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STORIA DELLA VITA DEL PITOCCO CHIAMATO DON PAOLO ESEMPIO DEI VAGABONDI E SPECCHIO DEI TACCAGNI CAPITOLO XII. Della mia fuga e di quel che mi accaddefino a Madrid. |
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CAPITOLO XII. Della mia fuga e di quel che mi accaddefino a Madrid.
Quella mattina partiva per Madrid un vetturale con un carico di bagagli, e aveva con sé un giumento. Lo noleggiai ed uscii ad aspettarlo alla porta fuori dal paese. Venuto, mi c’infilai su e cominciai il mio viaggio. Andavo dicendo tra me: «Qui hai a stare, birba d’uno zio, infamia dei buoni, cavalier delle collottole!»
Pensavo che ero diretto alla capitale, dove nessuno mi conosceva (la cosa di maggior conforto per me) e che dovevo farmi onore con le mie attitudini. Risolsi che là, al mio arrivo, avrei smessa l’uniforme studentesca e indossati abiti corti alla moda. Ma torniamo a quello che il predetto mio zio faceva, offeso dalla lettera che diceva cosí: «Signor Alfonso Ramplón; dopo avermi Iddio fatto grazie tanto segnalate, come il levarmi di tra i piedi il mio buon padre e il tener mia madre a Toledo (dove, per lo meno, so che... fumigherà) non mi mancava se non di veder fare a vossignoria quello che fa agli altri. Io intendo di esser solo della mia razza, giacché due è impossibile; se pure non cado nelle vostre mani a essere affettato, come pratica con altri. Non dimandi di me, poiché mi preme rinnegare la comunanza del nostro sangue. Serva il re e Dio».
Non c’è bisogno di sbracciarsi a dir le maledizioni e i vituperi che dovette pronunziare contro di me. Torniamo al mio viaggio. Io me ne andavo a cavallo sul mio leardo mancego, assai desideroso di non incontrare nessuno, quando da lontano vidi venir un gentiluomo a passo lesto. Indossava la cappa, cingeva la spada, con i calzoni bene attillati e gli stivali, dall’aspetto signorile insomma, col collare spiegato sul petto e il cappello da un lato. Pensai che fosse qualche cavaliere che avesse lasciato indietro la sua carrozza, e cosí, al passargli vicino, lo salutai. Egli mi guardò e mi disse: – «Voi, signor dottore, su cotesto ronzino andate molto piú comodo che io con tutto il mio apparato. Io che capii che ciò dicesse per via della carrozza e dei servitori lasciati indietro, risposi: «Davvero, signore, lo ritengo un viaggiare piú tranquillamente che non in carrozza; perché, sebbene vossignoria se ne verrà in quella che ha dietro di sé, a suo bell’agio, quei sobbalzi che dà la carrozza sono molesti». Quale carrozza c’è addietro?» disse egli tutto sorpreso.
E voltandosi indietro, per il brusco movimento che fece, gli andarono giú le brache, essendoglisi rotta una cinghia ch’egli portava, la sola; tanto che, vedutomi crepar dalle risa a quello spettacolo, me ne dimandò una in prestito. Poiché osservai che della camicia non si vedeva se non un lembo e che aveva il codrione coperto a metà, gli dissi: – «Per Dio! signore, se non aspettate i vostri servitori, non posso venirvi in soccorso, perché anch’io non ne cingo che una sola». – «Se vossignoria, diss’egli reggendosi le brache tutte sforacchiate, vuole scherzare, smetta, giacché non capisco di che servitori parla». E riguardo alla sua povertà mi si aperse tanto che, dopo che avemmo fatto una mezza lega, mi confessò che se non gli facevo la cortesia di lasciarlo salire un po’ sul ronzino, non poteva recarsi alla capitale, stanco com’era del cammino e con le brache in mano. Mosso a compassione, smontai; e poiché lui non poteva lasciare andar le brache, lo dovetti sospingere su io. In quel palpeggiarlo pertanto, feci una scoperta terrificante; nel dietro, ricoperto dalla cappa, ci aveva i buchi senz’altra controfodera che le chiappe nude! Egli che si sentí in quel posto i miei occhi, da persona intelligente si preparò a dire: – «Signor dottore, non è oro tutto quel che splende. Al vedermi questo collare largo sul petto e al portamento, mi doveste prendere per un conte de Irlos46: nel mondo invece quanti e quanti, pastefrolle, ricoprono cosí quel che m’avete brancicato!» Gli risposi assicurandogli che in verità mi ero dato a credere a qualcosa di ben diverso da quel che vedevo. – «Eppure non ha visto ancor nulla vossignoria, soggiunse; c’è tanto infatti da vedere in me come son ricco, poiché non nascondo nulla. Eccovi davanti un fidalgo autentico, di casa e di nobiltà montanara47, che se mi tenesse su la nobiltà come la tengo su io, non avrei cosa desiderare; ma egli è, signor dottore, che senza pane e senza carne non si alimenta sangue di magnanimi lombi. Iddio misericordioso lo ha dato vermiglio a tutti, ma chi non ha nulla non può essere persona di qualche conto. E mi sono anche ben reso conto di quel che valgono le patenti di nobiltà, dopo che, trovandomi un giorno a digiuno, in un’osteria non mi vollero dare sul pegno della mia due bocconi. Eppure chi direbbe che le patenti non hanno lettere d’oro! Ma l’oro varrebbe piú in pillole che in lettere; arreca piú vantaggio; tuttavia ben poche lettere ci sono che siano d’oro. Ho venduto perfino il sepolcro di famiglia per essermi ridotto povero in canna, giacché la sostanza di mio padre, Toribio Rodríguez Vallejo Gómez de Ampuero – tutti questi nomi aveva – andò perduta in una mallevadoria. M’è rimasto da vendere solo il don, ma son tanto disgraziato da non trovar nessuno che n’abbia bisogno, perché chi non l’ha davanti al nome, l’ha dopo il nome, come Donadon, Faccendon, Cardon, Brandon, Bordon e altri simili»48.
Confesso che le disgrazie di questo fidalgo, accompagnate ogni tanto, nel racconto, da una risata, mi divertirono. Gli domandai come si chiamava, dove andava e a far che. Mi sciorinò tutti i nomi di suo padre: Don Toribio Rodríguez Vallejo Gómez de Ampuero y Jordán. Non si sentí mai un nome scampanare di piú, poiché finiva in dan e cominciava in don, come fossero colpi di battaglio. Disse quindi che andava alla capitale, perché un primogenito, povero in canna come lui, in un paese piccolo, in due giorni ci cominciava a sitare e non gli era possibile mantenercisi. Perció se n’andava nella patria di tutti dove c’entrano tutti e dove c’è tavola bandita per gli stomachi che stanno alla ventura. «Quando sono nella capitale, diceva, non mi mancano mai cento reali nella borsa, letto, da mangiare e qualche divertimento eslege, perché l’industriarsi nella capitale è come una pietra filosofale che muta in oro quanto tocca». Io vidi spalancarsi il paradiso, e cosí come se fosse tanto per alleviare, conversando, la noia del viaggio, lo pregai che mi contasse come e con chi vivono nella capitate quelli che, come lui, non avevano nulla, giacché mi pareva cosa difficile; e uno poi non si contenta solo di quel che ha, ma l’altrui dà anche qualche pensiero. – «Figlio mio, disse, ce n’è tanti e di questi e di quelli: la lusinga è la chiave maestra che, in mezzo a tal gente, apre tutte le volontà. E perché non ti riesca difficile quel che dico, ascolta i miei casi e miei disegni, e ti leverai ogni dubbio».