, come per la caccia e la pesca, affinché non siano esaurite con l’assalto che dànno loro.

«Item, avendo considerato che questa infernale setta di uomini condannati ad eterni concettini, stitici linguaioli e rivolta-significati, ha attaccato tale malanno alle donne, dichiariamo che ci riteniamo, con questo che abbiamo ad esse fatto, saldati di quello che ci hanno fatto loro da che mondo è mondo. E perché il mondo è povero e in bisogno, ordiniamo che si brucino le canzoni dei poeti come vecchio ciarpame, per cavarne l’oro, l’argento e le perle, giacché essi nel piú gran numero dei versi compongono di tutti i metalli le loro belle». A questo il sagrestano non poté reggere, e, drizzandosi in piedi, disse: – «Ma no! anche levarci la roba che s’ha! Non vada avanti vossignoria, intendo produrre appello, e non già in ultima istanza, ma al mio giudice naturale, perché non ne venga danno al mio abito e al mio grado; e per proseguire la causa spenderò magari quanto ho. Sarebbe bella, che io, un ecclesiastico, dovessi sopportare questo danno. Io dimostrerò che le poesie d’un poeta appartenente al clero non sono soggette a tale prammatica; voglio andare subito a comprovarlo davanti al Tribunale». Da un lato mi fece venir voglia di ridere, ma per non indugiare (giacché mi si faceva tardi) gli dissi: «Signore, questa prammatica è uno scherzo e non ha valoreobbliga, destituita com’è, di autorità». – «Oh, tristo me! disse tutto irritato. Vossignoria capirà che mi avrebbe procurato il maggiore dispiacere del mondo. Sa cosa vuol dire ritrovarsi un uomo con ottocento mila poesie una sull’altra e sentirsi dir questo? Vada pure avanti e che Dio le perdoni la paura che m’ha messo». Io proseguii dicendo:

«Item, considerando che dopo aver tralasciato gli argomenti moreschi – quantunque sempre ne serbino qualche resto – si sono dati ai pastorali, per il che le greggi se ne vanno scarne non bevendo che le lacrime loro, strinate dal fuoco dell’anima e tanto assorte nella loro musica da non pascolare piú, ordiniamo che abbandonino questo poetare, a chi di loro ama la solitudine indicando romitori, e agli altri (giocoso com’è il mestier loro e da facezie) che si acconcino a far da stallieri».

– «Qualche finocchio, qualche cornuto, un sodomita, un giudeo dev’essere stato a dar quest’ordini! che se sapessi chi è stato, gli farei una satira da riuscire molesta a lui e a quanti l’avessero a leggere. Ma vedete un po’ come per uno sbarbatello come me sarebbe adattato un romitorio! Un uomo poi inacetito e sagrestano dover fare lo stalliere? Ah, signore, sono di grandi angustie queste!».

– «Ma già ho detto a vossignoria, soggiunsi, che è uno scherzo e che come tale l’ha da ascoltare». E seguitai a dire:

«Item, per infrenare le grandi ruberie, ordiniamo che non si importino poesie dall’Aragona alla Castiglia, né dall’Italia alla Spagna sotto pena per il poeta che ciò facesse, di dovere andar vestito bene, e se recidivo, di dover andare pulito per un’ora». Questo piacque molto al sagrestano, poiché egli portava una sottana stinta e proprio logora, con tante pillacchere che per metterla sotto terra non c’era che da soffregarla sopra sopra; il mantello poi, se ne potevano concimare due campi.

E cosí, ridendo sotto sotto fra me, gli dissi che la prammatica ordinava pure che «Si tenessero in conto di quella gente disperata che s’impicca e si butta da un greppo (e, come tale, non dovesse aver sepoltura in luogo sacro) le donne che s’innamorassero di poeti a secco. E considerando la tanta abbondanza di quartine, canzoni e sonetti che c’era stata in queste fertili annate, ordiniamo che quegli scartafacci i quali non meritassero neanche di finire dal droghiere, finissero al cesso e senz’appello». E per finirla, saltai all’ultimo capitolo che diceva cosí:

– «Considerando però, con sentimento di compassione, che ci sono nello stato tre generi di gente tanto superlativamente sventurata, comici, ciechi e sagrestani, da non poter vivere senza di tali poeti, ordiniamo che possano esserci alcuni che professino quest’arte della poesia, a patto però che ne abbiano il diploma dai capoccia dei paesi che a caso siano per quelle parti; con restrizione tuttavia, per i poeti di compagnie comiche, di non far terminare gli intermezzi a bastonate o con apparizioni di diavoli, né a maritaggi le commedie; per i ciechi, che i fatti da cantare non succedano a Tetuán e che siano banditi i vocaboli fraterno e punto d’onore; ordinando loro per di piú che per dire la presente opra non dicano sossopra, e ai sagrestani di non comporre villanelle con i soliti Gil e Pasquale, né di usar giuochi di parole o trovare concetti a spirale che, cambiato il nome, tornin bene per ogni santo.

«Finalmente ordiniamo a tutti i poeti in generale di metter da banda e Giove e Venere e Apollo e gli altri dei, sotto pena di averli ad avere per loro patroni nell’ora della morte».

A tutti quelli che l’avevano ascoltata, parve questa prammatica quanto si può dire di meglio e tutti me ne chiesero una copia. Soltanto il sagrestano cominciò a giurare per i vespri solenni, per l’introibo e per il kiries che, per quello che diceva rispetto ai ciechi, era una satira contro di lui, ma che lui sapeva meglio d’ognuno ciò che doveva fare. In ultimo disse: – «Io mi son uno che ho alloggiato insieme con Liñán e ho pranzato piú che due volte con Espinel»40: e poi, che a Madrid era stato cosí vicino a Lope de Vega come ora a me, e che mille volte aveva veduto Don Alonso de Ercilla, e che in casa sua aveva un ritratto del divino Figueroa, e che aveva comprato le brachesse lasciate da Padilla quando si fece frate e che presentemente le portava addosso, ma rifinite: ce le mostrò anche, il che fece tanto ridere tutti che non volevano piú uscire dall’albergo.

Alla fine (erano ormai le due) costretti a rimetterci in viaggio, uscimmo da Madrid. Io, quantunque mi rincrescesse, mi congedai da lui e mi avviai verso il valico montano. Fu volere di Dio, perché io non entrassi in cattivi pensieri, che mi imbattessi in un soldato: subito intavolammo discorso, dimandandomi egli se venivo dalla capitale. Gli risposi che c’ero stato di passaggio.

– «Né merita di piú, disse subito, poiché è paese per gente di nessun conto; preferisco, quanto è vero Cristo! ritrovarmi in un assedio con la neve fino alla vita, sano e rispettato, mangiando magari frutta acerbe, che sopportare le soperchierie che si fanno alle persone dabbene». A questo io gli risposi di riflettere che nella capitale c’era di tutto e che molto si faceva stima d’ogni persona di merito. – «Ma che stimare! disse tutto irritato: se io ci sono stato sei mesi aspirando a un grado di ufficiale, dopo vent’anni di vita militare, e dopo aver versato il mio sangue in servizio del re come lo affermano queste ferite!». E mi indicò un taglio lungo circa un palmo inglese (però, chiaro come il sole, si trattava d’un tincone) e subito dopo, nei calcagni, mi mostrò altre due cicatrici dicendomi che erano state due palle; ma io, da due altre che ci ho io, argomentai che erano stati pedignoni. Si tolse il cappello e distese la faccia; misurava sedici pollici di lunghezza e tanto era lunga una cicatrice che gli spartiva il naso. Altri tre sfregi poi erano torno torno proprio come le linee di un mappamondo. – «Questi, mi disse, mi furono fatti a Parigi, in servizio di Dio e del re, per i quali mi vedo il viso cosí cincischiato; eppure non n’ho ricavato che di belle parole; belle parole che per ora fanno le veci di male azioni. Legga vossignoria questi certificati: sul mio onore di congedato, per Cristo! nessuno mai, vivaddio! ha fatto delle campagne che si sia segnalato come me». Era la verità; segnalato sicuramente, con tanti tagli ricevuti! Poi da certi tubi di latta cominciò a tirar fuori e a mostrarmi dei certificati che dovevano appartenere a un altro del quale aveva preso il nome. Li lessi e gliene feci mille lodi dicendogli che né il CidBernardo41 reggevano al paragone con quel che aveva fatto lui. A questo egli saltò su a dire: – «Al paragone? Perdio! ma neanche García de Paredes, ma neanche Giuliano Romero né altri valentuomini42. Diavolo maledetto! Ma allora, allora, non ce n’era mica artiglieria! Perdio! oggi Bernardo non avrebbe retto un’ora. Domandi un po’ in Fiandra, vossignoria, della gesta dell’Imbrecciato e vedrà cosa le dicono».

– «Sarebbe forse vossignoria l’Imbrecciato?» gli dissi.

– «E chi altri dunque?» mi rispose: non vedete la breccia che ho nei denti? Ma lasciamo stare che non sembra ben fatto lodarsi da sé».

Mentre s’andava cosí discorrendo, incontrammo su di un asino un eremita con una barba di tale lunghezza che spazzava per terra, macilento, vestito di un panno grigio. Lo salutammo col solito Deo gratias ed egli prese a magnificare le messi e in esse la bontà divina. Il soldato saltò su a dire: – Eh, padre! Io ho visto anche piú spesse le picche su di me. Per Cristo che al sacco di Anversa feci quel che potei; proprio, perdio!. L’eremita lo riprese, perché non bestemmiasse cosí. E il soldato: – Si vede bene, padre, che non siete stato soldato, poiché mi riprendete del mio mestiere. Mi fece molto ridere a vedere in cosa faceva consistere la vita militare: m’accorsi che doveva essere qualche briccone, perché fra i soldati che valgono qualcosa, non c’è abitudine che sia tanto detestata, anche se non da tutti. Giungemmo alle falde del valico, l’eremita recitando il rosario che pareva una gran soma di legna ridotta a bocce da giuoco da risuonare ad ogni Avemmaria un colpo secco, il soldato paragonando le rupi ai castelli da lui veduti e guardando quale era posto fortificato e dove si sarebbe dovuto collocare l’artiglieria. Io li andavo osservando e tanto avevo paura del rosario enorme dell’eremita, quanto delle bugie del soldato. – «Oh, come farei saltare in aria buona parte di questa forra con le bombe! diceva: farei opera utile per chi va viaggiando!

Fra questi ed altri discorsi giungemmo a Cerecedilla. Entrammo tutti e tre nell’albergo che già era notte e facemmo preparare da cena. Nel frattempo (era di venerdí) l’eremita disse: – «Divertiamoci un po’, perché l’ozio è il padre di tutti i vizi; giochiamo con le Avemmarie»; e si lasciò scivolar giú dalla manica il mazzo delle carte. A vederlo, mi venne proprio da ridere ripensando al rosario. Disse il soldato: – «No, giuochiamo invece, da buoni amici, fino a cento reali che ho indosso». Mosso dalla gran cupidigia, io dissi che ne avrei giocati altrettanti, e l’eremita, per non esser lui a guastar l’accordo, accettò e disse che portava seco l’olio della lampada, cioè circa duecento reali. Confesso che subito pensai di potermene fare pescatore e agganciarli al mio amo; ma che possano riuscire cosí al turco i suoi progetti! Si giocò a zecchinetto: il bello si fu che l’eremita disse non sapere il gioco e volle che glielinsegnassimo. Quel sempliciotto ci lasciò fare due mani, poi subito ce ne assestò una che rimanemmo puliti puliti. Fu, pur essendo noi ancor in vita, il nostro erede: il malandrino, col concavo della mano raccoglieva l’eredità ch’era una pietà; perdeva una posta magra ma colpiva giusto per dodici grasse, che, ad ogni colpo, il soldato lasciava andare dodici sagrati e altrettanti «cancheri», foderati di altrettanti «perdio!». Io mi rodevo l’unghie mentre che il frate attivava le sue sui miei quattrini. Non c’era santo ch’io non invocassi. Com’ebbe finito di pelarci, gli chiedemmo di voler giocare su pegno, ma lui, dopo avere vinto a me seicento reali, che era quanto avevo, e al soldato i suoi cento, rispose ch’era stato per divertimento, che eravamo suo prossimo e che non doveva insistere di piú. – «Non bestemmiate, ci andava dicendo: io, vedete, mi raccomandavo al Signore Iddio e mi è venuta bene». E noi, siccome non sapevamo la gran destrezza che aveva dalle dita ai polsi, gli credemmo. Il soldato giurò di non giocar piú, e cosí anch’io. «Cancherodiceva il povero alfiere (mi aveva detto lui, in quel frattempo, il grado che aveva) mi son ritrovato fra luterani, fra mori, ma non sono stato mai spogliato cosí». L’eremita ci rideva: rimise fuori il suo rosario per pregare, e io, che non avevo un quattrino, gli chiesi che mi desse da cena e che pagasse l’albergo per me e per il soldato fino a Segovia, giacché s’era al verde. Promise di , ma fu un’insalata di belle parole. Non mi capitò mai una cosa simile in vita mia! Disse che andava a letto. Dormimmo tutti insieme in una sala con altra gente che era nell’albergo, perché le camere erano tutte prese per altri. Io andai a letto tutto rattristato; il soldato chiamò l’oste per raccomandargli i suoi certificati con gli astucci di latta che li racchiudevano, piú un fagotto di camicie ormai pensionate. Ci coricammo: il padre reverendo si fece il segno della croce e noialtri ce lo facemmo per lui come contro il diavolo. Addormentatosi, io stetti sveglio ad almanaccare come potergli portar via i quattrini. Il soldato fra il sonno parlava dei suoi cento reali come se non irreparabilmente perduti.

Venuta l’ora di levarsi, domandò presto presto un lume che gli fu portato; come pure l’oste gli portò l’involto, ma furono dimenticate le carte. Il povero alfiere faceva subissare la casa dalle grida, chiedendo che gli dessero quei benserviti. L’oste, pieno di confusione, poiché tutti gli si diceva di darglieli, se n’andò di corsa e portò tre canteri, dicendo – «Eccone uno per uno; ne vogliono altri di benserviti?» avendo capito che ci fosse venuta la sciolta. Ne seguí pertanto che il soldato si levò su, a rincorrere, brandendo la spada e in camicia, l’oste, giurando che l’avrebbe ammazzato, perché si beffava di lui (di lui che si era trovato a Lepanto, a San Quintino e ad altre battaglie!) col portargli pitali invece delle carte che gli aveva consegnato. Ci lanciammo dietro a lui per tenerlo tutti quanti, ma neanche ci si riusciva. Diceva l’oste: – «Vossignoria ha chiesto vasi; io non sono obbligato a sapere che nel parlar militare si chiamano cosí gli attestati delle imprese di guerra». Li rappaciammo e tornammo nella stanza. L’eremita restò quatto quatto nel letto, dicendo che la paura l’aveva agitato. Pagò per noialtri e uscimmo dal paese avviandoci al valico, indispettiti del modo come s’era condotto l’eremita e di vedere che non gli avevamo potuto togliere il denaro.

C’imbattemmo in un genovese (in uno, cioè, di questi anticristi delle finanze di Spagna)43 che, seguito da un paggio, riparandosi con l’ombrello da sole, con aria di gran signore, si dirigeva al valico. Ci attaccammo discorso: ogni cosa lo portava a ragionare di quattrini, da gente qual’è, nata apposta per mettere in borsa. Cominciò a parlare di Besanzone e se conveniva prestar danari a Besanzone, tanto che il soldato ed io gli domandammo chi era questo signore; al che egli rispose ridendo: – «È un paese d’Italia44 dove si riuniscono gli uomini d’affari che qui in Ispagna chiamiamo marioli della penna, a stabilire i prezzi da cui poi è regolato lo scambio del denaro». Dal che ricavammo che a Besanzone si dava il la per gli artisti degli unghioni. C’intrattenne per via col raccontarci che egli era rovinato, perché era fallito un cambio in cui era impegnato per piú di sessantamila scudi. E giurava sempre sulla sua coscienza; ma io penso che la coscienza nei commercianti è come la verginità in una ciana, che viene spacciata senza che ci sia. Di quanti sono di questa razza nessuno ha coscienza, perché sentendo dire che essa morde per un nonnulla, risolsero di disfarsene insieme col cordone ombelicale nel venire al mondo.

Con questi discorsi giungemmo alle mura di Segovia. Mi brillavano gli occhi dalla gioia, nonostante che la rimembranza, dopo i fatti di Capra, mi contrastasse la contentezza. Giunti all’abitato, nell’entrare vidi mio padre che era per la strada in attesa. Ne fui commosso. Entrai in città un po’ diverso da come n’ero venuto via, con la barba che mi spuntava e ben vestito. Lasciai la compagnia, e pensando a chi potesse nel paese, fuori del luogo della forca, conoscere meglio mio zio, non trovai nessuno da cui cominciare a domandare. Mi avvicinai ad un crocchio per chiedere di Alfonso Ramplón, ma nessun me ne sapeva dar conto, dicendo di non lo conoscere. Molto mi compiacqui che vi fosse tanta gente per bene; a un tratto, mentre ero in questo pensiero, sentii vociare a squarciagola l’araldo della frusta: mio zio era in funzione. Veniva una fila di denudati fino alla cintola, tutti in capelli, che precedevano mio zio; seguiva poi lui, fingendo molta ritrosia, con uno scudiscio in mano, suonando un ballabile popolare sui fianchi di cinque liuti che però avevano funi per corde. Io che assistevo a questo spettacolo in compagnia d’un tale (gli avevo detto, domandandogli di Alfonso Ramplón, che io ero un gran signore) vedo il mio buon zio, il quale nel passarmi vicino, avendomi scorto, si slanciò ad abbracciarmi, chiamandomi nipote. Credevo di morire dalla vergogna, e non mi rigirai neanche per congedarmi da colui col quale stavo. Me ne andai con mio zio che mi disse: – «Puoi venire qui con me, finché mi sbrigo da questa gente; ora si torna e oggi mangerai a casa mia». Io che mi trovavo a cavallo e che in quella processione avrei potuto parere un frustato, gli dissi che l’aspettavo . E cosí mi allontanai tanto mortificato che, se non fosse dipesa da lui la riscossione di quel mio capitale, non gli avrei parlato mai piú in vita mia né mi sarei piú mostrato in pubblico.

Finito che ebbe di ripassare quei tali, tornò, mi condusse a casa sua dove smontai e s’andò a pranzo.





40 Sono Pedro de Liñán de Riaza, Vicente Martínez Espinel, che dette il nome a una nuova forma metrica di strofa ottosillabica e scrisse il romanzo picaresco El escudero Marcos de Obregón (1618); don Alonso de Ercilla y Zúniga, autore dell’Araucana; Fr. de Figueroa; soprannominato «il divino» anche lui; Pedro de Padilla, raccoglitore di romances nazionali e divenuto frate carmelitano nei 1585; il grande Felix Lope de Vega y Carpio.



41 Il Cid Campeador (Ruy Diaz de Vivar) è l’eroe, tra storico e leggendario, dal poema nazionale spagnolo; ed eroe nazionale leggendario è Bernardo del Carpio.



42 Don Diego García de Paredes fu celebre capitano con don Gonzalo Fernández de Córdova, el gran capitán, nella guerra d’Italia sotto Ferd. il Cattolico e Carlo V. Giuliano Romero fu maestro di campo nelle Fiandre col Requesénz. Le spacconate di soldati millantatori dovevano essere usualissime. Anche Vicente de Roca nel Don Quijote (I, 51) è uno di questi.



43 Son pieni gli scrittori spagnoli antichi di risentimento contro i genovesi quattrinai che, esercitando i loro fiorenti commerci nella Spagna, dice il Botero «ne cavavano tante ricchezze e tesori, che non è città in Italia piú ricca in particolare» (Relaz. univers., I, 1). Avverso ad essi perché parteggianti per Spagna, il Boccalini dice che ne sono le Sanguisughe piú grosse, Ragguagli di Parnaso. «Las Indias de los Genoveses son nuestra España» nota il Suarez de Figueroa nel Pasagero chiamandoli «rabarbaro» che svuota la Spagna e «sutiles sanguisuelas de ricos reinos que con tanta suavidad chupan su mejor sangre» (Alivio I, pag. 6, 10, ed. Renacimiento).



44 Non dunque Besançon di Francia, come annota il Castro, che fu città spagnola in antico e patria di V. Hugo, ma Besanzone in provincia di Piacenza.



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