Francisco de Quevedo
Vita del pitocco
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STORIA DELLA VITA DEL PITOCCO CHIAMATO DON PAOLO ESEMPIO DEI VAGABONDI E SPECCHIO DEI TACCAGNI

CAPITOLO XIII. In cui il fidalgo prosegue il viaggio e la narrazione di quel che ha promesso della sua vita e dei suoi costumi.

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CAPITOLO XIII. In cui il fidalgo prosegue il viaggio e la narrazione di quel che ha promesso della sua vita e dei suoi costumi.

«Prima di tutto devi sapere che nella capitale c’è sempre il grande stupido e il gran giudizioso, il gran ricco e il gran povero, insomma gli estremi d’ogni cosa; che per i malvagi si lascia correre e vi sono ignorati i buoni; che vi è una certa specie di gente, come sarei io, di cui non si sa né di dove venga, né cosa abbia, né altro che la riguardi. Fra noi altri ci distinguiamo con nomi diversi: alcuni ci chiamiamo cavalieri ciuccianespole, altri ovapasse, soldifalsi, cacherelli, malingambe e merdadicane. Il darsi da fare è la nostra risorsa; il piú delle volte ce la passiamo a stomaco vuoto, perche è un affar serio attirare a sé il mangiare che è nelle mani degli altri. Noi siamo terrore dei banchetti, tignole dell’osterie e convitati per imposizione. Si vive cosí d’aria e si sta allegri: siamo gente che mangiamo un porro e diamo a divedere che ci si tratta a capponi. Se uno ci viene a trovare ed entra nelle nostre case, troverà le nostre stanze piene d’ossa di montone e d’uccellame, buccie di frutta, la porta seminata di penne, di pelli di conìglioli: è tutta roba che raccogliamo per le strade durante la notte per farcene belli il giorno dopo. Nell’entrare in casa si fa questione col padrone: «Possibil mai che non mi riesca di fare spazzare a questa serva? – «Scusi tanto, sa: son venuti a desinare certi amici, e questi servitori....» Chi non ci conosce crede che sia vero e si pensa che ci sia stato pranzo.

«Inoltre, che dirò di come si fa per andare a mangiare in casa degli altri? Parlando una mezza volta con uno, già sappiamo dove abita: poi, sempre a ora di pappare, quando sappiamo che è a tavola, gli andiamo a dire che ci ha spinti il piacere di star con lui, giacché persone cosí elevate non ce n’è al mondo. Se ci domanda se abbiamo mangiato e si è ancora a principio, diciamo che no, e se ci s’invita, non aspettiamo che ci si ripeta l’invito, perché talvolta da questo aspettare ne son seguiti di gran digiuni. Se poi hanno cominciato, allora diciamo che , ma per quanto l’amico sappia dividere molto bene il pollo, pane, carne, quel che sia, diciamo, a fine di coglier l’occasione d’ingollare un boccone: «Ora permetta vossignoria, che voglio servirla da scalco: era solito, Dio l’abbia in gloria! (e qui si nomina un gran signore morto, duca o conte) aver piú piacere a vedermi scalcare che mangiare». E in cosí dire, prendiamo il coltello, facciamo le parti e infine diciamo: «Che buon odore! Sarebbe certo un far torto alla cuoca il non assaggiarne; ma com’è brava!». Cosí, con dire e con fare, se ne va mezzo piatto in assaggi: il navone perché navone, il prosciutto perché prosciutto, insomma tutto per quello che è. Quando questo manca, allora abbiamo la zuppa da qualche convento fissa; e non la prendiamo cosí in pubblico, bensí senza farci vedere, facendo credere ai frati che è piú per devozione che per bisogno.

Bisogna vedere qualcuno di noi in qualche casa da giuoco, tutto premuroso a servire, a smoccolare le candele, a portare orinali: e come prepara le carte, come porta alle stelle i meriti di quello che guadagna, e tutto per un misero reale di mancia.

Per quel che riguarda il nostro vestire, sappiamo a mente tutti i rigattieri. E come altrove c’è l’ora stabilita per pregare, noi ce l’abbiamo per rattopparci. Bisogna vedere la roba differente che ci si mette indosso!.... Perché abbiamo per nemico dichiarato il sole, in quanto che mette in mostra i rammendi, i buchi, i nostri cenci, ci mettiamo la mattina, con le gambe aperte, di contro ai suoi raggi, e nell’ombra, per terra, vediamo i profili dei brandelli e le filacciche all’inforcatura: allora noi con un paio di forbici facciamo la barba alle brache. E poiché queste si consumano sotto il cavallo, bisogna vedere come ritagliamo dei pezzi di dietro per popolarne il davanti; perciò siamo soliti portare la parte posteriore delle brache cosí scussa della stoffa che non ci rimane se non la fodera di baiettone. Ma questo lo sa soltanto il ferraiolo, e ci guardiamo bene dalle giornate ventose o dall’andar su per scale illuminate o a cavallo; si cerca di metterci contro luce, e nelle giornate di sole si cammina con le gambe strette strette, salutiamo dritti sugli stinchi, perché, a divaricare le ginocchia, ci sarebbe da vedere tutta quella fila di finestre. Non portiamo addosso cosa che non sia stata un’altra cosa e non abbia una storia. Verbi gratia: ben vede vossignoria questo giubbone; ebbene, una volta erano brache, nepote di un mantello e bisnepote di un cappuccio, qual’era in principio, e ora attende di diventare delle solette e chi sa quante altre cose. I calzerotti furono un tempo pezzuole, dopo essere stati asciugamani e prima camicie; figlie queste di lenzuoli, finché ci servono per farne carta; e la carta poi ci serve per scrivere, e della carta ne facciamo nerofumo per ridar vita alle scarpe; di rifinite che erano ne ho viste io ritornate nuove in seguito a simile rimedio. Inoltre, che dire del modo che usiamo, per scansare la luce di sera perché non si vedano calvi i ferraioli e imberbi i giubboni? Giacché i nostri giubboni non hanno piú pelo d’un ciottolo. Ma ringraziamo Dio che per darcelo al mento ce l’ha tolto al mantello. Per non spendere poi nel barbiere, siamo sempre disposti ad aspettare che uno di noi abbia la barba lunga, e allora ce la radiamo l’un con l’altro secondo il detto del Vangelo: «aiutatevi da buoni fratelli». Ancora: abbiamo cura di non andare gli uni per le case che frequentano gli altri, se sappiamo che qualcuno pratica le stesse persone d’un altro. Bisogna vedere come gli stomachi si danno da fare!....

Siamo obbligati ad andare a cavallo una volta al mese, magari sopra un ciuchino, per la pubblica via, ed andare in carrozza una volta l’anno, magari a cassetta o di dietro. Che se talvolta si va proprio dentro nella carrozza, si pensi come sempre si sta allo sportello con tutta la collottola di fuori, dispensando saluti, perché ci vedano tutti, e parlando ad amici e conoscenti, anche che guardino da un’altra parte.

Se ci sentiamo prudere davanti a dalle signore, abbiamo dei ripieghi per grattarci in pubblico senza che se n’avvedano: cioè se ci prude nelle gambe, raccontiamo d’aver veduto un soldato trafitto da parte a parte , e mettiamo le mani su quelle bestioline che ci rodono e ci grattiamo come fosse per indicare il punto; se è in chiesa e ci prude in petto, ce lo battiamo come se la messa, magari appena all’Introibo, fosse al Sanctus. Levatici in piedi e appoggiati a un angolo della parete, facendo vista di rizzarci sulla punta dei piedi per veder qualcosa, ci si gratta. Che dire delle nostre bugie? Mai la verità in bocca a noi: cosí nel conversare, tiriamo in ballo duchi e conti, gli uni come amici nostri, gli altri come parenti, avendo l’avvertenza di dire che questi tali signori o son morti o son molto lontani. È poi da notare soprattutto che non ci s’innamora se non per via della pappatoria, giacché la nostra regola ci tiene lontani da signore tutte leziosaggini, per quanto leggiadre; perciò siamo sempre in cerca di un’ostessa per poter mangiare, di un’albergatrice per avere un alloggio, di una stiratrice per avere collari da portare. E quantunque mangiando cosí poco e bevendo cosí male, non si arrivi a sdebitarci con tante, pure tutte sono contente ciascuna della propria mansione. A vedere questi miei stivaloni, chi penserebbe mai che mi cingono le gambe nude, senza calze o altro? Chi poi osservasse questo collare, perché dovrebbe pensare che son senza camicia? A un cavaliere, signor dottore, gli potrà mancare tutto questo, ma un largo collare e inamidato no: in primo luogo perché dona tanto, poi perché dopo averlo rigirato dall’una parte all’altra, è nutritivo, potendone uno, ciucciandolo con bel modo, alimentarsi dell’amido. In conclusione, signor dottore, un cavaliere come noi avrà piú mancamenti che una donna incinta di nove mesi; tuttavia vive nella capitale, ora è in condizioni floride e in quattrini e ora si riduce all’ospedale; ma, in fin dei conti, campa, e chi si sa barcamenare, sta da re col poco che abbia».

A sentire gli strani modi di vivere del fidalgo, ci presi tanto spasso e tanto mi c’incantai che, distratto dal racconto di questi e altri, arrivai cosí a piedi fino alle Rozas dove rimanemmo quella notte. Stette questo fidalgo a cena con me, poiché non aveva un quattrino, e io poi mi trovavo in obbligo con lui per i suoi avvertimenti, giacché con questi mi aprí gli occhi intorno a molte cose, disponendomi al gramignare49. Prima di andarcene a letto gli manifestai i miei desideri, ed egli mi dette mille abbracci dicendo d’aver sempre sperato che le sue parole avrebbero fatto impressione in uno di cosí bell’ingegno come me. Mi profferse il suo appoggio per presentarmi nella capitale, agli altri confratelli in gramigna e farmi alloggiare in comune con loro tutti. Io l’accettai senza dirgli che avevo addosso quelli scudi, ma soltanto un cento reali i quali, con la buona azione già usatagli della cena e quella che ora gli usavo, bastarono a farmelo amico: gli comprai, cioè, dall’albergatore tre cinghie e cosí si legò le brache. Dormimmo quella notte, ci levammo di buon’ora e fummo, sani e salvi, a Madrid.





49 È del parlare furbesco italiano antico, corrispondente alla furbesca spagnola chirlería = truffa, viver d’industria.



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