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DELLA VITA DEL PITOCCO LIBRO SECONDO. CAPITOLO I. Di ciò che mi successe nella capitale dall’ora che vi giunsi fino alla sera. |
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CAPITOLO I. Di ciò che mi successe nella capitale dall’ora che vi giunsi fino alla sera.
Alle dieci della mattina entrammo nella capitale e andammo, di comune accordo, a smontare in casa degli amici di don Toribio. Giunti alla porta, egli bussò: gli venne ad aprire una vecchina coperta di molto poveri panni e molto in là con gli anni. Le domandò degli amici ed ella rispose che erano andati alla cerca. Rimanemmo soli finché suonarono le dodici, passando il tempo lui ad incoraggiarmi alla vita a poco costo, ed io a osservar tutto. Alle dodici e mezzo, apparve sul vano della porta una figura allampanata, vestita d’un tonacone fino ai piedi, logoro piú che non fosse la sua onoratezza. Si parlarono tra loro due in gergo, e il risultato si fu che quel tale mi abbracciò e mi si profferse. Conversammo un po’, e poi egli tirò fuori un guanto con dentro sedici reali e una lettera, mediante la quale (dicendo che era il permesso di una colletta per una povera) li aveva raccolti; svuotò il guanto, ne tirò fuori un altro e li ripiegò l’uno su l’altro come fanno i medici50. Gli domandai perché non se li metteva, ed egli mi disse che erano tutti e due d’una stessa mano, una finta, tanto per portare dei guanti. Frattanto notai che non si sbarazzava del mantello; perciò gli domandai (novizio qual’ero e desideroso d’apprendere) il motivo dello star sempre cosí avvolto nella cappa. Al che egli rispose: «Figliuolo, sul dorso ci ho una tana con una toppa di lanetta e una macchia d’olio; questo straccio di mantello me la nasconde, e cosí posso andar per via. Levatosi poi il mantello, trovai che sotto la tonaca, ci aveva un gran gonfio. Pensai che fossero brache, poiché parevano tali, quand’egli, accingendosi a spidocchiarsi, si tirò su le falde della zimarra; e allora vidi che erano due rotoli di cartone ch’egli portava legati alla cintola e aderenti alle coscie di modo che dal di sotto davano all’abito un’apparenza da lutto, giacché costui non portava né camicia né brache; a mala pena ci aveva dove cercarsi i pidocchi, nudo com’era. Entrò nel camerino destinato allo spidocchiamento e rigirò una tavoletta, come quelle che mettono nelle sagrestie51, dove era scritto: «C’è uno che si spidocchia» affinché non entrasse un altro. Resi a Dio vive grazie, vedendo che dono aveva fatto agli uomini facendoli industriosi, dal momento che aveva loro negato d’esser ricchi: «Io, disse il mio buon amico, vengo dal viaggio con le brache malatuccie, perciò dovrò ritirarmi a rassettarle». Domandò se c’erano delle toppe, e la vecchia, che due giorni la settimana raccoglieva stracci per le strade, una di quelle che trafficano con la carta per rimediare a mali irrimediabili dei loro padroni, disse di no, e che appunto per non esserci cenci, se ne stava a letto, da quindici giorni, con una malattia al giubbone don Lorenzo Iñiguez del Pedroso.
Eravamo in questi discorsi quando venne un tale con certi suoi stivali da viaggio, vestito di grigio e con un cappello dalle falde rialzate ai due lati. Saputo del mio arrivo dagli altri, mi parlò molto affettuosamente, poi si tolse il mantello e io vidi che portava (guardi un po’ il lettore chi l’avrebbe mai potuto pensare), il giubbone di panno grigio davanti e di tela bianca di dietro: faceva da fodera la pelle tutta sudata. Io non potei trattenermi dal ridere, sí ch’egli, dissimulando molto bene, disse: «Quando si troverà al combattere vedrà che non riderà: scommetto che non sa perché porto questo cappello con la tesa rivolta in su». Risposi che per eleganza e per dare nell’occhio. «Per non dare anzi, disse; è, sappiatelo, perché manca del nastro a treccia, e cosí non si vede». E nel dir questo, tirò fuori piú di venti lettere e altrettanti reali, dicendo che quelle non aveva potuto esitarle. Ciascuna importava un reale ed erano scritte tutte da lui con la firma di chi gli pareva. Vi ci scriveva notizie di sua invenzione alle persone piú ragguardevoli e le consegnava, vestito a quel modo, ritirando l’importo. E ciò ogni mese: fu una cosa che mi fece strabiliare il vedere la singolarità di quel vivere.
Subito dopo entrarono altri due; l’uno con un giubbone di panno, lungo fino a metà dei pantaloni alla vallona, col mantello pure di panno; col bavero rialzato perché non si vedesse il terzone ch’era strappato. I pantaloni alla vallona erano di cambellotto fin dove rimanevano scoperti, ma non piú su; il resto di baiettone rosso. Costui veniva gridando con quell’altro che portava un collare semplice, non avendone uno a lattughe, e le maniche a fiaschette da caccia per via del non portar mantello, una gruccia ed una gamba avvolta in cenci e pelli, non avendo che un calzonetto. Si spacciava per soldato, ed era stato; cattivo soldato però e sempre al riparo. Raccontava ch’erano stati servizi straordinarî i suoi, e intanto col titolo che si dava di soldato entrava ovunque. Diceva quello dal giubbone e dai semicalzonetti: – «Voi mi dovete la metà o per lo meno gran parte. Se non me la date giuro a Dio...». «Non giurate a Dio disse l’altro, perché, arrivato a casa, io non son piú zoppo, e allora con questa stampella vi darò mille bastonate». Me le darete, non me le darete! Dopo i soliti improperi si dettero addosso l’un l’altro e, acciuffatisi, ne uscirono con i brandelli dei vestiti in mano ai primi strattoni. Noi li rappacificammo e dimandammo il motivo della questione. Disse il soldato: – «Scherzi a me? Neanche mezzo ne avrete. Han da sapere lor signori che, stando a San Salvador, un ragazzo si avvicinò a questo disgraziato e gli domandò se io ero l’alfiere di Giovanni di Lorenzana. Egli disse di sí, tenendo d’occhio non so cosa che aveva visto che quegli aveva in mano. Lo condusse a me e disse, chiamandomi alfiere: – «Veda vossignoria che questo ragazzo la cerca. Io, capito tutto, dissi che ero io. Presi la missiva e con essa dodici fazzoletti e feci la risposta alla madre sua la quale li inviava a qualcuno di questo nome. Ora egli vuole da me la metà; ma prima mi farò fare a pezzi che dargliela; deve finirli tutti il mio naso». La causa fu decisa in favor suo; soltanto gli si negò il diritto di soffiarcisi, ordinandogli che li consegnasse alla vecchia, in servigio della comunità, per farne orli di maniche da mettere in mostra e da sembrare camicie, dal momento che soffiarsi il naso era proibito.
Giunse la notte: ci coricammo cosí pigiati che si pareva tanti ferri dentro un astuccio. La cena se ne passò bianca bianca; i piú non si spogliarono poiché, mettendosi a letto cosí come uscivano il giorno, si trovavano in regola con l’uso che vuole che si vada a letto ignudi.